UN COLPO DA DILETTANTI

Titolo originale: Bottle Rocket

Regia: Wes Anderson

Soggetto: Owen Wilson, Wes Anderson

Sceneggiatura: Owen Wilson, Wes Anderson

Durata: 95′

Nazione: USA

Anno: 1996

Fotografia: Rober Yeoman

Montaggio: David Mortiz

Musiche: Mark Mothersbaugh

Interpreti: James Caan, Owen Wilson, Luke Wilson, Robert Musgrave, Andrew Wilson

TRAMA

Anthony, Dignan e Bob sono tre ragazzi ai margini della società, senza un soldo e senza prospettive future. I tre decidono di organizzarsi e diventare una banda di rapinatori ma fare carriera nel mondo criminale non è semplice, soprattutto  se si è dei dilettanti.

RECENSIONE

Debutto cinematografico dei fratelli Wilson (Owen e Luke) e dell’osannato regista di Rushmore, Le avventure acquatiche di Steve Zissou e del più recente Gran Budapest HotelBottle Rocket potrebbe sembrare una semplice commedia americana, come tante ce ne sono ma in realtà nasconde dietro la propria copertina interessanti risvolti, chicche per gli amanti del cinema di Wes Anderson.

Partiamo dalla semplice costatazione che il primo film di ogni regista di certo non fa emergere tutta l’autorialità di chi sta dietro la macchina da presa e di certo Un colpo da dilettanti non può vantarsi di essere un’eccezione. Ciò nonostante sono già presenti in questo film le caratteristiche in forma embrionale che delineeranno l’estetica del cinema andersoniano. Sin dalla prima sequenza si palesano i tratti surreali dei protagonisti: emarginati e sognatori, in grado di prendere tutto alla leggera e di star male per futili motivi, decisi a cambiare vita tanto da stilare un geniale piano settantacinquennale di rapine  redatto con scrittura infantile su un quaderno a quadrettini. “Il mondo ha bisogno di sognatori” ricorderà James Caan agli improbabili malviventi. Si, Un colpo da dilettanti è una commedia ma c’è qualcosaltro in ballo, un tema che resterà caro a Wes Anderson: l’alienazione dei personaggi dalla civiltà. Questi eterni Peter Pan hanno fatto a botte con la vita, sono stati giudicati falliti, pazzi, bambini e sono ormai decisamente inoffensivi. Inadatti per qualunque ruolo in società, stilizzati e depressi nel profondo, mascherano con l’azione il proprio malessere e fanno volare la fantasia. Escogitare piani surreali sembra una via d’uscita, seguirli significa lasciarsi alle spalle l’ospedale psichiatrico, il licenziamento e gli scontri famigliari, il dolore e il giudizio degli altri.

L’avventura ha il potere di cambiare le persone, può farle crescere e maturare o (come in tutte le pellicole di Wes) farle tornare bambini, innocentemente più inclini a vedere la magia del mondo. Così i nostri Dilettanti regrediscono e mentre Anthony si innamora follemente di una cameriera paraguayana  con la quale non riesce neanche a comunicare, Dignan passa le giornate sollazzandosi con innoqui fuochi artificiali (i Bottle Rocket del titolo originale). Certo, non è ancora palese in questa pellicola l’inquadratura perfettamente centrata che diverrà la firma di Wes Anderson, ma è già presente la fotografia virata e la caratterizzazione cromatica dei personaggi (come le tute giallo limone indossate dai protagonisti), i surreali dialoghi, l’ironia, le sequenze a rallenty, un palese gusto per il vintage, i brani musicali anni ’70  e gli ampi scenari grandangolari.

Un colpo da dilettanti non sarà di certo il film più bello degli ultimi vent’anni ma di certo resta godibile e pieni di spunti, sicuramente rapresenta un dignitoso debutto, un film che già da segnali che il giovane seduto dietro la macchina da presa ci regalerà in futuro pellicole davvero interessanti.

Voto: 6,5

Manuel Lasaponara

BIRDMAN

Regia: Alejandro Gonzàlez Inarritu

Sceneggiatura: Alejandro Gonzàlez Inarritu, Nicolàs Giacobone, Alexander Dinelaris, Armando Bo

Anno: 2014

Durata: 119′

Produzione: USA

Fotografia: Emmanuel Lubezki

Montaggio: Douglas Crise

Scenografia: Kevin Thompson

Musiche: Antonio Sanchez

Interpreti: Michael Keaton, Zach Galifianakis, Edward Norton, Emma Stone, Andrea Riseborough, Naomi Watts

TRAMA

Riggan Thomson, attore famoso per aver interpretato il celebre supereroe Birdman, tenta di tornare sulla cresta dell’onda mettendo in scena a Broadway una pièce teatrale – tratta dal racconto di Raymond Carver What We Talk About When We Talk About Love – che dovrebbe rilanciarne il successo. Nei giorni che precedono la prima deve fare i conti con un ego irriducibile e gli sforzi per salvare la sua famiglia, la carriera e se stesso.

RECENSIONI

Micheal Keaton è stato Birdman, Micheal Keaton era Batman e ora è solo l’ombra di un super eroe, l’ombra di una celebrity che si allunga verso il declino e lotta tra le ossessioni di un passato fatto di successo e acclamazione e la miseria di un presente deprimente.

I super poteri di un tempo sono oggi solo una triste allucinazione e alle battaglie in calzamaglia contro mostri fantastici si sostituiscono le lotte contro nuovi nemici: la penna di una caustica critica del New York Times e la figlia (Emma Stone) tossica. In questo contesto senza speranza l’occasione per dimostrarsi ancora all’altezza della sua megalomania è lo spettacolo teatrale, di cui è produttore, sceneggiatore, regista e interprete.

Il film si presenta come un lungo piano sequenza in cui si susseguono le interpretazioni magistrali di Edward Norton e Micheal Keaton, dialoghi brillanti e ironici, inquadrature bellissime, soluzioni tecniche che spesso sbalordiscono per la loro creatività, ma ogni tanto purtroppo annoiano. Birdman ha il ritmo di un film d’essai, l’ironia tagliente di un autore (Inarritu) non americano, lo sguardo e l’immaginazione di un regista che dire virtuoso è dire poco; ma Birdman ha il grande limite di stupire e, allo stesso tempo, lasciare indifferenti. Infatti di tutte le rocambolesche riflessioni sulla vanità, sulle aspettative, sullo star system, sul narcisismo di cui tutti siamo vittime non resta molto né in testa né nel cuore.

Il principale protagonista dell’Oscar 2015 è quindi un film celebrale e ben realizzato, ma con poca anima. La solitudine e la miseria che investono ogni personaggio – le loro patetiche e divertenti nevrosi – non toccano fino in fondo lo spettatore; e non è un caso che le scene più riuscite siano i rari momenti in cui i personaggi escono dalle loro patologie e finalmente si incontrano. Penso ad Edward Norton ed Emma Stone sul terrazzo del teatro, a Micheal Keaton che in un bar di Broadway decide di affrontare la critica del New York Times: in questi frangenti, per un istante, quando i rapporti umani si sostituiscono ai giri a vuoto di un motore che romba ma non trasporta, finalmente il film respira.

Voto: 6/7

Luca Del Vescovo


Tutti in scena! E che si apra il sipario! È questa la frase simbolo che forse sintetizza la messa in scena dell’ultima pellicola di Inarritu, che omaggia così il palcoscenico teatrale. Il film, a partire dall’estetica registica, non si concentra tanto sulla rappresentazione attoriale quanto su ciò che si cela alle sue spalle, nascondendosi al pubblico. La macchina da presa pedina imperterrita i protagonisti, senza quasi mai staccarsi da loro, con un lungo piano-sequenza di circa due ore che riprende ogni stanza, ogni anfratto, ma in particolare ogni aspetto della vita, ogni nevrosi ed ogni preoccupazione vissute dietro le quinte da chiunque collabori alla buona riuscita dello spettacolo. Un’opera, verrebbe da dire, metateatrale inserita in un prodotto cinematografico.

La sopracitata tecnica del piano-sequenza è una scena rischiosa ma azzeccata: anche se tale  operazione ha il forte limite di appesantire la visione allo spettatore, il regista messicano ha saputo utilizzarla sapientemente, con l’intento di presentarci la verità che avvolge un qualsiasi ambiente teatrale. Birdman riporta sul grande schermo, dopo tanto tempo, Michael Keaton in un ruolo da protagonista. L’attore, invecchiato e scavato nel volto dalle rughe, è credibilissimo nelle vesti di una  star sulla via del tramonto, che tenta in tutti i modi di sparare le sue ultime cartucce.

Il film è una palese critica al mondo dello show-business, che dopo aver spremuto i suoi eroi li ripone in soffitta ad accumulare polvere, come un vestito fuori moda e non in linea con i tempi che corrono. Questo è quello che è Riggan Thomson, eroe degli anni Novanta, masticato e sputato dalla Hollywood dai contratti milionari, incapace secondo tutti gli addetti ai lavori di svestire i panni dell’Uomo Uccello. Basti pensare ai molti attori che, dopo aver interpretato un ruolo iconico, vi sono rimasti talmente avvinghiati nell’immaginario comune da non sapersene più discostare, per poi finire nel dimenticatoio o quasi; solo per citarne alcuni Mark Hamil (Guerre Stellari), Bela Lugosi (Dracula) e buona parte di quegli interpreti di serie tv, ai quali lo spettatore medio si riferisce con frasi del tipo: “Quello che ha fatto il dottore in quel serial” oppure “Guarda chi viene intervistato in televisione! Luke Skywalker!”. Ma è specialmente chi appartiene da sempre al teatro, che, dall’alto del suo snobismo verso forme d’arte più alla portata di tutti, è scettico nel passaggio di un attore dal cinema al proscenio. Un atteggiamento, probabilmente istigato dalla chiusura e dall’egocentrismo intellettuale verso il mezzo cinematografico fin dai suoi albori. Il vero attore è solo quello teatrale e basta, come ci fa capire l’atteggiamento presuntuoso di Mike Shiner, interpretato da Edward Norton. Birdman non è solo questo. Strizza l’occhio anche al cinecomics, ed a tutti i suoi sequel, prequel, midquel e reboot, che hanno oramai saturato il mercato, rimproverando la penuria di idee che il cinema Hollywoodiano sta vivendo in questo decennio.

Comunque sia, alla fine dei conti, una bella fetta di pubblico, colto e non, si rivela essere nel suo profondo ancora un bambino, entusiasmandosi più per l’effettaccio speciale o per la scena adrenalinica che per un film o un opera teatrale culturalmente elevati. Divertente l’allusione al Batman di Tim Burton, in cui Keaton calzava la maschera dell’uomo pipistrello.

 Voto 8.5

 Gabriele Manca


Riggan Thompson un tempo era Birdman, il supereroe che lo ha reso celebre, ricco e amato dal grande pubblico cinematografico. Oggi Birdman non c’è più. E’ solo una figura troppo ingombrante di un passato glorioso e ormai logoro che perseguita senza sosta l’esistenza dell’attore, che nel frattempo si trova ad affrontare il declino del suo successo e della sua popolarità. Per risorgere dalle ceneri dell’anonimato, Riggan sceglie di investire gli ultimi risparmi in uno spettacolo teatrale a Broadway: un remake di What We Talk About When We Talk About Love di Raymond Carver, nel quale decide di giocarsi tutta la carriera.

Birdman è un film che parla di fragilità. In particolare della fragilità che si cela dietro al mondo apparentemente dorato dello star system, e che si manifesta senza pietà quando il successo viene sostituito dal senso di vuoto e di solitudine del tramonto professionale. L’opera di Iňárritu parla anche di ossessione. L’ossessione di Riggan di togliersi una volta per tutte la tuta di Birdman e di far vedere al pubblico di poter essere ben altro che un eroe piumato, ma soprattutto l’ossessione che il protagonista nutre per il proprio Ego, che talvolta assume le sembianze della megalomania tipica di chi un tempo era un Dio e adesso non lo è più. Il regista messicano riesce a narrare questo vortice di stati d’animo attraverso i quattro giorni che anticipano l’esordio della pièce, e lo fa introducendo varie trame e personaggi – su tutti Sam, la figlia di Riggan e Mike Shiner, il co-protagonista della commedia teatrale – che come asteroidi entrano in collisione con la già precaria situazione dell’ex divo.

Il vero colpo da maestro di Iňárritu resta però la regia: un intenso piano sequenza lungo due ore, scandito da una colonna sonora composta in gran parte da una batteria jazz, che segue senza sosta i protagonisti, dentro e fuori il palcoscenico, e che riesce a coinvolgere a trecentosessanta gradi lo spettatore, trasportandolo dentro il grande schermo e rendendolo partecipe in prima persona delle vicissitudini dei personaggi. Interessante è anche la scelta del cast, che potremmo definire di supereroi, o quasi, dato che si possono riscontrare divertenti analogie tra i protagonisti principali e alcune delle loro interpretazioni passate. Infatti, salta subito all’occhio la decisione di affidare i panni di Riggan a  Michael Keaton, il quale a suo tempo fu il Batman di Tim Burton e che con Birdman compie una delle sue migliori performance. Poi c’è Emma Stone, che passa dal ruolo di Gwen Stacy (in The Amazing Spider- Man) a quello di figlia ribelle di Riggan, ma che conserva in entrambi i film la funzione di figura femminile di riferimento. Infine troviamo l’irruento Mike Shiner, interpretato da un Edward Norton in stato di grazia, che in quanto a irruenza risulta essere uno specialista avendo recitato la parte di Bruce Banner  in L’incredibile Hulk. Se si tratta realmente di scelte connesse – in particolare quella di Michael Keaton – o pura casualità forse non interessa. Ciò non esclude, che questi piccoli particolari, se notati, contribuiscono a dare un ulteriore tocco di classe al film.

Nella sua totalità, Birdman tocca con sapienza alcuni dei nervi scoperti che compongono il mondo del cinema, prestando particolare attenzione alla condizione esistenziale che vivono alcuni attori, spesso incompresa dal pubblico. Per certi versi il film di Iňárritu è a tratti lento, probabilmente complesso in alcuni momenti, soprattutto in chiave interpretativa e per questo  richiede una certo grado di attenzione da parte dello spettatore. Birdman possiede comunque la qualità di essere un’opera intensa, intima e originale, che offre la possibilità di essere apprezzata sempre di più ogni volta che la si guarda.

Voto: 7,5

Carlo Tambellini


 

VOTI

Luca Del Vescovo: 6/7

Gabriele Manca: 8,5

Carlo Tambellini: 7,5

FOXCATCHER

Regia: Bennett Miller

Sceneggiatura: Dan Futterman, E. Max Frye

Anno: 2014

Durata: 134’

Nazione: USA

Fotografia: Greig Fraser

Montaggio: Stuart Levy

Scenografia: Jess Gonchor

Costumi: Kasia Walicka-Maimone

Colonna sonora: Mychael Danna

Interpreti: Channing Tatum, Mark Ruffalo, Steve Carrel, Sienna Miller

TRAMA

Biopic sportivo che racconta la storia, tragica e affascinante, di due lottatori professionisti e di un eccentrico multimilionario.

RECENSIONE

La nota di apertura ‘tratto da una storia vera’, quando posta all’inizio di certi film, sembra sfidare la realtà. Succede in Foxcatcher. Ma non perché il film cerchi con una messa in scena eversiva o effetti speciali di dilatare i limiti del reale. I fatti sono sufficienti per spingerci a porre la solita domanda, se la realtà a volte è più inverosimile della finzione. Certo, gli eventi di Foxcatcher saranno esagerati per ottenere una trama più interessante, ma poco importa. Ciò che importa è che ci troviamo davanti a una storia reale incredibile. John E. du Pont, cadetto cinquantenne della famiglia Du Pont, tra le casate più antiche e ricche dell’aristocrazia industriale americana, cerca ossessivamente una grande vittoria personale da aggiungere alla sala dei trofei della dinastia. E chiama un atleta di ventisette anni, Mark Schultz, reduce di un’infanzia e una condizione sociale difficili, già medaglia d’oro di lotta greco-romana alle olimpiadi dell’ottantaquattro. In vista dei prossimi giochi, lo invita a vivere e allenarsi con altri lottatori nella sua tenuta di famiglia: Foxcatcher. Un’imponente villa bianco perla al centro di una riserva sconfinata, punteggiata di cottage, stalle per purosangue e monumenti alla guerra di indipendenza. Tra tutto questo, una palestra fornita delle migliori attrezzature per l’allenamento alla lotta greco-romana. Ma il termine inglese, wrestling, rende meglio l’idea: uno sport all’apparenza poco raffinato, quasi degradante agli occhi dell’alta società, praticato nel mondo a livello poco più che dilettantistico. Qui si scatena il contrasto destabilizzante del film, che non si concentra, ed è un punto a suo favore, sulla scontata differenza di classe tra i personaggi, ma sull’opposizione di due mentalità. I colori e gli edifici accentuano il contrasto interiore. Il rosso e giallo acceso della palestra, contro i legni eleganti e i prati all’inglese della residenza. E ben presto, questo scontro tra modi di vivere si trasforma nello scontro tra l’uomo medio, forse proletario, e la follia. John Du Pont, milionario dal naso aquilino, ornitologo filatelico filantropo, rigorosamente in quest’ordine come sottolinea lui stesso, lentamente cela l’incomprensibilità dell’uccello dietro a un semplice bisogno di gloria. I primi piani di volatili impagliati nella magione aiutano a dare un’idea del personaggio e ricordano Birds di Hitchcock. Circondato da Du Pont, dalle foto d’epoca e i trofei di caccia che sono poi una sua estensione, Mark è un ragazzone taciturno, indifeso di fronte all’enigma del suo ospite. Così, con un obbiettivo evidente, l’oro alle olimpiadi di Seoul, i personaggi procedono verso un punto di collisione. L’arrivo del fratello di Mark a gestire il team Foxcatcher ritarda con successo il momento di deflagrazione delle parti, ma è una conclusione inevitabile. Anche l’enorme ricchezza di du Pont contribuisce a questo senso di ineluttabilità che imbeve il film. Non tanto nel senso di una potenza economica concreta capace di comprare azioni violente, quanto sotto forma di una forza gravitazionale che attrae inavvertitamente i personaggi nella trappola innescata da loro stessi. Il finale non può essere che scontato. Alcune situazioni ridicole dovute alla bizzarria del milionario smorzano una meccanica dei personaggi che può condurre soltanto a un esito preciso. Ma l’obbiettivo del film non è quello di stupire attraverso colpi di scena. Lo stupore lo provoca il senso di disagio costante di un contrasto insanabile ma educato tra i protagonisti. È chiaro dall’inizio che non può funzionare tra Mark e Du Pont. I gesti in ogni scena lo dimostrano. Eppure, per tutto il corso del film, nessuno rivendica un torto, nessuno si scompone. Per quanto invadente nelle immagini, il conflitto non è mai materializzato in frasi che superano una mera constatazione superficiale. E il film gode di questa tensione sconcertante che unisce le scene e rafforza la continuità della narrazione. Il finale potrebbe sembrare deludente, ma non vuole rappresentare la semplice conclusione della vicenda; forse la fine autentica risiede in quel corridoio sotterraneo, sconnesso, viscerale da cui finalmente esce allo scoperto Du Pont.

Voto: 8

Stefano Losi

NON SPOSATE LE MIE FIGLIE!

Titolo originale: Qu’est-ce qu’on a fai tau Bon Dieu?

Regia: Philippe de Chauveron

Sceneggiatura: Philippe de Chauveron, Guy Laurent

Anno: 2014

Durata:  97’

Nazione: Francia

Fotografia: Vincent Mathias

Montaggio: Sandro Lavezzi

Colonna sonora: Marc Chouarain

Interpreti: Christian Clavier, Chantal Lauby, Ary Abittan

TRAMA 

Un francese cattolico della media borghesia vede sposate tre delle sue quattro sue figlie a uomini di diverse etnie. Quando scopre che la quarta sposerà un uomo di colore, le carte nel mazzo verranno rimischiate.

RECENSIONE

Il film parte presentando situazioni a macchietta e luoghi comuni su cui non sentiamo il bisogno di specificazione – li conosciamo tutti benissimo. Allo stesso tempo si stacca però dal perbenismo tipico delle solite commedie. Dopo la prima mezz’ora, in cui abbiamo fatto la conoscenza dei personaggi, la pellicola decolla e assume un ritmo e un umorismo brillante e simpatico. Si ride veramente! Forse anche grazie al personaggio di Charles (il promesso sposo di colore), di cervello fino nel quale è facile immedesimarsi. La parte centrale è quindi veramente uno spasso e sembra strizzare l’occhio, con le dovute proporzioni, a Quasi amiciProblematizzata però la situazione, il regista cerca una soluzione e un finale che tenda a mettere d’accordo tutti, degenerando nel buonismo: “vogliamoci bene” perché tanto grazie all’amore (e all’alcool) tutto passa e si risolve.

Le vette di umorismo sono alte. Segnaliamo, a titolo d’esempio, la scena del primo incontro di Charles coi futuri coniugi. Un film consigliabile per chi vuole trascorrere due ore in leggerezza.

Voto: 7

Daniele Somenzi

CINQUANTA SFUMATURE DI GRIGIO

Titolo originale: Fifty Shades of Grey

Regia: Sam Taylor-Johnson

Sceneggiatura: Kelly Marcel, Patrick Marber, Mark Bombach

Anno: 2015

Durata: 125′

Nazione: USA

Fotografia: Seamus McGarvey

Montaggio: Susan Littenberg, Sabrina Plisco

Scenografia: David Wasco

Costumi: Mark Bridges

Colonna sonora: Danny Elfman

Interpreti: Dakota Johnson, Jamie Dornan, Jennifer Ehle

 TRAMA

La storia d’amore tra Anastasia Steele, giovane studentessa e Christian Grey, uomo d’affari, bello e affascinante. Ma l’ingenua Anastasia presto scoprirà che il giovane misterioso nasconde segreti inconfessabili.

RECENSIONE

Cinquanta sfumature di grigio… torpore, aggiungeremmo. Grigio è infatti il colore che meglio rappresenta il primo episodio tratto dalla trilogia della scrittrice inglese E. L. James. La trama, che già dai trailer “esclusivi” si preannunciava scontata, è appunto inconsistente. L’ incontro tra i due protagonisti è immediato, avviene dopo soli tre minuti dall’inizio della pellicola; e da subito si capisce che sarà amore. I dialoghi adolescenziali, patetici, ricordano le meno (più?) riuscite love story americane degli ultimi decenni e sono esasperati da alcune esclamazioni del protagonista – il bel milionario Christian Grey, l’uomo che “esercita il controllo su ogni cosa” – che proprio non funzionano e si trasformano, senza volerlo, in battutacce da bar sport (“Io non faccio l’amore. Io scopo. Forte”). Con tutto rispetto per i bar sport.

50 sfumature

Tuttavia, cercando di trovare un briciolo di originalità, qualcosina di nuovo c’è. Qualcosa di mai visto fino a ora (o quasi). Sto parlando dell’introduzione, seppur minima (qualche frustata qua e là), a pratiche BDSM in un film blockbuster. Né Nymphomaniac, né Secretary o Légami!, per citarne di famosi, avevano queste proporzioni, in termini di budget o incasso al box office. Non si erano mai usati termini tecnici come “fisting”, “safe words” o “dilatatori anali; ed era ora, nell’epoca del porno home made e del boom di portali come kink.com. Non che il sesso debba necessariamente comprendere bondage o sadomaso, ma nemmeno considerarli un male assoluto, qualcosa da nascondere o di cui vergognarsi.

Già in passato varie serie televisive americane hanno avuto il merito di sdoganare tabù sessuali; si pensi al successo di Sex and The CityWill & Grace o Friends, quando l’omosessualità venne resa “normalità” nel ’96, mandando in onda il matrimonio tra Carol e Susan davanti a 31 milioni di americani. Forse è arrivato il turno del BDSM, anche se in Cinquanta sfumature viene affrontato con eccessivo machismo e romanticismo. Il ricco, freddo e potente seduttore che umilia lei, giovane, indifesa e innamorata. Non ci siamo. Per il prossimo capitolo, sempre se uscirà, datevi da fare.

Voto: 5

Lucciola della Ribalta


COMMENTO

La Prima volta

Ieri sera siamo andate a vedere Cinquanta sfumature di grigio. In anteprima mondiale, just to say. Nata come una fan fiction spinta ispirata a “Twilight”, non è altro che una fiaba per adulti. Che poi il libro sia scritto come è scritto aggiunge soltanto un merito al genio dell’autrice, E.L. James. Cioè, vi rendete conto? Questa si è messa lì e ha buttato giù probabilmente in meno di qualche mese, non uno, bensì tre libri. Parlando di quello che le pareva, nel modo in cui le andava di farlo (male). E ha fatto i miliardi. Rifletteteci.

Scriverò questa frase con la consapevolezza di poter essere presa a pesci in faccia, ma forse non hanno torto i fan. Sapete perché? Perché in casa di mia nonna ci sono scatoloni degli Harmony da cui nessuno ha maitratto un film. Da piccola ne ho letti un paio, perché si legge tutto e perché mi serviva capire come funzionano certe cose. Ma semplicemente il contenuto di quei volumetti rosa era molto più pudico di quanto facesse presagire, e sperare, l’immagine stampata in copertina sullo stile della “Domenica del corriere”.

Da quando sono tornata dal cinema ieri notte, non faccio che domandarmi: cosa vorrebbero trovare i lettori nella mia recensione? Il punto è che non sapevo se parlarvi del film. Intendo dire del film in sé. Mi sono immaginata cosa avrebbero scritto gli altri giornalisti italiani, quelli veri. Copia-incolla dei servizi usciti all’epoca della pubblicazione dei libri, con la malizia aggiunta delle immagini, ci saranno quattro tipi di pezzi.

1) La critica bigotta: la maggioranza, non soltanto sulle pagine del bollettino parrocchiale, probabilmente descriverà “Cinquanta sfumature di grigio” come un film all’insegna della lussuria e del peccato dove non si fa l’amore ma, ahimè, si scopa (cit. Christian Grey).

2) La critica progressista: le femministe e quei depravati che praticano il bondage ogni sabato sera, insomma. Bene, mi è sembrato di capire che loro siano incazzati neri perché Ana e Christian fanno fare una figura di merda a tutti. Come se fosse indispensabile aver subito abusi da giovani per avere un interesse verso corde e frustini, le sole cose capaci di soddisfare i gusti perversi delle menti disturbate. E poi c’è questa figura della donna sottomessa e controllata, ma consenziente perché innamorata, che ovviamente sbatte alla velocità della luce contro parole come stalking e abuso. Come dargli torto.

3) Quelli che non hanno letto il libro: e ancora si stupiscono di vedere una cagata. Loro volevano una roba molto più spinta, uscire dalla sala con la bava alla bocca. Non hanno capito che il punto, e il segreto del successo, non sono le perversioni sessuali del protagonista, ma inequivocabilmente la love story. Poi tutto il resto sono chiacchiere, uno sfogo per casalinghe mature e una miniera d’oro per la cara E.L. James.

4) Le riviste femminili: come dicevo, è una fiaba per adulti o meglio per adulte. Entusiaste per il romanzo che ha finalmente aggiunto quel-non-so-che alla loro vita matrimoniale, le lettrici non-femministe aspettavano soltanto di dare un volto e un corpo alle loro fantasie. E allora ecco gli speciali che, se avessimo il buon cuore di leggerli, ci insegnerebbero tutto quello che serve per intrattenere una sana vita di coppia sotto le lenzuola: da dove comprare i bustini di pelle, a come gestire un “uomo difficile”. Se non li leggete, poi non lamentatevi.

Da domani l’Internet sarà sommerso da tutte queste pallosissime dissertazioni. Di cos’altro avrei potuto scrivere? Poi a me è pure piaciuto. Mi sono piaciuti la fotografia, l’uso intelligente dei colori e Dakota Mayi Johnson che è bravissima nella parte di Anastasia. Ho riso. Mi sono anche addolorata per Jamie Dornan, condannato al carattere del suo personaggio e, cosa più grave, alle sue battute. Sono soddisfatta perché la regista, Sam Taylor-Wood, ha fatto un buon lavoro. Ha superato le mie aspettative, non mi sento offesa come donna e se vorrò scandalizzarmi mi guarderò un documentario. Ma era chiaro che scrivere una recensione positiva poteva farmi perdere la dignità. Partendo dal presupposto che il film lo andrete a vedere tutti (o lo guarderete in streaming, è inutile nasconderlo), ho convenuto che la descrizione della serata fosse l’unica cosa che nessun altro potesse mettervi a disposizione.

Partiamo dal perché. L’anno scorso per un po’ abbiamo convissuto in tre in una casa di troppi pochi metri quadri e senza internet. A un certo punto, una si alza e propone: “Facciamo un ciclo di letture serali!”. Era una buona idea, da Settecento illuminato. Ma presto abbiamo perso il senso della misura perché qualcun altro deve aver detto una frase come: “Sì, ma niente di serio”. Non farò nomi, potrei essere stata io. L’abbiamo finita che una delle tre è tornata dall’aeroporto con “Cinquanta sfumature di grigio”. Lo abbiamo letto come in “Piccole donne”: alla luce fioca del mio lampadario che funziona male, la proprietaria-oratrice seduta su una sedia a dondolo e le altre due intorno ipnotizzate dall’accento sardo. Non potevamo perderci la versione cinematografica.

Così siamo andate alla première mondiale. L’ho già detto, ma di tirarsela non si finisce mai. Alla Berlinale, nello Zoo Palast. Che già è una location tamarra. Tende dorate, per la programmazione normale lasciano cadere una cascata di acqua vera davanti allo schermo prima della proiezione. Così, a buffo. Solo che ottenere un biglietto per il film è stata un’impresa incredibile. Una roba da Amaro Montenegro. Avevamo rinunciato alle prevendite online, uscite domenica mattina e scomparse in un batter d’occhi. Non restava che mettersi in coda. Come le fan più sfegatate, sprezzante del pericolo, di fronte al volto enigmatico di una cassiera poco convinta sulla disponibilità di altri biglietti, la mia amica non ha fatto una piega. Ha preso pretzel e bevande e ha aspettato. Aspettato. Aspettato. Aspettato. Qualcuno in coda con lei confidava, ne era quasi certo, nella riuscita della missione. Sembrava che si stesse mettendo male, perché in bagno non c’era ancora andata, quando all’improvviso la provvidenza ha fatto il suo. Sì c’erano ancora posti liberi: Obama non sarebbe venuto.

Ora, io non sono mai stata a una prima, né all’uscita dell’Iphone 6, né a un concerto degli One Direction. L’affollamento davanti al cinema già mi ha inquietata ed emozionata allo stesso tempo. Avrei voluto parlare con tutti per capire i motivi di tanto fanatismo, fare foto migliori di quelle che ho fatto, farmi un selfie con gli attori e ottenere autografi sulla maglietta. Ma mi hanno detto di entrare “che c’è già abbastanza casino” e sono entrata. Nella mezz’ora di ritardo con cui hanno fatto iniziare il film, osservare la fauna sugli spalti e fare foto allo schermo per vedere quello che avremmo visto se fossimo rimaste fuori come il resto del mondo sono stati i nostri passatempi. Le ultra-cinquantenni la facevano da padrone tra la folla, punteggiata da rare ventenni in lacrime di giubilo. Quello che ci ha stupito più di tutto, e che forse avrebbe dovuto stupirci di meno, era l’abbigliamento dei presenti. La loro eleganza era direttamente proporzionale alla loro affezione ai personaggi della storia, credo. Per esempio si sono visti uno con piume di pavone sulla spalla e una tizia vestita sobriamente di  pezzi del firmamento. Non è che non sappia come ci si veste a una prima mondiale (per ribadire, no?), ma l’eleganza a Berlino è un vezzo per pazzi.

Infatti i veri berlinesi si riconoscevano per il loro degrado e il loro tasso alcolico, come quello dell’uomo seduto di fronte a noi. Quest’uomo, di cui purtroppo non ci è stato comunicato il nome, si reggeva a fatica ma sapeva far conversazione. Sfoderando un italiano insensato, ci ha raccontato di come a Venezia se ne sarebbe andato in giro interpretando Papa-Grappa (personaggio di sua invenzione) e facendo scompisciare, a detta sua, dalle risate l’intera città. Sebbene non fosse Carnevale. Comunque poi abbiamo dedotto che fosse un progressista, o un femminista, o un bigotto, o uno che non ha letto il libro e voleva un porno, perché durante il film si è alzato e se n’è andato mollandoci lì così.

Potrei parlarvi della coppia serissima seduta accanto a me, ma non c’è nulla da dire. A parte il fatto che questo film o lo prendi sul ridere o ti pagano per andarlo a vedere o sei un fan. E quindi non ho capito cosa volessero dimostrare con le loro facce. Notevoli sono stati altri compagni di avventura: come la donna matura e sola che, venuta apposta da Strasburgo, ha abbracciato la mia amica come se fosse un dio quando le ha fatto ottenere l’ultimo biglietto tenendole il posto. Oppure il cinese vicino a noi che, inspiegabilmente, si è addormentato fra una botta e l’altra. Succede anche ai migliori.

Emi Barbiroglio

IL SALE DELLA TERRA

Titolo originale: The Salt of the Earth

Regia: Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado

Sceneggiatura: Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado, David Rosier, Camille Delafon

Anno: 2014

Durata: 106’

Nazione: Brasile, Italia, Francia

Fotografia: Hugo Barbier, Juliano Ribeiro Salgado

Montaggio: Maxine Goedicke, Rob Myers

Colonna sonora: Laurent Petitgand

Interpreti: Juliano Ribeiro Salgado, Wim Wenders, Sebastiao Salgado

TRAMA

Un documentario che ripercorre e osserva la vita e le opere del fotografo brasiliano Sebastiao Salgado, esponente eminente di reportage socialmente impegnati e fotografo celebrato in tutto il mondo per la sua estetica e intensità visiva.

RECENSIONE

Non è raro che davanti a certe fotografie, chi le osserva si interroghi sulla storia che si cela dietro l’immagine per la quale è rimasto colpito. Nonostante l’aiuto di didascalie, biografie o testimonianze, la curiosità non è mai soddisfatta in pieno. Ne Il sale della terra, Wim Wenders riesce a documentare il lavoro di uno dei più acclamati fotografi del novecento, il brasiliano Sebastiào Salgado. Lo spettatore è chiamato a seguire un duplice racconto, che coniuga il particolare con l’universale. Da una parte Wenders mostra la vita dell’artista: l’infanzia nel prospero verde della natura brasiliana, l’emigrazione assieme alla moglie prima a Parigi e poi a Londra in qualità di economo e il successivo radicale cambio di vita fatto da Salgado che lo vedrà viaggiatore e testimone per immagini di popolazioni e luoghi tra i più disparati e incontaminati nel mondo. Dall’altra la successione delle immagini degli scatti realizzati da Salgado ha il potere di infondere un sentimento senza tempo riguardo l’essere umano e la propria dignità. I dialoghi tra regista e fotografo, così come tra aiuto regista (il figlio stesso di Salgado) e fotografo, non si limitano solo a raccontare le fotografie conferendo loro movimento, ma arrivano a toccare implicitamente tematiche dalle sfumature esistenzialistiche applicabili a qualsiasi individuo abbia abitato in un qualsiasi “dove” del pianeta.

il sale della terra

Premettendo che la sostanza e la vastità caratterizzante la poetica di un artista come Salgado sia di per sé un nucleo semantico dalle dimensioni sconfinate, Wenders riesce a sfruttare al meglio il soggetto da lui scelto nel offrire allo spettatore un’esperienza che rappresenta anche uno dei pilastri del cinema stesso, quella del viaggio. Assistere al passare in rassegna sul grande schermo di così tanti luoghi, popolazioni e momenti vissuti e visti da Salgado comporta un’inevitabile immedesimazione negli occhi del fotografo ed è simile all’essere davanti ad una popolazione peruviana, immergersi nel petrolio mediorientale o toccare i freddi ghiacci antartici. L’ammirazione di Wenders nei confronti del fotografo è palpabile, così come l’attaccamento del figlio verso il padre. Tuttavia l’artista brasiliano non nasconde alla telecamera occhi sfuggenti, assorti nella tragicità delle sofferenze dell’uomo e ricchi delle bellezze inenarrabili dell’essere umano. Salgado ha vissuto la vita e la morte, fotografandola in ogni posto dove sia andato. Questo documentario, senza sentimentalismi, colpisce per la sua umanità e porta a riflettere sull’idea di bello e brutto.

Salgado è riuscito a conferire magnificenza ad ogni suo scatto, non importa che si tratti di un primo piano di un indigeno indocinese, di una madre con in braccio il figlio morente nell’Africa piegata dalla carestia o di qualche scimpanzé della jungla. Wenders è riuscito a creare non solo un documentario, ma un manifesto visivo per il diritto alla vita di ogni essere vivente.

Voto: 9

Mattia Maramotti

LAST DAYS

Regia: Gus Van Sant

Sceneggiatura:Gus Van Sant

Anno: 2005

Durata: 85’

Nazione: USA

Fotografia: Harris Savides

Montaggio: Gus Van Sant

Scenografia: Tim Grimes

Costumi: Michelle Matland

Colonna sonora: Thurston Moore, Michael Pitt

Interpreti: Michael Pitt, Lukas Haas, Asia Argento, Scott Green, Nicole Vicius

TRAMA

Il film narra di un personaggio molto simile a Kurt Cobain, leader del famoso gruppo grunge dei Nirvana. Le immagini s’incentrano sul disagio del protagonista, mostrandolo logorarsi ed avanzare nella vita senza spirito e vitalità.

RECENSIONE

Last Days, con le due opere precedenti di Van Sant, Gerry ed Elephant, forma un’ideale “Trilogia della morte”. A partire da questi lavori il regista prova nuove forme di sperimentazione artistica, allontanandosi dalla ripresa classica. Nei tre lungometraggi è forte la componente giovanile, unita indissolubilmente alla dipartita. I giovani di Van Sant sono spaventati, complessi ed allo sbaraglio. Sembra che alle spalle di questa produzione non ci sia un vero e proprio soggetto e che l’attore principale si muova nell’esistenza che gli resta senza un piano preciso. Naturalmente non è così. Ogni dissonanza è studiata e ben congeniata.

last-days

Quello che vediamo sullo schermo non è una biografia o un omaggio, ma uno spunto, un’occasione per mostrare il disagio e l’impotenza di una persona che somiglia in tutto e per tutto a Cobain, ma che potrebbe essere chiunque di noi. Presentato al Festival di Cannes, il film ha ricevuto elogi per la sua intensità e critiche per le scene troppo lunghe ed eccessivamente silenziose. Infatti, il tempo della storia è molto dilatato, per dare l’idea di realtà, e il piano sequenza la fa da padrone. Oggettivamente l’opera può annoiare. I ritmi sono lenti e la mancanza di una storia nel senso stretto del termine può essere un fallo dal punto di vista della godibilità. Se però si va oltre e ci si perde nelle immagini del regista, si è in grado di vedere il lungometraggio di un autore interessante e attento a tematiche borderline.

Questo atto conclusivo della sua “Trilogia della morte” è un quadro forte di una gioventù che si vede senza futuro. Una gioventù che non è quella bella, atletica e ricca dei classici film americani. Una gioventù ai margini. Per approcciarsi alla pellicola occorre conoscere i precedenti lavori di Van Sant ed essersene già lasciati sedurre.

Voto 7,5

Lisa Fornaciari

JOHN WICK

Regia: David Leitch, Chad Stahelski

Sceneggiatura: David Kolstad

Anno: 2014

Durata: 101’

Produzione: USA

Fotografia: Jonathan Sela

Montaggio: Elísabet Ronaldsdóttir

Scenografia: Dan Leigh

Costumi: Luca Mosca

Colonna sonora: Tyler Bates, Joel J. Richard

Interpreti: Keanu Reeves, Michael Nyqvist, Alfie Allen, Willem Dafoe, Adrienne Palicki, John Leguizamo, Ian McShane

TRAMA 

Non rubare le automobili di altri e soprattutto non uccidere i cani di altri. Soprattutto se si tratta di ex killer della mafia.

RECENSIONE

Gli assassini che rubano la Ford Mustang del 1969 e che ammazzano la tenera beagle a questo sventurato (a cui fra l’altro è morta pure la moglie, sì), non sanno che in realtà è John Wick, ex killer temuto da tutti i più grossi malviventi newyorkesi e non solo. I criminali, poi, non sanno manco che questo individuo era in combutta con il padre di uno di loro, tale Viggo Tarasov – boss della mafia russa, dedito alla vodka e al rifiuto della lingua inglese -. Dopo che Tarasov ha implorato Wick di dimenticare inutilmente la faccenda, parte la caccia. Wick dissotterra le armi ormai in finite pensione e si trasferisce presso un lussuoso hotel di Manhattan, in realtà un vero e proprio alloggio per killer da tutto il mondo. Tra sparatorie, accoltellamenti, inseguimenti, botte da orbi e qualche battuta al vetriolo, Wick  otterrà la sua vendetta.

wick

Diretto dall’accoppiata David Leitch & Chad Stahelski, il film accomuna trovate gustose come l’hotel-covo di assassini o il personaggio della perfida Miss Perkins (l’attrice Adrienne Palicki). Altre, invece, ridondanti come ad esempio il personaggio di Willem Dafoe (per quanto sia sempre Dafoe), o la scelta di rappresentare la vita da malvivente come nella migliore tradizione hollywoodiana (sesso, mignotte, armi e omicidi). Keanu Reeves perfetto come gelido e granitico killer spietato, anche se un po’ troppo legnosetto in alcuni passaggi. Una New York fotografata ottimamente da Jonathan Sela con luci fredde e bluastre facendola sembrare un misto fra Gotham City e Milano, anche se qualche volta compare, inevitabilmente, l’effetto “cartolina” come nelle scene girate vicino al ponte di Manhattan. Un sceneggiatura semplice basata sul binomio morte-vendetta dove gli ingredienti del film d’azione ci sono tutti (anche se non sempre bilanciati), i richiami a Matrix e a Kill Bill pure, però… Se il film vuole prendersi sul serio dovrebbe smollare qualche cliché di troppo e puntare su qualcosa di più originale, se invece il film cerca di fare il verso al cinema da testosterone alla Sylvester Stallone, alla Arnold Schwarzenegger o alla Bruce Willis (musiche comprese) allora ci siamo quasi, ma non del tutto. È un prodotto che vuole rievocare i fasti di un cinema da sparatoria anni Novanta, ma che purtroppo ha attinto dalle sue peculiarità meno riuscite, tranne per qualche battuta sarcastica che può far sorridere. Compiuta la vendetta durante, non rimane più niente poi.

Voto: 5

Francesco Foschini

QUEEN OF THE DESERT

Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Anno: 2015
Durata: 125′
Produzione: Germania
Fotografia: Peter Zeitlinger
Montaggio: Joe Bini
Costumi: Michele Clapton
Colonna sonora: Klaus Badelt
Interpreti: Nicole Kidman, James Franco, Robert Pattinson

TRAMA

Biografia di Gertrude Bell, “Lawrence d’Arabia al femminile”: viaggiatrice, scrittrice, archeologa, cartografa, diplomatica e agente segreto dell’Impero Britannico nei primi anni del XX secolo.

RECENSIONE

Capita alla Berlinale di entrare in sala per gustarsi Queen of the desert di Werner Herzog, film in concorso. E capita di sentir risuonare nelle proprie orecchie fino alla scena conclusiva le parole rimbombanti su Tara e la sua terra rossa (rosso Technicolor, cui è dedicata la retrospettiva di quest’anno) pronunciate da Rossella O’Hara in chiusura di Via col vento.  Se la trama del film di Fleming è già stata delineata in settant’anni di recensioni, non è lo stesso per quella di Queen of the desert, che ha avuto la sua première mondiale alla Berlinale. Protagonista è Gertrude Bell, studiosa, archeologa, politica e agente segreta britannica, massima esperta dell’Arabia, della sua politica e delle sue genti tra l’inizio del novecento e gli anni ’20. Grazie ai suoi studi sul campo e ai suoi viaggi tra Siria, Giordania, Persia e Arabia riuscì a guadagnarsi il titolo di Segretaria Orientale dell’Impero Britannico.

Il film dovrebbe raccontare proprio il profilo storico della Bell che, in un periodo caldo come quello del crollo dell’Impero Ottomano, finì per essere considerata dai beduini stessi la “regina del deserto”. Ciò che si trasmette nel film è invece più una carrellata di spedizioni e successi tra i signori locali, con una Nicole Kidman schiava della sua bellezza (un’attrice più giovane e meno conosciuta sarebbe stata sicuramente più adatta), che a fatica riesce a mostrare le doti che effettivamente hanno permesso al suo personaggio di arrivare tanto avanti. Le sue imprese sono offuscate dal vero leitmotiv della pellicola, ovvero le sfortune amorose e le apprensioni della Bell più intima. Qui, volenti o nolenti, entra in gioco prepotentemente Rossella O’Hara, a scardinare un’emotività e una pochezza cinematografica cui magari in altre circostanze si sarebbe passato oltre. Due profili simili quelli di Rossella e Gertrude, due modi opposti però di rappresentarli sullo schermo. Entrambe belle, affascinanti e con schiere di pretendenti ai loro piedi. Entrambe sfortunate in amore: Rossella colleziona matrimoni con scarse fortune, Gertrude vede passare storie d’amore senza lieto fine.

L’amore, chiave di entrambi i film, è presentato impeccabilmente in Via col vento: la civettuola Rossella cade spesso nella trappola di Cupido, ma nel far ciò mostra il suo atteggiamento di sfida alla vita, la sua determinazione nello sfruttare astutamente gli uomini per costruirsi un futuro, lei stessa artefice del suo destino. Herzog, al contrario, affonda nella melma dell’amore più sdolcinato e melenso: la stessa Gertrude che nella cupa Inghilterra rifiuta uno dietro l’altro pretendenti troppo modesti (e in questo lascia presagire lo stesso carattere di Rossella) si perde a Teheran in un amore quasi adolescenziale con Henry Cadogan, funzionario dell’ambasciata. Né determinazione, né caparbietà, né astuzia nella trama del film: solo una banale rappresentazione che include anche le immortali scene del ciondolo spezzato diviso tra gli amanti e della scalata del Romeo di turno al palazzo di Giulietta, accompagnate da lunghe e sdolcinate lettere all’amante di turno. La Bell si mostra in tutta la sua debolezza, che pare insopportabile, incomprensibile, incoerente con una vita tra i beduini del deserto che richiede un approccio diametralmente opposto. L’ispirazione storica di Queen of the desert risulta sprecata e il carattere di Gertrude viene delineato in maniera incompleta, lasciando dedurre allo spettatore quasi più dai titoli di coda della vicenda che non dalle sue immagini.

Non c’è spazio per un urlo d’orgoglio come quello di Rossella, che nella terra di Tara trova la forza per riscattare la sua movimentata esistenza, bensì solo per la rassegnazione. Dov’è la Bell punto di riferimento britannico nel controllo del Mandato post-ottomano? Dov’è la Bell che supporta la rivolta araba e che disegna i confini delle nuove nazioni? Dov’è la Bell che incorona i re di Iraq e Giordania? All’originale ironia di Via col vento, che si inserisce senza problemi nella trama (basti pensare all’attrice premio Oscar che interpreta Mammy), si contrappone in Queen of the desert un’ironia tipicamente inglese, spesso tirata, anche se in alcuni casi comunque d’effetto, che ha al centro il personaggio di Winston Churchill (tanto per cambiare), un inadatto Lawrence d’Arabia e vari riferimenti sprezzanti sull’essere tedeschi. Ciò che, parzialmente, salva il film di Herzog sono le maestose inquadrature del deserto e dei paesaggi arabi (girate in Marocco), delle carovane e delle oasi, delle città d’argilla nell’atmosfera ancora intatta del pre-colonialismo. Il tutto accompagnato da una colonna sonora pomposa e d’effetto.

Voto: 5

Andrea Pasquin

MOMMY

Regia: Xavier Dolan

Sceneggiatura: Xavier Dolan

Anno: 2014

Durata:  139’

Nazione: Canada

Fotografia: André Turpin

Montaggio: Xavier Dolan

Scenografia: Colombe Raby

Costumi: Xavier Dolan

Colonna sonora: Noia

Interpreti: Anne Dorval, Anoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément

TRAMA

Diane è una madre vedova, quasi cinquantenne, che riottiene la custodia a tempo pieno del figlio quindicenne, Steve, affetto da un’iperattività incontrollabile. La vicina di casa, Kyla, si offre ad aiutarli per cercare di trovare un nuovo equilibrio.

RECENSIONE

Tutti noi nasciamo nella stupidità morale, prendendo il mondo come una mammella per nutrire i nostri ego supremi” (George Eliot, Middlemarch)

Non basta essere dei virtuosi con la macchina da presa e il montaggio, disponendo al contempo di un cast in stato di grazia, per fare un buon film. Xavier Dolan in “Mommy” (2014) fa bella mostra di dominare il mezzo registico, di avere un immaginario molto personale, inoltre è supportato da un terzetto di attori davvero ispirati e in parte. Eppure se questo tanto osannato “Mommy” non funziona, ciò lo si deve a un eccesso di ombelicalità adolescenziale che è davvero troppa anche per un regista venticinquenne.

Dolan non può marciare ancora per molto sull’aura dell’enfant prodige, visto che è coetaneo o quasi del Bellocchio dei “Pugni in tasca” e una spanna più anziano dell’ Harmony Korine di “Gummo” e del sottovalutato “Julien Donkey-Boy” (per amore della decenza preferisco non nominare Orson Welles), rispetto ai quali è meglio evitare il confronto per non deprimersi ulteriormente. Con un’aggravante, rispetto a questi suoi “coetanei”, quella di avere già quattro lungometraggi alle spalle. Un’esperienza non da poco, i cui risultati appaiono scarsi in un film dove ogni elemento sembra buttato lì, fine a se stesso e alla propria allure di fighettata al passo coi tempi, conformistica fino al midollo. Ma andiamo con ordine.

Il film è ambientato nel 2015, in un recentissimo futuro distopico in cui  le leggi del “nuovo governo” estremista del Canada consentono alle famiglie di far rinchiudere i figli con problemi comportamentali in degli istituti vecchio stile, forniti di camicie di forza anni ’50 (alla faccia della distopia!), una scelta che, una volta presa, è irrevocabile. Ora, una distopia di solito dovrebbe rappresentare un’esagerazione di una tendenza già riscontrabile nel presente, adoperando la classica formula del “se si continua così si finisce colà”. Dove mai allora esisterebbe in occidente una società oppressiva nei confronti di chi travalica determinati limiti imposti dal sistema? Forse nel Quebec? A me pare che gran parte della letteratura e del cinema d’autore occidentali degli ultimi decenni (e lo dico con un occhio di riguardo sulla dimensione distopica) abbia riflettuto esattamente sul contrario, ovvero su un sistema ideologico che ha eliminato ogni limite dell’ego, lasciando l’individuo solo di fronte alle sue voglie e trasformando ogni alterità in un nemico da abbattere.

Del resto tutto il film “Mommy” è una rappresentazione colpevolmente complice di questa ideologia. Un esempio significativo di questa sua natura lo si riscontra nel fatto che dell’adolescente protagonista non ci vengono mostrati i coetanei, se non come comparse sporadiche. L’unico coetaneo su cui ci si sofferma un po’ di più, tanto che ne conosciamo il nome, non si vede mai, ed è un tale Kevin che all’inizio il protagonista Steve avrebbe picchiato a sangue, lasciandogli poche probabilità di vita. Il regista in una scena emblematica, posta all’inizio del film, in cui la madre a scuola si confronta con il fattaccio, sembra far cadere tutto l’accento di commiserazione non sullo sventurato Kevin, di cui non ci vengono mai mostrati i malridotti connotati, ma sul povero Steve, affetto da una fantomatica (secondo una mia personalissima diagnosi) sindrome di iperattività (che poi tra tutti i disturbi tra cui poteva pescare, difficilmente Dolan avrebbe potuto trovare uno più facile da rendere trendy). Ovvio che si compatisca Steve, perché è lui il protagonista, il suo ego è al centro del film, ed è un ego che non ha rivali sulla scena, né tra i coetanei-comparsa, né tanto meno nello sciagurato Kevin che non compare mai.

Steve non è solo al centro del film, ma anche al centro di un triangolo che vede ai due lati opposti la madre Diane (detta Die), tanto più opprimente proprio in quanto “mamma per amica” portata alle estreme conseguenze, e la timida balbuziente Kyla, vicina di casa. Kyla ha un marito e una figlia piccola, che ovviamente vengono inquadrati sporadicamente perché non sia mai diventino anche loro rivali in scena della centralità assoluta di Steve.

Tutto il film è incentrato sul rapporto di amore-odio, fondamentalmente di fusionalità patologica, tra madre e figlio. Per rappresentare tale condizione soffocante il regista adopera un formato 1:1, che molto ha fatto gridare all’originalità e all’estro registico, tanto più perché lo schermo inaspettatamente si dilata in un momento in cui i personaggi si abbandonano ad un attimo di felicità. A me personalmente questa soluzione appare completamente fine a se stessa e all’effetto sorpresa degno di un videoclip della sopraccitata (e sovraeccitata) scena, dunque non di certo spia di una riflessione più approfondita. Aleksandr Sokurov in “Madre e figlio” (siamo nel 1997, ma qui parliamo dei vertici del cinema), per rappresentare la fusione materna aveva optato per la soluzione opposta, quella di un’identificazione dell’io con la totalità, un’assenza totale di limiti di fronte alla quale il limite supremo della morte diventa tragedia ineluttabile, altra cosa rispetto a questo banale formato I-Phone molto trendy e terribilmente superficiale.

Si sprecano i momenti in cui questo film sembra un insieme di videoclip di canzoni neanche troppo ricercate (gli Oasis!), famosissime quand’anche di tutto rispetto (Lana del Rey) e che in ogni caso veicolano emozioni troppo facili e telecomandate. In definitiva, si ha la sensazione di assistere alla trasposizione cinematografica dell’immaginazione di un ordinario preadolescente che ascolta la musica, una dimensione troppo immatura anche per un venticinquenne.

Ai critici che hanno abboccato in massa, assegnando a Dolan gli allori di nuovo “genio” della settima arte, rivolgo un consiglio. Se andate alla ricerca di un vero enfant prodige del cinema contemporaneo, guardate di che straordinaria maturità si è dimostrato capace lo sloveno Rok Biček (classe 1985) nello splendido “Class Enemy” (2013), e smettetela di alimentare l’ego, già irrimediabilmente ipertrofico, di Xavier Dolan.

Voto: 4

Angelo Grossi