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DEUTSCHLAND 83

Regia: Edward Berger, Samira Radsi

Anno:  2015

Episodi: 8

Durata: 45’ (episodio)

Nazione: Germania

Colonna sonora: Reinhold Heil

Interpreti: Jonas Nay, Maria Schrader, Ulrich Noethen, Sylvester Groth

TRAMA

Deutschland 83 è una miniserie televisiva di otto episodi di genere spy-thriller ambientato nel bel mezzo della guerra fredda. Martin Rauch, guardia di confine di appena 24 anni dell’esercito della Germania Est, viene reclutato dalla zia, ufficiale della Stasi, per infiltrarsi nella Germania Ovest sotto false spoglie. Martin è così catapultato in un altro mondo, vicino eppure molto diverso, dove può vestirsi strano, mangiare panini chiamati hamburger, bere bibite con le bollicine e ascoltare musica camminando per strada.

RECENSIONE

Nonostante il tema e la trama non molto originali, Deutschland 83 affascina lo spettatore fin dal primo episodio grazie alle accurate introspezioni dei personaggi, al punto che è facile immedesimarsi in essi e chiedersi quali scelte compiremmo nelle medesime situazioni. In particolare è interessante prestare attenzione all’evoluzione del protagonista, inizialmente totalmente contrario a lasciare la sua casa nell’Est, per poi invece rimanere ammagliato dal consumismo e dai comfort del mondo occidentale, fino ad innamorarsi, tradendo addirittura la sua fidanzata, del paese che invece dovrebbe combattere. Fin dall’inizio Martin non mostra aderenza alla “causa” della Stasi, ma compie comunque il suo dovere per salvare la madre e infine per evitare un disastro nucleare, salvando indistintamente sia l’Ovest sia l’Est.

Deutschland-83 bis

Proprio come nelle più grosse produzioni americane, la ricostruzione storica è curata in ogni dettaglio. La musica degli anni 70-80, come i Eurythmics, i Duran Duran, Stevie Wonder, Phill Collins e Nena, risuona nelle autoradio, negli walkman, nei locali in qualsiasi momento, evidenziando l’aderenza storica e coinvolgendo estremamente lo spettatore negli affascinanti anni 80, e risaltando anche l’importanza data dai creatori alle tante piccole storie da soap opera che affiancano la storia principale. Anche da un punto di vista sociale la serie trae numerosi spunti, infatti i veri antagonisti all’interno della storia sono l’AIDS, malattia che iniziò a diffondersi in quegli anni e che colpisce anche alcuni dei personaggi principali, e l’ “impero del male”, ovvero le grandi potenze internazionali, USA e URSS, che con il fanatismo e complottismo rischiano la distruzione della società. Una serie consigliatissima non solo a tutti gli amanti del genere, ma anche agli appassionati di storia e ai nostalgici degli anni Ottanta.

Marco Bucalossi

CINEMA ≥ SERIE TV

Nell’anno domini 2004 la percezione dello spazio-tempo televisivo cambiò e mai si ritornò a rispettare i dettami delle emittenti e dei loro palinsesti. Riflettendo sul tema del “meglio un film o una serie tv?” ho avuto come la sensazione che qualcosa nella formulazione del quesito fosse errato. Ben presto mi sono reso conto che personalmente non ho mai visto una serie (in) TV ma che di sicuro ho visto un centinaio di serie.

Il 2004 è il crocevia nella creazione del nuovo spectatòrem e ciò lo si deve al buon vecchio J.J. Abrams che, forse inconsapevole, in quell’anno grazie al suo Lost cambiò le regole della visione televisiva, creando un prodotto che non poteva essere relegato al consumo esclusivo sul piccolo schermo, talmente ben congegnato da far pensare al televisore come ad una gabbia elettrificata ed agli sceneggiatori della serie come spietati aguzzini . Alzi la mano chi da allora è riuscito a rispettare le ferree regole del palinsesto, chi da allora si è autoinflitto punizioni psicologiche quali pubblicità e orari prestabiliti di visione?! Il telecomando ha mutato forma e piattaforma diventando un piccolo cursore che si muove liberamente, un mutamento epocale della domanda rispetto all’offerta che ha scritto una nuova carta dei diritti dell’intrattenimento a pieno beneficio dello spettatore.

L’approccio all’evento seriale forse non è neanche più seriale, almeno per determinati format (magari anche un po’ datati) che non fanno della lunghezza il loro marchio distintivo. Penso a Black Mirror, Utopia o al più recente True Detective, serie che ho divorato in un paio di giorni e che sul piccolo schermo hanno stazionato almeno due-tre mesi; Breaking Bad, House of Cards, Game of Thrones (solo per citare le più importanti) che per anni hanno impegnato o stanno impegnando il pubblico e i professionisti di Hollywood non rispondono a regole diverse di visione, hanno anzi permesso nuove sperimentazioni dal fronte dell’offerta, con sceneggiatori (ora si) con più diritti, con il potere di impiegare anche quattro puntate per presentare una vicenda, stagioni intere per delineare un personaggio, consci che lo spettatore se almeno in parte intrigato dalla storia resterà incollato allo schermo. A tal proposito esemplare è il caso Twin Peaks, serie del ’90, madre della tv postmoderna, costretta a smantellare la trama principale (Chi ha ucciso Laura Palmer?) a causa della frenesia del pubblico che sentendosi frustrato dai tempi dilatati di visione, morbosamente attendeva di puntata in puntata la prova per inchiodare il colpevole dell’omicidio. La ABC, network che ospitava la serie, fece pressione a Lynch e Frost per trovare una soluzione all’enigma prima del finale della  seconda stagione e, com’è facile immaginare, a svelamento avvenuto gli ascolti crollarono.

Di certo non abbiamo ancora perso la febbrile attesa della nuova puntata (sarebbe inumano) ma sicuramente siamo ormai arrivati a toccare il confine labile che divide tv e cinema. La visione del serial segue ormai regole nuove, tempi dilatati e predisposizione alla visione, regole che hanno alzato il livello generale della qualità e che ci hanno abituato maggiormente a una visione romanzesca delle storie. L’imbuto multimediale della rete ha ovviamente risucchiato anche i prodotti cinematografici, l’On Demand ha colmato la distanza tra mondo televisivo e sala cinematografica, e se oggi abbiamo un paio d’ore libere ci chiediamo: “Guardo un bel film o due puntate di xyz?” – poi la scelta è del tutto personale, come la distanza che intercorre tra la lettura frammentata dell’Orlando Furioso e quella di getto del Processo di Kafka. A quest’ultima opzione va la mia preferenza.

Manuel Lasaponara

SIX FEET UNDER

Regia: Alan Ball

Nazione: USA

Anno: 2001-2005

Numero stagioni: 5

Numero episodi: 63

Durata episodio: 60′

Interpreti: Peter Krause, Michael C. Hall, Frances Conroy, Lauren Ambrose, Freddy Rodriguez, Mathew St. Patrick, Rachel Griffiths

Vino vs. Coca Cola

Non sono mai sazio, ho sempre appetito. Il cinema non è più sufficiente, così ho iniziato a cibarmi voracemente anche di serie TV, dicono tutti che sono il massimo. Ne ho viste tante, ho fatto lunghe maratone sbragato sul divano di casa con il cellulare pronto al primo languore a chiamare in soccorso il delivery più vicino o più gustoso. Hamburger, patatine, pizza e pigrizia. Trash food e cultura di massa. Serialità in tutti i sensi, molto spesso noia. Ho visto molto, ho guardato Dexter, ho visto Breaking Bad, ho riso qualche volta con The Big Bang Theory, mi sono smarrito negli intrighi di Games of Thrones o nei continui misteri di Lost, nelle indagini spirituali di True Detective e posso finalmente dire la mia al tavolo del grande dibattito.

Lost

Io non credo che le serie Tv abbiano superato il cinema. Certo Il mercato dell’Home video è in crescita, sempre più persone, anno dopo anno, comprano  in dvd o Blue Ray prodotti pensati appositamente per la televisione a  scapito dei film. E i produttori? Beh  giustamente seguono interessati i gusti del pubblico, investono nelle idee dei loro sceneggiatori  e cercano di offrire tutti i mezzi necessari per liberare al galoppo le fantasie dei creativi con risultati sorprendenti. Effetti speciali incredibili, qualità cinematografica, alto tasso di spettacolarità. Suspance, musiche, colpi di scena, intrattenimento puro. Ma poco di più. Spesso dopo qualche puntata ho la netta sensazione di rimasticare sempre lo stesso boccone e che le storie diventino più intricate che interessanti.

Gli archi narrativi dei personaggi si dilungano e contorcono su loro stessi in attesa di un nuovo conflitto di una nuova sorpresa, del prossimo colpo si scena che ci porterà avanti almeno un’altra stagione. Ma c’è di più, a  differenza di un certo cinema, le serie televisive nascono fin dal principio per essere un prodotto industriale, dedicato ad un mercato specifico che risponde ad esigenze precise. Tutte le leve di marketing sono lì, pronte a essere azionate, per promuovere, solleticare, incuriosire, vendere. Sono quindi degli ottimi snack, utilizzano ingredienti a lunga scadenza, ipoallergennici – e noi come tali li scartiamo e ce li godiamo, ma non pretendiamo per favore che siano alta cucina. Il Packaging è interessante, a volte geniale ma non  hanno mai lo stesso sapore di un piatto espresso cucinato con attenzione e cura, con amore e ricerca, con la voglia di creare qualcosa di unico e condividere la visione autentica di un mondo e i sapori personalissimi che fino ad un momento prima erano solo negli occhi e nel palato del regista.

Sei passi sopra

Certo ci sono delle eccezioni, così tra le serie distribuite in Italia negli ultimi anni merita attenzione Six Feet Under, nata dalla mente di Alan Ball, sceneggiatore di American Beauty e creatore di True Blood. Si tratta di una dark commedy originale e fantasiosa, piena di spunti creativi, di sogni macabri e di visoni oniriche stupefacenti e divertentissime. E’ la storia di una famiglia di becchini, dei loro intrecci amorosi, delle loro aspettative e dei movimenti intimi che li animano e che puntata dopo puntata strisciano fuori muovendo le loro ambizioni e dando vita a nuove paure che illuminano ogni episodio per la creatività della loro rappresentazione.

In Six Feet Under ci sono dei personaggi a tre dimensioni, che hanno una vita e puntata dopo puntata viene voglia di andare avanti non tanto per capire come il protagonista uscirà dall’ennesima trappola in cui ormai sembra spacciato, ma per la curiosità di scoprire come le relazioni tra i personaggi si intesseranno ed evolveranno, come gli attori, episodio dopo episodio, cambieranno lentamente il loro sguardo sul mondo.

In poche altre serie, anche di ottima fattura, mi è capitato di vedere cinema.

Luca Del Vescovo

DECALOGO II

Titolo originale: Dekalog, dwa

Regia: Krzystof Kieslowski

Sceneggiatura: Krzystof Kieslowski, Krzystof Piesiewicz

Anno: 1988

Durata: 55’

Produzione: Polonia

Fotografia: Edward Klosinski

Montaggio: Ewa Smal

Scenografia: Halina Dobrowolska

Costumi: Hanna Cwiklo, Malgorzata Obloza

Colonna sonora: Zbigniew Preisner

Interpreti: Krystyna Janda, Aleksander Bardini, Artur Barcis

COMANDAMENTO

“Non nominare il nome di Dio invano”

RECENSIONE

Una vita e una morte sembrano indissolubilmente congiunte e solo un falso giuramento – in questo senso la trasgressione indiretta al secondo comandamento del titolo – riesce a sciogliere il legame e a far trionfare la vita in un lieto fine inaspettato. Ma i toni sono fortemente drammatici, nelle atmosfere come nei dialoghi e nella predominanza del silenzio, di tanto in tanto prepotentemente rotto da musiche malinconiche o da invadenti suoni di telefoni o campanelli. Il silenzio serve forse a sottolineare un’alterità, a porre una distanza critica rispetto agli eventi: questo è anche un possibile significato del famoso “testimone silenzioso” che compare misteriosamente in tutto il Decalogo (in questo caso nel ruolo di infermiere); noto anche come “angelo”, appellativo appropriato nella misura in cui rappresenterebbe una figura mediatrice, capace di inserire un’alterità all’interno della trama degli eventi; l’angelo e il silenzio sono inseparabili.

Alcune scene molto esplicite hanno una grande potenza simbolica e sono capaci di riassumere in sé i principali elementi del film. Non stupisce la ricorrenza del tema del liquido (non certo una prerogativa di Kieślowski, basti pensare a Tarkovskij), che può ergersi a simbolo di vita o di morte, valorizzando di volta in volta il silenzio o il fracasso, la memoria o l’oblio, l’immobilità o lo scorrere del tempo. Se nel Decalogo 1 l’improvviso spargersi dell’inchiostro aveva annunciato l’inaspettata tragedia, qui lo sgocciolare dell’acqua (come sangue) da un soffitto in rovina enfatizza il dolore della malattia, la vita che se ne va, salvo poi improvvisamente risorgere; il capovolgimento finale è stavolta preannunciato dall’efficace scena della vespa invischiata nello sciroppo dal quale riesce faticosamente e insperatamente a uscire.

Il contrasto fra vita e morte è già implicito nella contrapposizione fra la cura per le piante del medico e l’azione disperata e distruttiva di Dorota, che ne strappa a una a una le foglie per poi piegarne il gambo – scena bellissima, mi ha colpito molto. Il medico è il passato, che non sa far altro che rifugiarsi nella memoria; Dorota è nevroticamente dispersa nel presente tanto da non sapersi promessa di futuro (il figlio che ha in grembo e che sta per distruggere). Il futuro forse redimerà il passato, ma è il passato a salvare il futuro – dandosi però, come sempre, nella forma dell’illusione e dell’inganno.

 

Voto: 8

Patrick Martinotta

DECALOGO I

Titolo originale: Dekalog, jeden

Regia: Krzystof Kieslowski

Sceneggiatura: Krzystof Kieslowski, Ekrzysztof Piesiewicz

Anno: 1988

Durata: 55’

Paese di produzione: Polonia

Fotografia: Wieslaw Zdort

Montaggio: Ewa Smal

Scenografia: Halina Dobrowolska

Costumi: Hanna Cwiklo, Malgorzata Obloza

Colonna sonora: Zbigniew Preisner

Interpreti: Henryk Baranowski, Wojciech Klata, Artur Barcis

COMANDAMENTO

“Io sono il Signore tuo Dio. Non avrai altro dio all’infuori di me”.

RECENSIONE

Una perfetta tragedia contemporanea, pregevole dal punto di vista estetico (riprese, atmosfera, colori, musiche) ed efficace nel coinvolgerci nel rapporto padre-figlio quanto nel farci affezionare al bambino: il suo nome è Pavel, subito impariamo ad amare i suoi occhi, la sua voce, la sensibilità della sua intelligenza; ci inorridisce a un certo punto vederlo scomparire (letteralmente) e rivelare la sua vera identità: quella d’essere, nei meccanismi della vita e in quelli della tragedia, nient’altro che un archetipo – il Figlio – che serve ad attivare il meccanismo di colpa del Padre e il dissidio che innesca.

dekalog 1

Il motore propulsivo della tragedia è la scena – forse la più bella del film – della boccetta di inchiostro (nero, come la morte e la colpa) che si rovescia inspiegabilmente sulle carte e i libri bianchi (che restano inerti, non sanno spiegare), quindi sulle mani di Krzysztof, diventando simbolo della sua imminente sconfitta in quanto professore e in quanto padre. Da una parte la scena evoca una rottura nella trama degli eventi consequenziali (di cui la ragione si vanta di conoscere la chiave), dall’altra la colpa della quale cercare invano di lavarsi le mani; il nero ha ormai invaso l’innocenza del bianco e la tragedia è compiuta.

dekalog 2

Attenzione: si tratta di tragedia perché attraverso la morte Pavel la sconfitta dell’essere umano è totale; l’uomo è sconfitto in quanto Padre e in quanto Figlio, non possono salvarlo né la fede né la ragione in quanto sono due forme diverse di hybris. Certo la ragione è la vittima più esplicita: è l’idolo che vuole donare sicurezza (il determinismo atmosferico), felicità (la vittoria a scacchi), ma anche delusione (l’esperienza di un limite: il pc deduce che la mamma sta dormendo ma non sa cosa sta sognando) e paura (il pc che si accende da solo, sussurrando in modo minaccioso o beffardo “I am ready”). Ma se il film testimoniasse semplicemente la sconfitta della ragione, non si tratterebbe di una tragedia, perché nella fede ci sarebbe salvezza e senso; questo sarebbe stato il messaggio del film se la vittima fosse stata il padre. Ma a morire è Pavel, ossia il figlio che, per antonomasia, rappresenta l’innocenza. Con lui sono l’essere umano e la vita stessa a essere sconfitti. A morire è l’unico personaggio che aveva saputo aprirsi alla dimensione della fede quanto a quella della ragione; era l’unico personaggio vivo, espresso narrativamente dall’essere sempre in movimento: domanda, osserva con curiosità, corre, pattina. Ha davanti a sé il mistero della vita e tutto lo entusiasma e interessa (l’esperienza del limite attraverso l’incontro con un cane morto). Si tratta di tragedia perché la vittima è l’innocenza e a restare vivi sono il padre e la zia, ossia le due figure immobili e quindi già morte (il padre resta fermo in piedi, incredulo del tradimento della ragione; la zia si inginocchia rimanendo ferma nell’apparenza della fede). Il grigio del lago ghiacciato (doveva essere speranza di un gioco, diventano una trappola: questa è la vita) e il grigio del cielo si rispecchiano a vicenda e schiacciano l’uomo in una morsa inesorabile.

Voto: 8

Patrick Martinotta

BLACK MIRROR 1X02 – FIFTEEN MILLION MERITS

Ideatore Serie Tv: Charlie Brooker

Regia: Euros Lyn

Sceneggiatura episodio: Charlie Brooker, Kanaq Huq

Anno: 2011

Durata: 62′

Produzione: Zeppotron per Channel 4

Paese di produzione: Regno Unito

Interpreti: Daniel Kaluuya, Jessica Brown Findlay, Rupert Everett

TRAMA

In un futuro imprecisato gli esseri umani passano le loro giornate pedalando su delle cyclette per guadagnare crediti (“meriti”) che permettono l’acquisto di programmi diversi. Un giorno Bing si innamora della bella Abi e decide di aiutarla a realizzare il suo sogno di diventare una cantante.

RECENSIONI

A legare fra loro i vari episodi di Black Mirror non sono i media e la tecnologia in quanto tematica, ma in quanto prospettiva o punto di vista: essi rappresentano lo “specchio” più fedele per l’uomo del nuovo millennio, capace di mostrare le ombre che si annidano in ognuno di noi (l’immagine dello specchio vuole coinvolgerci in maniera diretta, personale, intima) in quanto anesteticamente immersi nella società. Leggiamo allora Black Mirror non tanto come critica alla società di massa – benché essa rappresenti in effetti il nemico, l’alterità (nella forma del volto o della maschera), il mostro costante di tutti gli episodi –, ma come spietato riflesso della problematica creatura sociale che siamo.

Black Mirror 15 Million Merits 3

Viene sfruttato un meccanismo preciso e ben gestito, che consiste nel forzare le logiche sociali fino a distorcerle e a farle esplodere nella loro paradossalità. Ecco perché il genere proprio di questa serie – non per le tematiche trattate ma in quanto dimensione di senso – è quello fantascientifico, meglio capace di veicolare la logica dell’assurdo: 15 Millions of Merits stupisce proprio per la pervasività del suo immaginario distopico, mentre The National Anthem e The Waldo Moment sono sembrati, in tale prospettiva, meno potenti sia da un punto di vista estetico-espressivo che tematico, proprio perché ambientati in una realtà troppo vicina alla nostra e meno adatta a ergersi a specchio deformante.

Black Mirror 15 Million Merits 3

“15 Millions of Merits” rappresenta dunque, in tale prospettiva, l’episodio più significativo della serie, nonché quello maggiormente capace di esprimerne i pregi e alcune debolezze di base: una presentazione troppo esplicita delle tematiche proposte; uno stile che si vuole tragico-solenne e che troppo spesso scivola nel moralismo, soffocando ogni traccia di ironia – ingrediente pericoloso e difficile da gestire, ma è proprio quanto mi sarei aspettato dal genio di Charlie Brooker.

Black Mirror 15 Million Merits 1

Ironia e assurdo dovrebbero essere – come avviene in 15 Million Merits – le parole chiave di questa operazione, perché Black Mirror è soprattutto questo: il paradosso di una potente denuncia ai mezzi di comunicazione veicolata proprio da una serie tv, da internet e da questa stessa recensione.

Voto: 8

Patrick Martinotta