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INTO THE WOODS

Regia: Rob Mashall

Sceneggiatura: James Lapine

Anno: 2014

Durata: 125’

Nazione: USA

Fotografia: Dion Beebe

Montaggio: Wyatt Smith

Scenografia: Dennis Gassner

Costumi: Colleen Atwood

Colonna sonora: Stephen Sondheim

Interpreti: James Corden, Emily Blunt, Meryl Streep, Daniel Huttlestone, Johnny Depp

RECENSIONE

In un regno lontano, in un piccolo villaggio ai margini del bosco vivevano una giovane fanciulla vestita di stracci, un ragazzo spensierato ed ingenuo, e un modesto fornaio con la moglie. Tutti desideravano qualcosa, un segno o semplicemente un’occasione, che potesse cambiare le loro vite per sempre: la fanciulla il ballo a corte, il ragazzo una mucca che desse latte, il fornaio e consorte un figlio da accudire. Rassegnati ad una routine senza colore, sarà la magia incarnata in una vecchia strega bitorzoluta e vendicativa a rimescolare le carte e a cambiare così, il destino dei personaggi.

Ultimo musical prodotto dalla Disney, Into the woods propone una versione disincantata e più consapevole di alcune delle più famose fiabe narrate dai fratelli Grimm: “Cappuccetto Rosso”, “Raperonzolo”, “Cenerentola” e “Jack e il fagiolo magico”, rivisitate in chiave moderna attraverso l’intreccio ad una storia del tutto nuova, che vede come protagonisti i coniugi Baker, desiderosi di concepire ma resi sterili da un sortilegio lanciato su di loro dalla vecchia strega. Per annullare la maledizione e ridare alla strega quella bellezza delle sembianze ormai perduta da tempo, i due protagonisti dovranno recuperare una vacca bianca come il latte, una mantella rossa come il sangue, una chioma bionda come il grano, una scarpetta pura come l’oro, addentrandosi nel bosco, quel luogo oscuro e pericoloso, fulcro di ogni fiaba, in cui tutto è possibile. Attraverso il bosco, i personaggi di ogni storia imparano qualcosa che non avevano mai saputo prima, e che li rende più consapevoli e meno ingenui davanti ai risvolti imprevedibili, e a volte dolorosi, della vita: Cappuccetto Rosso e Jack capiscono quanto a volte sia positivo indugiare, e percorrere strade imprevedibili ed emozionanti anche se potenzialmente sciocche o pericolose, perché sono proprio queste avventure, queste strade inaspettate che ci cambiano, ci insegnano ciò che prima ignoravamo, ci offrono nuove opportunità e ci insegnano a vivere con più consapevolezza. Persino i coniugi Baker, che pensavano di conoscersi alla perfezione e di aver trovato oramai un equilibrio perfetto, nel bosco si rimettono in discussione, capiscono che per poter costruire una nuova vita insieme si devono affidare l’uno all’altra, devono fare gioco di squadra, scoprendo così un’affinità mai sospettata prima. Il bosco, in breve, rappresenta la metafora della vita come noi la conosciamo: imperfetta, misteriosa, spaventosa, imprevedibile ma anche maledettamente meravigliosa, solo con un pizzo di fantasia e di colore in più.

Voto: 7

Martina Malavenda

INSURGENT

Regia: Robert Schwentke

Sceneggiatura: Brian Duffield, Akiva Goldsman, Mark Bomback

Anno: 2015

Durata: 119’

Nazione: USA

Fotografia: Florian Ballhaus

Montaggio: Stuart Levy, Nancy Richardson

Interpreti: Shailene Woodley, Theo James, Kate Winslet, Miles Teller, Octavia Spencer, Ansel Elgort, Naomi Watts, Jai Courtney, Zoë Kravitz, Maggie Q, Ray Stevenson

TRAMA

Dopo la grande ribellione alcuni Intrepidi si rifugiano presso un villaggio di Pacifici. Costretti a scappare a causa di tensioni che si crearono all’interno della fazione, Tris e Quattro trovano esilio presso gli Esclusi, guidati dalla madre di Quattro, la quale ritorna, dopo anni di assenza, con lo scopo di creare un nuovo esercito per compiere una rivoluzione. Intanto Jeanine, malvagia leader degli eruditi, cerca il “divergente puro”, che possa decriptare un misterioso artefatto lasciato dagli Antichi e portatore di un segreto che possa ristabilire la pace sociale ormai perduta.

RECENSIONE

Dopo anni di guerra e sofferenza, il genere umano arriva a un punto in cui l’unico modo di sopravvivere è la creazione di un nuovo sistema di democrazia fondato su cinque modi di essere, cinque fazioni, cinque famiglie costruite su valori e modelli di comportamento ben definite e che rappresentano la società così formata. Gli Eruditi rappresentano l’umano raziocinio, la logica e l’intelligenza scientifica. I Pacifici rappresentano la pace, la libertà e la serenità interiore, rinnegando ogni tipo di conflitto, guerra o sopruso. I Candidi fondano la loro esistenza sull’onestà e la schiettezza reciproca, non ammettendo alcuna forma di menzogna o mezza verità. Gli Abneganti rappresentano l’altruismo portato agli estremi, dimenticando completamente se stessi e mettendosi a totale servizio del prossimo. Gli Intrepidi infine rappresentano il coraggio e la forza di andare oltre le proprie paure, sottoponendosi a sfide di volta in volta sempre più temerarie e rischiose.

InsurgentTris

Quello che può sembrare un mondo in cui vige l’ordine supremo, l’armonia e la convivenza tra più diversità, non è altro che una mera illusione, l’ingenua convinzione che tutto possa essere controllato meccanicamente, che le persone possano essere inquadrate e ridotte ad un’unica categoria al fine di plasmare una società pura, non incline a stranezze o devianze al di fuori dello stato “naturale” delle cose. Follia! Persino nel mondo naturale e animale ci sono “divergenze”, mutazioni genetiche assolutamente naturali ma che esulano da una qualsiasi comprensione logica. La pellicola di Robert Schwentke parla di loro. Dei “divergenti”. Di coloro che non appartengono ad un’unica fazione ma a tutte al tempo stesso e che invece di nascondersi e omologarsi ad un sistema che li vuole docili e remissivi, si ribellano, combattono e a volte muoiono. Insurgent come Divergent prima di lui, è un film sulle scelte che ognuno di noi compie, che possono cambiare la nostra vita e che in un modo o nell’altro ci definiscono come persone. È un film che fa comprendere l’inutilità di combattere ciò che è fuori dal nostro controllo, che è sfuggente, la cui natura è spesso terribilmente incomprensibile. Non è la loro esistenza che crea squilibrio quanto l’avvilente ostinazione a volerle combattere. Ambientato in una Chicago futuristica, ai confini tra il genere avventuroso, fantascientifico e sentimentale, “Insurgent” segue la fuga di Tris (interpretata da Shailene Woodley) e dei Divergenti, sfuggiti temporaneamente al controllo di Jaenine, un’incredibile Kate Winslet per la prima volta nelle vesti di una dominatrice sadica e senza scrupoli, il cui intento è quello di ucciderli al fine di ristabilire l’ordine sociale. Film intrigante e passionale, ha riacceso gli animi del pubblico a seguito dell’incredibile successo di Hunger game.

Voto: 8,5

Martina Malavenda

GONE GIRL – L’AMORE BUGIARDO

Regia: David Fincher

Sceneggiatura: Gillian Flinn

Anno: 2014

Durata: 149′

Produzione: USA

Fotografia: Jeff Cronenweth

Montaggio: Kirk Baxter, Angus Wall

Scenografia: Donald Graham Burt

Costumi: Trish Summerville

Colonne sonore: Trent Reznor, Atticus Ross

Interpreti: Ben Affleck, Rosamund Pike, Carrie Coon, Kim Dickens

TRAMA

Al quinto anno di matrimonio con Amy, Nick perde il suo lavoro di scrittore e decide di trasferirsi in Missouri per aprire un bar insieme alla gemella Margot. Ma all’anniversario di nozze Amay sparisce nel nulla.

RECENSIONI

Il giorno del loro quinto anniversario l’improvvisa e inaspettata scomparsa di Amy Dunne rompe la consuetudine di un matrimonio, che agli occhi di tutti sembrava perfetto. Ma niente è ciò come sembra e l’ombra del dubbio si allunga sulla felicità della loro unione e sulla figura del marito.

Gli indizi si accumulano, gli investigatori sono alla ricerca di un colpevole, i media alla disperata caccia di un capro espiatorio, e il puzzle piano piano si configura. L’ameno paesino di provincia americana con le case bianche e i vialetti ben curati che sonnecchiava in letargo si tinge di quelle tinte cupe che solo Fincher sa dare e ben presto l’interesse morboso della comunità su cui soffia l’attenzione ossessiva dei media solletica le violenze più latenti. Ma nulla è come sembra.

Si tratta di un film perfetto, anche troppo. Fincher gioca con virtuosismo con i generi e i personaggi, invertendo più volte vittima e carnefice e trasformando proporzionalmente ai colpi di scena il registro della pellicola, che da thriller diviene Noir, per poi sfiorare l Horror e terminare in una Dark commedy graffiante sul matrimonio, descritto come luogo di manipolazioni e compromessi narcisistici ma ancor di più sulle sproporzioni e sui non luoghi dell’intimità ormai cannibalizzati dalla ferocia delle regole dell’apparenza e dei media.

Il film ha ritmo, una bellissima atmosfera, dialoghi intelligenti ed un estetica perfetta ma non coinvolge fino ino in fondo ed è quasi corrotto dalla stessa bravura e dalla vanità celebrale del suo regista che è la croce e la delizia di un’opera che lascia allibiti ma non emoziona che è indiscutibile ma non riesce a diventare un capolavoro.

Voto 7,5

Luca Del Vescovo

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Come spesso accade, il titolo originale, seppur più sbrigativo e impersonale, surclassa quello tradotto in italiano, che, riecheggiando un genere di film romantico e strappa lacrime, incuriosisce solamente quella fetta di pubblico dai gusti meno ricercati. Lo stesso incipit si presenta, ingannevolmente, talmente lezioso e sdolcinato da far invidia alla migliore lovestory hollywoodiana. Attraverso un flash-back, la protagonista Amy (interpretata da Rosamund Pike) ci regala squarci del suo passato: l’incontro con Nick (Ben Affleck), il primo bacio, la prima notte e la proposta di matrimonio; il tutto sfumato in una realtà dai contorni onirici, favolistici. Siamo di fronte a un Amore astratto, velleitario, retorico, il cui oggetto non è tanto la persona concreta ma la proiezione del desiderio di perfezione, di elevazione rispetto al grigiore della quotidianità. E come in ogni favola che si rispetti, anche questa storia “è troppo bella per essere vera”, e da una pioggia di zucchero filato si passa brutalmente al presente e a schizzi di sangue fresco sul fornello della cucina. Dov’è Amy?

Thriller, giallo che prevarica i limiti del genere e sfocia nel noir, Gone Girl ha un intreccio complesso, un’architettura labirintica, in alcune parti fin troppo contorta. Alla fine lo stesso David Fincher sembra aver perso qualche filo (non stupitevi se alcuni passaggi rimarranno irrisolti e in sospeso), senza però compromettere la struttura logica generale del film.

Tutta la vicenda si snoda intorno a Amy, che catalizza l’attenzione del pubblico su di sé, lasciando in ombra gli altri personaggi. Rosamund Pike interpreta un personaggio camaleontico: dalla “super figa che mangia pizza fredda e rimane una 42” alla casalinga depressa e frustrata. Dalla cattiva ragazza che beve birra e mangia junk food a donna cruenta, senza scrupoli e pietà. La protagonista calza a pennello in ognuno di questi ruoli e allora sorge naturale chiedersi: ma chi è veramente Amy? Depredata della sua vera identità, che ha affibbiato alla sua controparte letteraria “la mitica Amy”, si è spersonalizzata, svuotata: può essere solo ciò che gli altri vogliono che ella sia. Accanto a un personaggio così sfaccettato contrasta un Ben Affleck inetto, preda degli eventi, incapace di prendere decisioni autonome, pavido burattino mono espressivo.

David  Fincher inscena un finto “delitto perfetto”, che, come Hitchcock insegna, è per sua natura “imperfetto” e la verità, inesorabile, viene a galla. Ma se il pubblico e i personaggi del noir in bianco e nero erano affamati di verità, in Gone Girl non è così. Non c’è più posto per il vero, per l’autentico. La verità rimane latente, svilita e subordinata a un ordine superiore di luccicanti menzogne.

Voto: 7,5

Camilla Longo Giordani

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Questa pellicola propone un’interessante panoramica della vita coniugale nelle sue contraddizioni e nei suoi agi, tra le bugie e il fallimento amoroso e la mancata realizzazione del sogno di coppia, e che coppia, poi, con due protagonisti di questo calibro. Belli e affascinanti, talmente tanto che il buon Fincher dedica una serie infinita di inquadrature ai vari profili di Affleck, mostrato in tutta la sua beltà da muscoloso Adone Casanova, meno alla Amy interpretata da Rosamund Pike (scelta, pare, tra svariati nomi importanti, come quello di Charlize Theron) quasi da accentuarne l’oscurità del personaggio, da rendere ancora più marcato l’alone di indefinito mistero intorno alla sua magra figura. Insomma, belli e affascinanti – abbiamo detto – ricchi, giovani, interessanti: tutti gli ingredienti per arrivare al famigerato american dream. Ma cosa va storto? Dov’è l’inghippo? Più radicato di un qualsiasi disagio, più particolare di una qualsiasi nevrosi: l’insoddisfazione perenne che muove intricatissimi fili di disamore, disistima e rabbia, fino ad arrivare al punto di rottura di un delicato raso che mantiene l’unione, fino all’ossessione del rimanere uniti nonostante tradimenti e stanchezza, per una serie di ben architettate pressioni psicologiche, violenze mentali che portano alla destrutturazione non solo del personaggio, ma dell’io proprio ed unico di tutti e ognuno.

Un Fincher assolutamente inusuale, questo di Gone Girl, lontano dalla raffinata crudeltà di Seven, distante dalla cruenta schizofrenia di fight club, come unico condivisibile scenario: l’animo umano, nelle sue più cavernose contraddizioni. Belle le riprese a due respiri, la storia battuta in due tempi, da una parte, Nick che si angoscia per uscire pulito dalle probabile accuse, mentre la Amy ormai lontana sorseggia il suo drink, in piscina, godendosi le altrui angosce. Fincher frega ancora, fino alla fine, il proprio spettatore, che si scervella per arrivare a carpirne il possibile sbocco. La conclusione del film lascia con il classico amaro in bocca, l’impossibilità di uscire da una gabbia matrimoniale soffoca e inquieta, e soprattutto inquieta come tutta la narrazione sia mossa e manipolata da faziosi mass media che gestiscono ad hoc le situazioni e le verità, siano queste presunte o tangibili. Contestualmente, però, è un film sopravvalutato dal quale ci si aspetta certamente di più, almeno per il buon nome del regista che lo coordina, almeno per sopperire ai tempi lunghi di immagini ridondanti a cui si è costretti, che sforano di poco l’obbiettivo di portare in scena un così delicato ecosistema, e di poco si sfiora anche l’Oscar, nonostante le svariate nomination.

Voto: 7

Alessandra Buttiglieri

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“Quando penso a mia moglie, penso sempre alla sua testa. Immagino di aprirle quel cranio perfetto e srotolarle il cervello in cerca di risposte alle domande principali di ogni matrimonio: a cosa pensi? Come ti senti? Che cosa ci siamo fatti?”. Ispirato al bestseller americano di Gillian Flynn, Gone Girl propone in chiave drammatica i retroscena più oscuri di un matrimonio ormai al capolinea, interpretati e veicolati non solo attraverso i racconti e il vissuto dei due protagonisti, ma anche tramite l’occhio implacabile e accusatorio dei media americani. Nick ed Amy, in apparenza felicemente sposati, sono in realtà, come ogni altro personaggio di Fincher, figli di un’epoca contraddittoria, che vuole soap opera a lieto fine – qui rappresentato dall’ideale di un matrimonio perfetto. Un matrimonio fatto di tradimenti, bugie, inganni, dubbi, verità celate che si insinuano nel rapporto tra i coniugi e ne determinano il fallimento. Ma è di una soap che si parla: niente è perduto! I due amanti, nonostante le problematiche matrimoniali, sono destinati a riconciliarsi e a vivere felici nonostante tutto. È così che deve andare. È questo che il pubblico americano vuole ed è questo che Nick ed Amy daranno in pasto ai loro famelici seguaci. Film drammatico reso accattivante da un pizzico di suspense e mistero, Gone Girl cerca di andare oltre le felici apparenze coniugali per svelarne l’essenza, spesso cruda, e i compromessi che le verità celate comportano.

Voto: 6

Martina Malavenda

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Centro di falsità permanente

Dimensione privata e dimensione pubblica, verità e menzogna, fedeltà e tradimento, perdono e vendetta. Fincher torna nella calda culla del genere Thriller per raccontarci la crisi della coppia moderna, tra recessione economica e tradimenti. La deriva dell’amore, fino all’estremo.  Ma forse c’è di più. Dall’idilliaco primo bacio avvolto (letteralmente) in una nuvola di zucchero Nick e Amy imboccano una strada che li porterà dritti all’odio reciproco, con sacrifici mal digeriti, cappi psicologici, ricatti economici e menzogne. La coppia si sgretola. Tutto ciò che segue è un racconto ad orologeria, con forzati sviluppi narrativi e personaggi caricaturali che trasformano nel bene e nel male il semplice thriller in dramma grottesco, toccando corde dissonanti. Si percepisce l’ingombrante doppio ruolo della sceneggiatrice (già autrice del best seller di partenza) che fa pesare la matrice del film. Espedienti come la lettura del diario e la caccia al tesoro sembrano ricalcare il tedioso Lettere da una sconosciuta (Max Ophuls, 1948), lasciando un sapore letterario al palato, portando a percepire il peso della pagina a scapito delle immagini. La falsità, come male sociale, cinge l’universo di Gone Girl. In ogni suo aspetto la corruzione è totale, non c’è scampo per niente e nessuno e l’ovvia soluzione psichica di difesa dell’uomo appare “mal comune mezzo gaudio”, così va il mondo. Fincher non ci sta, ci racconta i retroscena e fa emergere una verità che spesso resta chiusa tra quattro mura, ci permette di entrare nelle teste dei protagonisti per darci l’inequivocabile verità e la confronta con la verità presunta, quella sociale. Il risultato è un evidente scarto.

Quest’affresco sociale risulta però in qualche modo incompiuto: si prova fatica a seguire i processi che costruiscono questo mondo malgrado siano fondamentali per la percezione reale, gli attanti non creano coinvolgimento e trasformano i propri, complessi, pensieri in novelle rappresentazioni delle maschere della commedia dell’arte, creando  contrapposizioni nette e semplificate (buono-cattivo, ingenuo-manipolatore).

Personaggi esageratamente stereotipati come le conduttrici di talk show fanno pensare che la lettura debba prendere nuove direzioni, uscire dall’empatia che il thriller crea necessariamente con determinati personaggi, allo scopo di assumere una visione sopraelevata della vicenda, distante dal sentimento. Lo straniamento che ne consegue è indispensabile per creare la condizione adatta alla percezione della critica alla società, che Fincher non voleva sottacere. Siamo schiavi della nostra immagine e dei processi che la costruiscono e  la demoliscono. La verità non è importante e forse non lo è mai stata; stiamo vivendo il  passaggio evolutivo che ci porterà ad essere solo ed esclusivamente immagini, il nostro alter ego. Si esce dall’universo reale e si entra in quello della finzione. L’ipocrisia regna in questo nuovo mondo e non possiamo far altro che stare al gioco, accettando il fatto che non esiste l’amore ma solo una rappresentazione dello stesso. La famiglia, punto cardine della società, è un simulacro, una messa in scena: simbolo vuoto dello smarrimento della società occidentale che, vittima di se stessa, è costretta a replicare immagini ormai prive di senso.

Il sorriso ebete di Nick (un Ben Affleck molto a suo agio nel ruolo), mantenuto anche in circostanze inopportune (vedi la veglia), sarà una delle pietre che affosseranno la sua immagine. Perché ciò che appare, è. Forse è per far emergere questo concetto che Fincher ha volutamente lasciato buchi nella storia senza calcare la mano sull’approfondimento dei personaggi; da questo punto di vista le varie incongruenze narrative (peccato capitale per un thriller) non sono così gravi. Ma oltre a questa critica, per altro banale, cosa ci lascia questo film? Un buon ritmo ma con forzati espedienti, frivole citazioni (dalla rapina di Amy – Thelma e Louise, all’assassinio di Desi Collings – Basic Instinct), buone prove attoriali e poco altro.

Voto 5,5

Manuel Lasaponara

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L’amore bugiardo mi è piaciuto anche se mi ha fatto temere il peggio a causa di un inizio non esattamente all’altezza delle mie aspettative. Amy e Nick, belli e ricchi, incarnano la coppia felice e innamorata. Sposati da cinque anni, lasciano la caotica New York per la più tranquilla provincia americana del Missouri dove lui è cresciuto. Il loro rapporto, all’apparenza perfetto, nasconde una ostilità crescente enfatizzata dalla crisi economica che ha frenato le ambizioni di questi due giovani e promettenti scrittori, trasformandoli in una casalinga annoiata lei e uno svogliato proprietario di un bar lui. Il giorno del loro quinto anniversario Amy scompare in circostanze misteriose e tutti, media e polizia compresi, sono convinti che sia stato Nick ad ucciderla. Per la prima ora si assiste ad un thriller piuttosto fiacco in cui il marito, dall’aria troppo rilassata e dal comportamento sempre pacato che non lo fa cedere mai a pianti e scenate isteriche, sembra l’unico vero colpevole.  Se l’assassino è stato ben presto individuato, le ragioni della sparizione di Amy nascondono invece molti dubbi e perplessità. In questa prima parte, dove scarseggiano i colpi di scena e tutto scivola tra le più ovvie previsioni, ci si chiede dove sia finito il David Fincher che tutti noi conosciamo e come sia stato possibile confezionare un thriller così palesemente banale. Fortunatamente tutte le carte vengono ridistribuite e allo scoccare della prima ora inizia un nuovo film, cambiano i punti di vista e si comincia a fare sul serio! La bella Rosamund Pike sembra uscita da un film di Hitchcock- bionda, pazza e misteriosa come Kim Novak ne La donna che visse due volte, ma anche sexy e diabolica come Marilyn Monroe in Niagara di Henry Hathaway – Ben Affleck cambia espressione (e non è roba da poco dato che, salvo rare eccezioni, fa sempre la stessa faccia dai tempi di Pearl Harbor, anche se ultimamente lo sto rivalutando), la storia finalmente ingrana, anzi, esplode in un susseguirsi di giochetti ad incastro, nuove piste e inganni. Da thriller svogliato dalla struttura debole si trasforma finalmente in quel film che mi aspettavo di vedere, in cui si svelano le reali intenzioni di quella coppia che non è come vuole apparire perché ad unirli non è l’amore, ma solo il sospetto, la paura e soprattutto la vendetta. Sotto lo sguardo cinico dei media, capace di distruggere l’immagine di un uomo additandolo come colpevole e creare personaggi di cui si sente la necessità di conoscere ogni più piccolo particolare della vita privata,  la storia di Amy e Nick viene chirurgicamente sezionata, aperta ed esplorata come un cadavere dopo un’autopsia per poi essere malamente ricomposta e ricucita. L’ immagine pubblica è la sola che conta, i media sono gli unici in grado di decidere chi è il colpevole e chi la vittima, cambiando velocemente idea senza cercare la verità ma solo seguendo la scia degli eventi con ceca convinzione. Lo schema logico si fa imprevisto e tu, spettare che nel buoi della sala osservi le vite degli altri, a questo punto sei nel mezzo di tutto questo fragore mediatico, sei confuso e tutto quello che ti è stato raccontato per tutta la prima ora a questo punto ha ben poca importanza… David Fincher te l’ha fatta di nuovo ed esci dal cinema soddisfatto!

Voto: 8

Cinefabis


Luca Del Vescovo: 7,5

Camilla Longo Giordani: 7,5

Alessandra Buttiglieri: 7

Martina Malavenda: 6

Manuel Lasaponara: 5,5

Cinefabis: 8

Patrick Martinotta: 6,5

Giuseppe Argentieri: 8

THE IMITATION GAME

Regia: Morten Tyldum

Sceneggiatura: Andrew Hodges, Graham Moore

Anno: 2014

Durata: 114′

Produzione: USA, Regno Unito

Fotografia: Oscar Faura

Montaggio: William Goldenberg

Scenografia: Maria Djurkovic

Costumi: Sammy Sheldon

Colonna sonora: Alexandre Desplat

Interpreti: Benedict Cumberbatch, Keira Knightley, Matthew Goode, Mark Strong, Rory Kinnear

TRAMA

Basato sulla vera storia di Alan Turing, brillante matematico e crittografo britannico, che nel corso della seconda guerra mondiale con l’aiuto di un team d’eccezione si impegna a violare il codice enigma con cui i Nazisti comunicavano via radio tutti i loro attacchi.

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RECENSIONE

I Tedeschi bombardano la Gran Bretagna, l’Europa è in ginocchio e le risorse alimentari sono ormai briciole per la popolazione affamata. La Germania del terzo Reich imperversa, l’esito della guerra, così come la trama del film, appare scontato. Ma – c’è sempre  un ma – il futuro del mondo libero non è solo nello scontro ideologico tra tirannia e democrazia, tra libertà ed oppressione, tra Churchill o Hitler o in qualche discorso del Re, bensì nelle mani e soprattutto nella mente del giovane caustico e brillante matematico Alan Turing. Alle sue capacità è assegnato il compito di decifrare Enigma, il codice con cui i tedeschi comunicano via radio giornalmente tutte le loro strategie militari.

Basato su una storia vera e chiaramente incredibile, il film è costruito conformemente alla tendenza del momento (Aron Sorkin docet) su diverse linee narrative temporali, ognuna con il suo prevedibile colpo di scena e un piccolo segreto di facile soluzione. Nell’adolescenza del protagonista si nascondono le ragioni del suo comportamento solo apparentemente cinico, mentre nel presente c’è la vera soluzione di quello che poi un enigma non è.

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Are you paying attention? Recita più volte una riuscita battuta di Turing, ma non ne serve poi così tanta per seguire tutti gli sviluppi delle tre storie e soprattutto la denuncia finale a un Inghilterra falsamente libertina ma di fondo profondamente conformista.

Tutte le svolte del film arrivano esattamente quando devono arrivare e nonostante l’atmosfera sia cupa e coinvolgente, le musiche affascinanti, i dialoghi  ben scritti con battute incalzanti e  taglienti alla Social network,  tutto è purtroppo esattamente come ci si aspetta che sia , comprese le due poco credibili storie d’amore che si intrecciano nel passato del protagonista.

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Solo la prova di  Benedict Cumberbatch emerge in un  film che ha sicuramente tra gli obiettivi, fissati a tavolino dagli abili produttori , la statuetta d’oro come miglior attore. Si tratta di una pellicola ben realizzata che non stupisce e non emoziona ma si lascia godere soprattutto di mercoledì, ricalcando alla perfezione le intuizioni di altri film più coinvolgenti come il Discorso del re o a Beautiful mind.

Voto 6,5

Luca Del Vescovo

“Sono le persone che nessuno immagina possano fare certe cose quelle che fanno cose che nessuno può immaginare”. Descrizione perfetta di quella che si scoprirà essere una delle menti più brillanti del ventesimo secolo, abile matematico ed esperto crittografo: Alan Turing, all’apparenza timido, balbettante, dall’aspetto impacciato e quasi totalmente incapace di avere normali interazioni sociali, diventa un eroe in uno dei periodi più bui del nostra storia – la Seconda Guerra Mondiale.

Il film, ispirato alla biografia di Andrew Hodges “Alan Turing. La storia di un’enigma”, è ambientato a Manchester, Londra, nei primi anni ’50. Lo sviluppo cronologico della storia è spesso interrotto da una serie di episodi legati al passato: è un susseguirsi di riprese di eventi presenti collocati al tempo in cui Alan fu arrestato da un agente di polizia e poi interrogato con l’accusa di aver commesso atti osceni, in una Gran Bretagna che ancora rinnegava e anzi denunciava l’omosessualità come un morbo che doveva essere curato; e flashback di eventi passati riguardanti non solo l’infanzia del protagonista ma soprattutto l’episodio che, solo in seguito, divenne di maggiore rilevanza pubblica: il periodo in cui Turing fu ingaggiato dall’esercito inglese per decriptare il codice “Enigma”, ideato dai Nazisti per comunicare segretamente operazioni militari. Alan, insieme a un’equipe di scacchisti, matematici e linguisti, ideò una macchina in grado di decodificare in pochi minuti i messaggi criptati nazisti, grazie alla quale non solo si evitarono numerosi attacchi avversari, ma si salvarono anche 14 milioni tra civili e soldati che altrimenti sarebbero morti e si evitò che la guerra prolungasse per oltre due anni, favorendo la vittoria degli inglesi.

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Il “gioco di imitazione”, suggerito dal titolo, si riferisce non solo all’universo di sotterfugi e contraffazioni nazisti ma anche all’esistenza stessa del gruppo e dei suoi membri, costretti a lavorare sotto copertura, primo fra tutti lo stesso Turing, portato a nascondere la propria omosessualità e omologarsi secondo regole di comportamento socialmente accettate, come una macchina che riproduce perfettamente pensieri, emozioni, attitudini umane. È un gioco che rende inconsistenti i confini tra uomo e intelligenza artificiale, tra ciò che è vero e ciò che è soltanto una mera imitazione dell’intelligenza umana.

Film di straordinaria intensità emotiva, “The Imitation Game” rende finalmente noto al mondo quanto quest’eccentrico uomo abbia fatto per l’umanità e quanto, nonostante la persistente avversione della società inglese contro la diversità sessuale, abbia lasciato ai postumi in merito ad innovazioni tecnologiche nel campo dell’informatica.

Voto: 8

Martina Malavenda


VOTI

Luca Del Vescovo: 6,5

Martina Malavenda: 8