AMORE, CUCINA E HELEN MIRREN

Titolo: Amore, cucina e curry

Regia: Lasse Hallstrom

Sceneggiatura: Steven Knight

Anno: 2014

Durata: 122’

Nazione: USA, India

Musiche: A. R. Rahman

Interpreti: Helen Mirren, Om Puri

 

Titolo: Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante

Titolo originale: The Cook, the Thief, His Wife & Her Lover

Regia: Peter Greenaway

Sceneggiatura: Peter Greenaway

Anno: 1989

Durata: 124’

Nazione: Gran Bretagna, Francia

Montaggio: John Wilson

Fotografia: Sacha Vierny

Interpreti: Helen Mirren, Richard Bohringer, Michael Gambon

 

Una creatura inglese sublime, “scoperta” tardi dal pubblico mainstream, Helen Mirren (classe 1945), si fa portavoce della creatività culinaria nell’ultima fatica di Lasse Hallström Amore, cucina e curry, titolo sempliciotto che non rende giustizia a quello originale, ben più poetico: The Hundred-Foot Journey.

Cento passi separano il raffinato ristorante stellato di Madame Mallory da quello più ruspante della famiglia Kadam, emigrata dall’India versa l’Europa in cerca di riscatto (sia professionale che personale). Hassan, uno dei figli della sconquassata famigliola indi ha talento da vendere in cucina, il cibo è la sua forza, la madre scomparsa il suo guru spirituale. Attraverso l’aiuto di Marguerite (una giovane aspirante chef della cricca Mallory) e dei libri sulla cucina francese che gli ha regalato, Hassan inizierà un cammino introspettivo verso l’arte gastronomica più raffinata: dalle salse basiche come la besciamella a piatti più ricercati come il piccione con tartufi. Ma sarà un’omelette a far capire il suo potenziale genio alla (inizialmente) scettica Madame Mallory, la quale lo prenderà sotto la sua ala protettrice riuscendo così a fargli toccare le vette più alte del prestigio.

Un film che molti hanno definito “semplice”, ed è proprio per questo che l’ho trovato interessante: gustoso, leggero, raffinato e melenso al punto giusto (co-producono Steven Spielberg e Oprah Winfrey). Un’ottima cena che dall’antipasto (l’arrivo nel paesino francese della famigliola indiana) al dolce (Hassan sceglie quello che ritiene giusto fare e quindi preferisce rimanere accanto ai propri cari, Marguerite compresa) non stona quasi mai. Il saccarosio aumenta durante i dialoghi tra il giovane chef e la bella Marguerite ma viene ben stemperato dai divertenti duetti acidi tra Madame Mallory alias Helen Mirren e il patriarca dei Kadam (il bollywoodiano Om Puri). Non è il filmone impegnato da intellettuale carico di significati intrinseci, anche se una chiave di lettura interessante la si trova sempre: dall’evidente diversificazione dell culture ed etnie che compongono la storia, alla più sottile liaison tra l’arte culinaria e il rapporto con la società odierna fatta di innovazioni gastronomiche e tecnologiche.

Dopo la visione del film di Hallström, ho trovato interessante creare un collegamento con Peter Greenaway e il suo Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989), dove la moglie del titolo è interpretata sempre da Helen Mirren, figura emblematica per entrambe le opere.

Nel film di Hallström vediamo una Mirren in cucina, ottima maîtresse tutta d’un pezzo, vedova, inflessibile e pure un po’ stronza (nella prima metà del film). Nel film di Greenaway invece, abbiamo una Mirren che si dipana tra sala e cucina, moglie frustrata e amante insoddisfatta di uno psicopatico criminale ingordo e violento, infelice a tal punto da tradirlo proprio nei bagni del ristorante (di proprietà del marito) dove si svolge la maggior parte della vicenda.

In Hallström, il personaggio di Madame Mallory parte come antagonista e si evolve positivamente nel corso della storia riuscendo a creare un proprio percorso emozionale che culminerà nel finale un po’ sdolcinato, come si è detto sopra. Pure in Greenaway si nota un’evoluzione del personaggio della moglie (Georgina): da una partenza apatica scalfita solo dall’attrazione fedifraga che nutre nei confronti del libraio Michael (l’amante del titolo), al tremendo – e geniale – finale vendicativo che riserverà all’abominevole marito: gli farà mangiare il cadavere di Michael ucciso proprio da lui.

Se in Greenaway, quindi, vediamo un’evoluzione sarcastica del personaggio femminile, dove dalla statica apatia si arriva a una catarsi violenta (ed efficacissima), in Hallström l’evoluzione rimane più canonica ma comunque ben scandita dalla sequenzialità degli eventi.

Due ottime prove recitative per un’attrice formidabile, fascinosa e di classe: Helen Mirren. Una garanzia. Sempre.

 

Voto per Hallström: 7,5

Voto per Greenaway: 9,5

Voto per Mirren: 10

Francesco Foschini

INSURGENT

Regia: Robert Schwentke

Sceneggiatura: Brian Duffield, Akiva Goldsman, Mark Bomback

Anno: 2015

Durata: 119’

Nazione: USA

Fotografia: Florian Ballhaus

Montaggio: Stuart Levy, Nancy Richardson

Interpreti: Shailene Woodley, Theo James, Kate Winslet, Miles Teller, Octavia Spencer, Ansel Elgort, Naomi Watts, Jai Courtney, Zoë Kravitz, Maggie Q, Ray Stevenson

TRAMA

Dopo la grande ribellione alcuni Intrepidi si rifugiano presso un villaggio di Pacifici. Costretti a scappare a causa di tensioni che si crearono all’interno della fazione, Tris e Quattro trovano esilio presso gli Esclusi, guidati dalla madre di Quattro, la quale ritorna, dopo anni di assenza, con lo scopo di creare un nuovo esercito per compiere una rivoluzione. Intanto Jeanine, malvagia leader degli eruditi, cerca il “divergente puro”, che possa decriptare un misterioso artefatto lasciato dagli Antichi e portatore di un segreto che possa ristabilire la pace sociale ormai perduta.

RECENSIONE

Dopo anni di guerra e sofferenza, il genere umano arriva a un punto in cui l’unico modo di sopravvivere è la creazione di un nuovo sistema di democrazia fondato su cinque modi di essere, cinque fazioni, cinque famiglie costruite su valori e modelli di comportamento ben definite e che rappresentano la società così formata. Gli Eruditi rappresentano l’umano raziocinio, la logica e l’intelligenza scientifica. I Pacifici rappresentano la pace, la libertà e la serenità interiore, rinnegando ogni tipo di conflitto, guerra o sopruso. I Candidi fondano la loro esistenza sull’onestà e la schiettezza reciproca, non ammettendo alcuna forma di menzogna o mezza verità. Gli Abneganti rappresentano l’altruismo portato agli estremi, dimenticando completamente se stessi e mettendosi a totale servizio del prossimo. Gli Intrepidi infine rappresentano il coraggio e la forza di andare oltre le proprie paure, sottoponendosi a sfide di volta in volta sempre più temerarie e rischiose.

InsurgentTris

Quello che può sembrare un mondo in cui vige l’ordine supremo, l’armonia e la convivenza tra più diversità, non è altro che una mera illusione, l’ingenua convinzione che tutto possa essere controllato meccanicamente, che le persone possano essere inquadrate e ridotte ad un’unica categoria al fine di plasmare una società pura, non incline a stranezze o devianze al di fuori dello stato “naturale” delle cose. Follia! Persino nel mondo naturale e animale ci sono “divergenze”, mutazioni genetiche assolutamente naturali ma che esulano da una qualsiasi comprensione logica. La pellicola di Robert Schwentke parla di loro. Dei “divergenti”. Di coloro che non appartengono ad un’unica fazione ma a tutte al tempo stesso e che invece di nascondersi e omologarsi ad un sistema che li vuole docili e remissivi, si ribellano, combattono e a volte muoiono. Insurgent come Divergent prima di lui, è un film sulle scelte che ognuno di noi compie, che possono cambiare la nostra vita e che in un modo o nell’altro ci definiscono come persone. È un film che fa comprendere l’inutilità di combattere ciò che è fuori dal nostro controllo, che è sfuggente, la cui natura è spesso terribilmente incomprensibile. Non è la loro esistenza che crea squilibrio quanto l’avvilente ostinazione a volerle combattere. Ambientato in una Chicago futuristica, ai confini tra il genere avventuroso, fantascientifico e sentimentale, “Insurgent” segue la fuga di Tris (interpretata da Shailene Woodley) e dei Divergenti, sfuggiti temporaneamente al controllo di Jaenine, un’incredibile Kate Winslet per la prima volta nelle vesti di una dominatrice sadica e senza scrupoli, il cui intento è quello di ucciderli al fine di ristabilire l’ordine sociale. Film intrigante e passionale, ha riacceso gli animi del pubblico a seguito dell’incredibile successo di Hunger game.

Voto: 8,5

Martina Malavenda

VIZIO DI FORMA

Titolo originale: Inherent Vice

Regia: Paul Thomas Anderson

Soggetto: Thomas Pynchon

Sceneggiatura: Paul Thomas Anderson

Anno: 2014

Durata: 148’

Nazione: USa

Fotografia: Robert Elswit

Montaggio: Melanie Oliver, Leslie Jones

Scenografia: David Crank

Interpreti: Joaquin Phoenix, Josh Brolin, Owen Wilson, Katherine Waterstone, Reese Whiterspoon, Benicio Del Toro, Jena Malone, Maya Rudolph, Martin Short

TRAMA

In una vivace Los Angeles anni 70, DOC, eccentrico investigatore tossicomane (Joaquin Phoenix), riceve un’inaspettata visita dalla sua ex Shasta che gli chiede aiuto. L’affascinante ragazza vuole evitare che il miliardario con cui intrattiene una relazione, venga fatto internare dalla moglie e dall’amante di quest’ultima. DOC accettando l’incarico sarà catapultato in una surreale realtà che avrà come suoi protagonisti  personaggi alquanto strampalati. Esponenti della giustizia americana, guardie del corpo naziste, hippies, prostitute orientali, tossici ecc. ecc insieme in un mash-up originale che sconfina nell’assurdo tragicomico.

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RECENSIONE

Prima di interrogarci su qualsiasi cosa assomigli all’arcano messaggio di una sceneggiatura caotica, o di un titolo che in italiano, forse,  è un po’ troppo “lost in translation”, dobbiamo fissare nella nostra mente che “Vizio di forma” nasce dal romanzo di Pynchon e cresce nell’adattamento di Paul Thomas Anderson. L’importante quindi è non farsi sopraffare dalla complessità di seguire un plot dove il collegamento tra le scene è praticamente inesistente, ma godere dell’ “art pour l’art”, senza doverne scovare per forza un senso. Ci si trova  allora  certamente  di fronte ad un’ottima fotografia, all’abilità di un cast di primordine, alla pertinenza della colonna sonora, al suono piacevole di nostalgici e coloratissimi telefoni vintage e a divertenti travestimenti avventurosi. Il grottesco ottenuto  attraverso lo sguardo, i sandali e la camminata di Joaquin Phoenix, ci suggerisce quanto l’attore con i suoi occhi verdi cosi come in “Her”, ma con più occhiaie di certo, sia  in grado di essere il centro dell’instancabile obbiettivo per tutta la durata del film.

Cosi guidati dal voice over dei pensieri strafatti del protagonista, ci si addentra in nebbie fittissime,  dove la  droga diventa regina indiscussa  e l’allucinazione si propone come dimensione legittima ma non assoluta, in un “Paura e delirio a Las Vegas” decisamente moderato.

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La trasposizione complicata di una scrittura labirintica come quella di Pynchon diventa problematica quando il tempo del viaggio al limite del visionario si allunga eccessivamente e l’impossibile trama non riesce a travolgere più di una noia che è purtroppo  in agguato. “Vizio di forma”, infatti, a mio parere, pur nella sua originalità, si dilunga eccessivamente rischiando che lo spettatore da coinvolto diventi esausto. Questo è uno di quei film a cui non riesci a dare una categoria o un giudizio, una di quelle opere che può solo piacerti o non piacerti: ma in ogni caso non si riuscirà a raccontare una sola scena appena usciti dalla sala.

Voto 6.5

Sabrina Di Stefano

KIDS

Regia: Larry Clark

Sceneggiatura: Harmony Korine

Anno: 1995

Durata: 88’

Nazione: USA

Fotografia: Eric Alan Edwards

Montaggio: Christopher Tellefsen

Scenografia:

Costumi:

Colonna sonora: John Davis, Randall Poster, Lou Barlow

Interpreti: Sajan Bhagat, Adriane Brown, Christian Brums, Joseph Chan, Rosario Dawson

TRAMA

Il film segue per 24 ore un gruppo di ragazzi negli anni ’90 e ne immortala il degrado. Fanno parte della brigata: una giovane sieropositiva alla ricerca disperata di chi le ha trasmesso il virus e un ragazzino che si diletta in opere di sverginamento. Tra abusi fisici e mentali si conclude la giornata sconcertante di questi adolescenti.

RECENSIONE

Larry Clark è qui alla sua opera prima. Già noto come fotografo, nel 1995 si approccia al suo lungometraggio con lo stesso metodo con cui si approccia alle immagini, ovvero senza dare giudizi. L’occhio della cinepresa mostra vite caotiche e scombinate. Manca però, la presunzione di trasmettere una morale. I temi proposti sono scioccanti e controversi.

Kids

Il film vede la luce grazie a personalità note nella scena indipendente. È scritto infatti, insieme ad Harmony Korine, di cui Larry Clark si servirà anche per la sceneggiatura di Ken Park e prodotto da Gus Van Sant, regista che non ha bisogno d’introduzioni. Troviamo addirittura al suo esordio una giovane Chloë Sevigny, che diventerà una delle reginette di questo genere di cinema.

Presentata in concorso al 48° Festival di Cannes, la pellicola impone allo spettatore di non scandalizzarsi e restare a guardare adolescenti completamente abbandonati a loro stessi, incapaci di trovare un punto d’incontro con gli adulti, che dal canto loro sono totalmente assenti dalla vita dei ragazzi. Risulta difficile amare questo film al primo sguardo, il linguaggio è davvero pesante, le riprese volutamente aspre e complicato è entrare in empatia con i protagonisti. A un secondo sguardo ci accorgiamo, però, di quanto sia terribile e doloroso il mondo che ci viene mostrato. Allora non proviamo pietà, semmai smarrimento di fronte ad una realtà che sembra lontana, ma che non lo è poi così tanto.

Voto: 7

Lisa Fornaciari

AMERICAN HUSTLE

Regia: David O. Russel

Sceneggiatura: Eric Singer, David O. Russel

Anno: 2013

Durata: 138’

Nazione: USA

Fotografia: Linus Sandgren

Montaggio: Alan Baumgarten, Jay Cassidy, Crispin Struthers

Scenografia: Jesse Rosenthal

Costumi: Michael Wikinson

Colonna sonora: Danny Elfman

Interpreti: Christian Bale, Amy Adams, Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Jeremy Renner, Michael Pena, Robert De Niro (non accreditato)

TRAMA

Un sedicente truffatore viene coinvolto in un affare più grande di lui che lo porterà a riflettere sulla propria vita.

RECENSIONE

Il sottotitolo del film – “L’apparenza inganna” – non potevo meglio riassumere il senso di un film di grandi aspettative, ma mendace nella sostanza. La pellicola ha tutti gli accessori giusti: un grande attore che trasforma il suo corpo di film in film, un’ambientazione molto cool, dei costumi fantastici è una serie di altri grandi attori pluripremiati e con nomi di richiamo. Qui risiede il peccato originale del film: avere tanto materiale e tanta carne da mettere al fuoco, ma bruciarla con una trama e delle caratterizzazioni dei personaggi poco curate.

american hustle

Abbiamo un infallibile truffatore che sa come manipolare tutti quelli che ha accanto, tranne la moglie, nonostante essa abbia dei difetti talmente evidenti e irritanti che anche uno con poche risorse saprebbe come divincolarsi da lei senza farsi mangiare dal senso di colpa. Abbiamo una truffa fatta per catturare grandi politici con le mani in pasta (ma siamo sicuri? Si parla in slang di “pezzi grossi” ammiccando allo spettatore)  che un detective decide di mettere in piedi senza un vero obiettivo ma continuando nel corso del film a dire “aspettiamo” per capire cosa succederà.
Lui stesso verrà poi messo incredibilmente da parte. In ultimo, abbiamo un finale che cerca di chiudere la storia in maniera semplicistica e risolvendo problemi e le situazioni difficoltose in poche scene. Ci sono quindi motivi per vedere questo film, ma quello principale purtroppo non c’è: manca una bella storia. Puntare sui orpelli forse ti porta a fare cassa e richiama anche i grandi numeri ma non si può mettere la trama a parte. Sintetizzando:”are you serious? Try again please”.

Voto 4

Daniele Somenzi

CALIGOLA

Regia: Tinto Brass, Bob Guccione (non accreditato), Giancarlo Lui (non accreditato)

Sceneggiatura: Gore Vidal, Bob Guccione, Giancarlo Lui

Anno: 1979

Durata: 154′

Nazione: Italia, USA

Fotografia: Silvano Ippoliti

Montaggio: Nino Baragli

Scenografia: Danilo Donati

Costumi: Danilo Donati

Colonna sonora: Paul Clemente

Interpreti: Malcolm McDowell, Teresa Ann Savoy, Hellen Mirren

TRAMA

Il regno dell’imperatore romano Gaio Cesare Germanico, detto Caligola. Decisamente poco storico, molto pornografico!

RECENSIONE

“Attraverso Caligola, per la prima volta nella storia, la poesia provoca l’azione e il sogno la realizza. Lui fa ciò che sogna di fare. Lui trasforma la sua filosofia in cadaveri. Voi dite che è un anarchico. Lui crede di essere un artista. […] Finché Caligola è vivo, io sono alla completa mercé del caso e dell’assurdo, cioè della poesia.” (Albert Camus, Caligola, 1941)

Nonostante la produzione risalga a fine anni settanta e l’ambientazione al 40 d.C, Caligola si presenta come un film atemporale, universale, profetico e perciò sempre attuale. Dal ritratto truce della corte romana dai costumi dissoluti e sfrenati, appare l’esasperata caricatura del potere. Una satira politica ante tempore, dove la fame di dominio e il conseguente delirio di onnipotenza sono brutalmente, ma efficacemente, rappresentati. La brama di assoluto diventa presto, una volta raggiunto, un bisogno insaziabile, un’esigenza. Caligola si presenta inizialmente come un giovanotto, sì un po’ bizzarro, eccentrico, ma tutto sommato innocuo, con il solo vizio di amare – e non soltanto “spiritualmente”– la bella sorella Drusilla. Ma una volta al vertice, iniziano i guai.

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È pura follia quella che balena negli occhi del protagonista, Malcom Mc Dowell, lo stesso lampo di delirio che ci accompagna in Arancia meccanica, sintomo della crescente ebrezza del potere assoluto. L’ascesa di Caligola diventa presto un’infinita discesa: più sale in alto e ottiene potere, più tende verso il basso, in preda a una cieca cupidigia dell’abietto. È affamato di sesso, di sangue e insieme ossessionato dalla morte, presenza fantasma che aleggia per tutto il film. La paura è compagna fedele dell’imperatore, che egli cerca di esorcizzare in ogni modo, con buffe danze apotropaiche, orge e rappresentazioni teatrali, senza però riuscire a sfuggirvi.

Tutto il regno di Caligola diventa una farsa, in stampo Satyricon-felliniano – non a caso lo scenografo è il medesimo, Danilo Donati – un incubo beffardo di cui egli è l’autore e il protagonista e gli altri sono solo personaggi-funzioni, apparenze demoniache. Caligola vuole essere un dio e decide di costruirsi il proprio Olimpo, un Olimpo infernale in cui le uniche leggi sono eccesso e amoralità. Nella sua ascesa-discesa verso gli Inferi il re coinvolge tutti i personaggi e lo spettatore. Tra le tante vittime innocenti, uccise per il puro brivido di onnipotenza, egli manderà a morte l’amico più fidato, Macro, e poi Gemello, fanciullo puro e innocente, per la sola colpa di non avere colpa.

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I suoi stravizi sessuali cresceranno in linea con la parabola della sua follia e potere. Incestuoso, non potendo sposare la sorella Drusilla, si accoppia con «la donna più dissoluta di Roma», Cesonia, amante della lussuria e della sfrenatezza. Ma l’unione matrimoniale diventa presto un menage a troi e Caligola “condiviso” tra le due donne.
Il culmine verrà raggiunto in quell’orgia immensa, «distruzione dell’urbe», dove il palcoscenico teatrale si trasforma in un set a luci rosse, che riassume le più fantasiose categorie in voga nella pornografia contemporanea (dalla fellatio e cunnilingus a rapporti lesbo e pratiche BDSM).

Nota: Questa recensione fa riferimento alla versione integrale (154 minuti) di Caligola di Tinto Brass (1979), successivamente rielaborata da Bob Guccione e Giancarlo Lui, con l’aggiunta di scene pornografiche ad hoc. Sono state prodotte varie versioni del film, tra cui Io, Caligola, realizzata nel 1984 da Rossellini, contenete materiale inedito.

Voto: 8,5

Lucciola della Ribalta

SI ALZA IL VENTO

Titolo originale: Kaze Tachinu

Regia: Hayao Miyazaki

Sceneggiatura: Hayao Miyazaki

Anno: 2013

Durata: 126′

Nazione: Giappone

Montaggio: Takeshi Seyama

Colonna sonora: Joe Hisaishi

“Vola solo chi osa farlo” (Sepulveda)

Quanto è assillante questa metafora per gli intellettuali di tutti i tempi, quale prepotente brama di riscatto dal disagio della vita terrena li spinge a cercare nel volo la liberazione ultima?

Il folle volo di Ulisse è il gesto di tutti coloro che hanno voluto oltrepassare il confine e andare lì, dove la realtà non basta a placare quel senso di avvilimento che caratterizza l’anima di un sognatore; ci si deve spingere oltre, in un luogo dove sia possibile far volare un aereo con un dito, un luogo allo stesso tempo dentro di noi e fuori di noi, nelle colonne d’Ercole della nostra immaginazione. Miyazaki rende esplicito fin dalla prima scena di cosa parlerà la sua opera e, nella dimensione onirica della storia, fa rivivere personaggi realmente esistiti. Così facendo, nella sua ultima fatica registica, proietta sul protagonista la propria passione per il disegno e pone finalmente in scena il racconto di eterno bambino sognatore che ha impiegato “dieci anni” per realizzare un progetto e che vuole fermarsi lasciando nel cuore delle persone un faticoso messaggio: sperare.

In un Giappone impressionista e popolato come un quadro di Brueghel, cresce Jirou Horikoshi, rimasto negli annali per aver progettato il caccia giapponese Mitsubishi A6M Zero, per lungo tempo considerato il miglior aereo da combattimento, prima utilizzato per l’attacco a sorpresa a Pearl Harbor e in seguito utilizzato dai giovani piloti kamikaze per i loro voli suicidi contro la flotta americana. Ma il messaggio politico non è quello di esaltare una macchina di morte ma quello di esaltare il genio creativo di qualcuno che a causa di una “miopia” carica di connotazioni simboliche, non può volare ma può solo progettare. “Il viaggio di inverno” di Shubert che si ode da quella finestra aperta sulle buie strade tedesche, è quello di Jirou, è quello dell’eroe romantico che cerca il senso della vita abitando un mondo tutto dentro di sé.

La ricerca tecnica e storica di Miyazaki è estenuante, ogni dettaglio è maniacale. La trasposizione del reale però viene mitigata dal dialogo onirico con l’ingegnere Caproni che risulta essere esilarante, soprattutto per il simpatico stereotipo, in cui il Maestro , innamorato dell’Italia inquadra il nostro famoso progettista. Caproni da buon italiano è allegro, attaccato alla famiglia e al” buon vino”.Questa descrizione è supportata dal geniale Hisahishi che contamina di mandolino una meravigliosa colonna sonora.

In questa sottile atmosfera di dormiveglia, dove il terremoto e la guerra hanno il suono di un luttuoso lamento, “le vent se leve il faut tenter de vivre” e aereoplani di carta e pastelli fanno da sfondo al tenero amore di Jirou e Naoko, amore che spezza il ritmo minuzioso della trama e lo profuma di leggerezza e di quella bellezza e perfezione che caratterizza l’opera d’arte giapponese. Ma quando si alza il vento, la facilità che fa volare un cappello galeotto dalla tua testa è la stessa con cui la vita ti porta via le persone che ami, cosi la malattia porta via Naoko che scompare invitando jirou, che cammina tra le macerie del proprio talento diventato arma di distru.zione, a vivere.

Le opere di Miyazaki ti lasciano sempre qualcosa nel cuore, essere rapiti dall’essenziale semplicità dei sentimenti di cui è composta la vita è sempre calorosamente disarmante. Qualcuno dirà che non c’è la solita magia del maestro in Si alza il Vento, ma dopo il viaggio ghibli questa meta finale non ha bisogno di troppe invenzioni per splendere. Quindi grazie Miyazaki per questa pellicola e per le altre, grazie di aver dato a noi adulti la possibilità di sentirci bambini e grazie per non averci lasciato soli in questa meravigliosa e malinconica via di fuga che è quella dell’immaginazione.

Voto: 9

Sabrina di Stefano

HARRY TI PRESENTO SALLY

Titolo originale: When Harry met Sally….

Anno: 1989

Durata: 94′

Regia: Rob Reiner

Soggetto: Nora Ephron

Sceneggiatura: Nora Ephron

Nazione: USA

Fotografia: Barry Sonnenfeld

Montaggio: Robert Leighton

Scenografia: Jane Musky

Colonna sonora: Marc Shaiman

Interpreti: Meg Ryan, Billy Crystal, Bruno Kirby, Carrie Fisher

TRAMA

Presentati da un’amica comune, Harry Burns e Sally Albright partono insieme da Chicago in automobile con destinazione New York. Durante il viaggio nasce un’attrazione reciproca.

RECENSIONE

Harry e Sally si conoscono all’università  durante un viaggio in macchina per New York. Lui,  classico maschio alfa, schietto e diretto; lei, nevrotica e sensibile, sa sempre cosa vuole:  tra i due ovviamente non c’è un grande feeling e si perdono quindi di vista. Dopo cinque anni Harry e Sally si incontrano in aereo e affrontano insieme un secondo lungo viaggio, ma ancora una volta non scatta la scintilla. Ci vorranno altri sei anni prima che i due si rivedano e diventino finalmente amici: ma cosa succede quando il sesso si mette di mezzo?

Più che un film di soggetto, Harry ti presento Sally è un film di sceneggiatura, la cui trama non è particolarmente originale:  la classica commedia romantica che vede protagonisti la “solita” coppia di amici che un po’ si amano e un po’ si odiano. Il  vero punto di forza è la struttura: il film si snoda tra le testimonianze di coppie di anziani, ormai ben collaudate, che raccontano come sia sbocciato il loro amore in età giovanile. Queste interviste hanno una doppia funzione: da una parte servono ad ironizzare sulla vicenda, costruendoci attorno una cornice documentaristica, dall’altra fungono da filo conduttore all’interno della narrazione, poiché “commentano” in maniera inconsapevole le vicissitudini dei due protagonisti. Meg Ryan e Billy Crystal, credibili e simpatici anche nelle loro eccessività caratteriali, hanno un’ottima alchimia e regalano dialoghi divertenti e intelligenti. Rob Reiner riesce a mantenere un ritmo sostenuto per tutta la durata del film, anche nella parte centrale che troppo spesso viene sottovalutata  in fase di sceneggiatura.

Del buon smooth jazz (Ella Fitzgerald e Louis Armstrong, Bing Crosby, Frank Sinatra…) fa da sottofondo ai battibecchi dei due protagonisti, ricordando in un certo qual modo le commedie di Woody Allen (a partire dai titoli di testa:  scritte bianche, fondo nero, il tutto sulle note di It had to be you ). In conclusione non può mancare un elogio della celeberrima scena ambientata nel bar, dove una Sally sempre più spontanea finge un orgasmo davanti a tutti presenti, dimostrando adun attonito Harry che in fondo le donne non sono le vittime inconsapevoli delle doti amatoriali maschili; in questo snodo narrativo in particolare si sente il tocco femminile (e anche un po’ femminista) della sceneggiatrice Nora Ephron. E’ solo una delle piccole perle di comicità di un grande cult cinematografico.

Voto: 7,5

Flavia Chinnì

THE BUTLER

Regia: Lee Daniels

Sceneggiatura: Lee Daniels, Danny Strong

Anno: 2013

Durata: 113′

Produzione: USA

Fotografia: Andrew Dunn

Montaggio: Joe Klotz

Scenografia: Tim Galvin

Costumi: Ruth E. Carter

Colonne sonore: Rodrigo Leao

Interpreti: Forest Whitaker, Oprah Winfrey, David Oyelowo, Lenny Kravitz,

TRAMA

Film tratto dalle reali vicende accadute a Eugene Allen, maggiordomo di origine afroamericana, scampato ai campi di cotone e preso a lavorare alla Casa Bianca per oltre trent’anni, nel periodo in cui il pregiudizio razziale e la discriminazione regnavano sovrane.

RECENSIONE

Panoramica di un mondo che difficilmente muta –  quella di Daniels –  partendo dagli anni 50 coi campi di cotone, col padrone bianco pronto a usare, consumare, denigrare il negro lavoratore, alle rivolte nelle strade americane, i movimenti dei freedom writers, le provocazioni e poi ancora le violenze, nel senso stretto del termine, del significato: violentare vite di colore diverso, stretti in pugni di pregiudizi ignoranti, radicati, terroristici. Poi Cecil Gaines, e la sua arrampicata sociale da negro di casa di una famiglia di possidenti terrieri, a cameriere in un prestigioso hotel, fino ad arrivare fino alla Casa Bianca, centro nevralgico del potere politico statunitense. Uomo di fiducia per ben trent’anni, sotto i suoi occhi e le sue premure passano ben sette presidenti, sette storie, e mille i tentativi di cambiare le sorti di minoranze in un paese grande ma schiacciato dalle cattiverie. La storia di questo film ripercorre una fetta sostanziosa della Storia d’America, dai cappucci del Ku Klux Klan, all’uccisione di King e Kennedy.

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In primo piano uno straordinario Whitaker, tramite lui, l’indagine su quel diverso metodo di far rivalutare la propria condizione, avvicinarsi alla distruzione del preconcetto tramite il pacifico senso del dovere, con la serietà di un lavoratore orgoglioso, forse quasi disilluso, che crede ancora nelle istituzioni. Si insegna, passo passo, la delicatezza ostinata della pazienza, che sa essere anche forza, che sa essere anche cambiamento. Tensione ed emozione attraversano l’intera pellicola, che è allo stesso tempo biografica e documentaria. Non mancano picchi di alta drammaticità, magistralmente gestiti da personaggi come Gloria (Oprah Winfrey). Daniels racconta la storia in modo lineare, coerente e verosimile, pur con un profumo di pulito e di ottimismo.

The Butler è uno di quei film necessari a ricordare una storia purtroppo ancora attuale, a insegnare il dolore perché ci interroghi ancora su quanto lentamente il mondo abbia progredito. In questo senso il film non può non ricordare Dodici anni schiavo, Selma o l’indimenticabile Colore viola – per la loro capacità di accendere dibattito e di provocare.

Voto: 7 +

Alessandra Buttiglieri