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72ª FESTIVAL DI VENEZIA – I 10 MIGLIORI FILM

Dopo la rassegna dell’anno scorso, Angelo Grossi è stato il nostro Fachirino in incognito anche all’edizione 2015 della Mostra internazionale d’arte cinematografica a Venezia. Ecco una classifica senza pretese d’oggettività.

10 migliori film 

1) Baby Bump (Kuba Czekaj, Biennale College)

2) Wednesday May 9 (Vahid Jalilvand, Orizzonti)

3) Desde allà (Lorenzo Vigas, Concorso)

4) Francofonia (Aleksandr Sokurov, Concorso)

5) Anomalisa (Charlie Kaufman, Concorso)

6) Na ri xiawu (Tsai Ming-liang, Fuori Concorso)

7) Childhood of a leader (Brady Corbet, Orizzonti)

8) Behemoth (Zhao Liang, Concorso)

9) Rabin, the last day (Amos Gitai, Concorso)

10) Underground Fragrance (Pengfei, Giornate degli Autori)

I voti in stelline ai film in concorso:

Beasts of no nation *1/2

Looking for Grace **

Francofonia *****

Marguerite ***

Equals *

L’attesa *1/2

The Danish Girl **

L’hermine ***

El clan ***1/2

A bigger Splash **1/2

The endless River *

Rabin, the last day ****

Abluka ***

Sangue del mio sangue **

Anomalisa ****

Heart of a dog ***

11 minutes **1/2

Desde allà ****1/2

Remember ***

Behemoth ****1/2

Per amor vostro **1/2

Angelo Grossi

MOMMY

Regia: Xavier Dolan

Sceneggiatura: Xavier Dolan

Anno: 2014

Durata:  139’

Nazione: Canada

Fotografia: André Turpin

Montaggio: Xavier Dolan

Scenografia: Colombe Raby

Costumi: Xavier Dolan

Colonna sonora: Noia

Interpreti: Anne Dorval, Anoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément

TRAMA

Diane è una madre vedova, quasi cinquantenne, che riottiene la custodia a tempo pieno del figlio quindicenne, Steve, affetto da un’iperattività incontrollabile. La vicina di casa, Kyla, si offre ad aiutarli per cercare di trovare un nuovo equilibrio.

RECENSIONE

Tutti noi nasciamo nella stupidità morale, prendendo il mondo come una mammella per nutrire i nostri ego supremi” (George Eliot, Middlemarch)

Non basta essere dei virtuosi con la macchina da presa e il montaggio, disponendo al contempo di un cast in stato di grazia, per fare un buon film. Xavier Dolan in “Mommy” (2014) fa bella mostra di dominare il mezzo registico, di avere un immaginario molto personale, inoltre è supportato da un terzetto di attori davvero ispirati e in parte. Eppure se questo tanto osannato “Mommy” non funziona, ciò lo si deve a un eccesso di ombelicalità adolescenziale che è davvero troppa anche per un regista venticinquenne.

Dolan non può marciare ancora per molto sull’aura dell’enfant prodige, visto che è coetaneo o quasi del Bellocchio dei “Pugni in tasca” e una spanna più anziano dell’ Harmony Korine di “Gummo” e del sottovalutato “Julien Donkey-Boy” (per amore della decenza preferisco non nominare Orson Welles), rispetto ai quali è meglio evitare il confronto per non deprimersi ulteriormente. Con un’aggravante, rispetto a questi suoi “coetanei”, quella di avere già quattro lungometraggi alle spalle. Un’esperienza non da poco, i cui risultati appaiono scarsi in un film dove ogni elemento sembra buttato lì, fine a se stesso e alla propria allure di fighettata al passo coi tempi, conformistica fino al midollo. Ma andiamo con ordine.

Il film è ambientato nel 2015, in un recentissimo futuro distopico in cui  le leggi del “nuovo governo” estremista del Canada consentono alle famiglie di far rinchiudere i figli con problemi comportamentali in degli istituti vecchio stile, forniti di camicie di forza anni ’50 (alla faccia della distopia!), una scelta che, una volta presa, è irrevocabile. Ora, una distopia di solito dovrebbe rappresentare un’esagerazione di una tendenza già riscontrabile nel presente, adoperando la classica formula del “se si continua così si finisce colà”. Dove mai allora esisterebbe in occidente una società oppressiva nei confronti di chi travalica determinati limiti imposti dal sistema? Forse nel Quebec? A me pare che gran parte della letteratura e del cinema d’autore occidentali degli ultimi decenni (e lo dico con un occhio di riguardo sulla dimensione distopica) abbia riflettuto esattamente sul contrario, ovvero su un sistema ideologico che ha eliminato ogni limite dell’ego, lasciando l’individuo solo di fronte alle sue voglie e trasformando ogni alterità in un nemico da abbattere.

Del resto tutto il film “Mommy” è una rappresentazione colpevolmente complice di questa ideologia. Un esempio significativo di questa sua natura lo si riscontra nel fatto che dell’adolescente protagonista non ci vengono mostrati i coetanei, se non come comparse sporadiche. L’unico coetaneo su cui ci si sofferma un po’ di più, tanto che ne conosciamo il nome, non si vede mai, ed è un tale Kevin che all’inizio il protagonista Steve avrebbe picchiato a sangue, lasciandogli poche probabilità di vita. Il regista in una scena emblematica, posta all’inizio del film, in cui la madre a scuola si confronta con il fattaccio, sembra far cadere tutto l’accento di commiserazione non sullo sventurato Kevin, di cui non ci vengono mai mostrati i malridotti connotati, ma sul povero Steve, affetto da una fantomatica (secondo una mia personalissima diagnosi) sindrome di iperattività (che poi tra tutti i disturbi tra cui poteva pescare, difficilmente Dolan avrebbe potuto trovare uno più facile da rendere trendy). Ovvio che si compatisca Steve, perché è lui il protagonista, il suo ego è al centro del film, ed è un ego che non ha rivali sulla scena, né tra i coetanei-comparsa, né tanto meno nello sciagurato Kevin che non compare mai.

Steve non è solo al centro del film, ma anche al centro di un triangolo che vede ai due lati opposti la madre Diane (detta Die), tanto più opprimente proprio in quanto “mamma per amica” portata alle estreme conseguenze, e la timida balbuziente Kyla, vicina di casa. Kyla ha un marito e una figlia piccola, che ovviamente vengono inquadrati sporadicamente perché non sia mai diventino anche loro rivali in scena della centralità assoluta di Steve.

Tutto il film è incentrato sul rapporto di amore-odio, fondamentalmente di fusionalità patologica, tra madre e figlio. Per rappresentare tale condizione soffocante il regista adopera un formato 1:1, che molto ha fatto gridare all’originalità e all’estro registico, tanto più perché lo schermo inaspettatamente si dilata in un momento in cui i personaggi si abbandonano ad un attimo di felicità. A me personalmente questa soluzione appare completamente fine a se stessa e all’effetto sorpresa degno di un videoclip della sopraccitata (e sovraeccitata) scena, dunque non di certo spia di una riflessione più approfondita. Aleksandr Sokurov in “Madre e figlio” (siamo nel 1997, ma qui parliamo dei vertici del cinema), per rappresentare la fusione materna aveva optato per la soluzione opposta, quella di un’identificazione dell’io con la totalità, un’assenza totale di limiti di fronte alla quale il limite supremo della morte diventa tragedia ineluttabile, altra cosa rispetto a questo banale formato I-Phone molto trendy e terribilmente superficiale.

Si sprecano i momenti in cui questo film sembra un insieme di videoclip di canzoni neanche troppo ricercate (gli Oasis!), famosissime quand’anche di tutto rispetto (Lana del Rey) e che in ogni caso veicolano emozioni troppo facili e telecomandate. In definitiva, si ha la sensazione di assistere alla trasposizione cinematografica dell’immaginazione di un ordinario preadolescente che ascolta la musica, una dimensione troppo immatura anche per un venticinquenne.

Ai critici che hanno abboccato in massa, assegnando a Dolan gli allori di nuovo “genio” della settima arte, rivolgo un consiglio. Se andate alla ricerca di un vero enfant prodige del cinema contemporaneo, guardate di che straordinaria maturità si è dimostrato capace lo sloveno Rok Biček (classe 1985) nello splendido “Class Enemy” (2013), e smettetela di alimentare l’ego, già irrimediabilmente ipertrofico, di Xavier Dolan.

Voto: 4

Angelo Grossi

71ª FESTIVAL DI VENEZIA – PARTE 3

ORIZZONTI

Goodnight Mommy (Ich seh/Ich seh) di Veronika Frank e Severin Fiala (Austria). Voto: 8½

La moglie di Ulrich Seidl, dirige a quattro mani con Severin Fiala questo horror dalla confezione incantevole. Una madre torna a casa dai figli gemelli, di dieci anni, con il volto ricoperto di bende. Pare irriconoscibile nel suo carattere che ora appare dispotico, e non è chiaro se sia davvero lei. I misteri che si affollano accanto questo ritorno sono tanti, e il tutto sfocerà in un sadico film di tortura, ai confini della sopportabilità. Il finale a sorpresa riduce il film ad essere un one-shot movie, stile “Il sesto senso”, e questo è probabilmente l’unico limite di un film di ipnotica bellezza che mantiene per tutta la sua durata una tensione palpitante, attraversato da un sottile sadismo che lo avvicina molto al cinema del connazionale Haneke. A livello tematico andrebbe confrontato con “Il Ritorno”, sottovalutato capolavoro di Andrej Zvyagintsev, che vinse il Leone d’oro nel 2003. Uno dei migliori film visti a Orizzonti.


Hill of Freedom (Jayueui onduk) di Sangsoo Hong (Corea del Sud). Voto: 7½


Jackie & Ryan di Ami Canaan Mann (USA). Voto: 6½


Réalité di Quentin Dupieux (Francia/Belgio). Voto: 6

Film genialoide e delirante sui confini tra realtà e finzione, pieno di arditi giochi intellettualistici e di giochi di scatole cinesi, con un occhio all’ ultimo Lynch. Non riesce ad andare oltre una brillantezza fine a se stessa, tutto sommato fredda e sterile.


Belluscone – Una storia siciliana di Franco Maresco (Italia). Voto: 8

Magnifico e importante film su un film che non si è fatto, che descrive magistralmente uno spaccato inquietante dei rapporti tra mafia e berlusconismo, non solo ai piani alti ma anche a livello popolare.


Court di Chaitanya Tamhane (India). Voto: 7

Insolito film giudiziario in cui, più che all’esito del processo, l’esordiente regista (classe 1987), sembra interessarsi alle vite private dei personaggi, ai tempi morti che le caratterizzano, scavando su alcune contraddizioni dell’ India contemporanea. Un esordio apprezzabile, ma non folgorante: c’è troppo distacco rispetto ai personaggi. Vincitore del primo premio del concorso Orizzonti, nonché del premio opera prima Luigi de Laurentiis. Troppa grazia.


SETTIMANA INTERNAZIONALE DELLA CRITICA

Figlio di nessuno (Ničije dete) di Vuk Ršumović (Serbia). Voto: 10

Il trentanovenne regista esordiente riesce a costruire una sorprendente parabola sulla condizione umana, attraverso la vicenda del percorso di civilizzazione all’interno di un orfanotrofio di un ragazzo selvaggio, ritrovato nei boschi della Bosnia. Il tutto calato nel periodo storico dello sfaldamento della Jugoslavia, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. Film circolare, apparentemente classico, in realtà di una complessità e compiutezza stupefacenti. Il vero capolavoro dell’intero Festival. Avrebbe meritato di essere in concorso. E di vincere il Leone d’oro.


Una bara da seppellire (Binguan) di Xin Yukun (Cina). Voto: 7

Un film che utilizza curiosamente lo stesso meccanismo narrativo visto quest’anno ne “Il capitale umano”, quello non nuovissimo della narrazione dello stesso evento da più punti di vista (ricordate Rashomon?). In questo caso al centro della vicenda c’è un omicidio. Il film è più che discreto, con un buon ritmo. Tuttavia contiene un mistero insolvibile: per non si capisce quale motivo, in contesti e momenti diversi, ogni volta che viene inquadrata una televisione, questa trasmette sempre lo stesso documentario sugli oranghi!


The Smell of Us di Larry Clark (Francia). Voto: 5

Larry Clark si trasferisce in Francia, ma gira sempre lo stesso film sugli adolescenti sbandati, sempre diviso ipocritamente tra le lacrime di coccodrillo e la celebrazione dell’età inquieta, per cui il regista sembra avere un ossessione che sconfina nel feticismo più spinto. Clark manca di vero amore per i personaggi, che inquadra con uno sguardo a metà tra l’avidità di un voyeur e la freddezza di un documentario di Super Quark.


Messi di Álex de la Iglesia (Spagna). Voto: 3

A cosa serviva la firma di de la Iglesia (mai così anonimo) per costruire quella che è a tutti gli effetti una semplicissima puntata di “Sfide”?


I nostri ragazzi di Ivano De Matteo (Italia). Voto: 5

Film diretto, interpretato e scritto con gli stilemi di una fiction televisiva di raiuno, con Lo Cascio mai così annoiato nell’interpretare il solito ruolo di buon borghese apparentemente (in questo caso) illuminato (ancora? ma quanti anni sono passati dalla Meglio Gioventù?). Il finale è decoroso e aggiunge un briciolo di spessore all’operazione, che però non riesce a salvarsi in toto.


The Farewell Party (Mita Tova) di Sharon Maymon, Tal Granit (Israele). Voto: 4

La colpa peggiore di questo film sull’ eutanasia è la pressoché totale mancanza di problematizzazione rispetto a un tema così complesso e delicato. Il film prende una netta posizione, e fin qui niente di male, ma lo fa con l’unilateralità di uno spot televisivo, e con estrema superficialità. Un po’ di polifonia non avrebbe guastato.


Angelo Grossi

71ª FESTIVAL DI VENEZIA – PARTE 2

IN CONCORSO – PARTE 2

Manglehorn di David Gordon Green (USA). Voto: 6½

David Gordon Green sembra essere sempre di più una mancata promessa del cinema americano, e sempre più lontani appaiono i tempi del suo fulminante esordio, lo splendido “George Washington”, che fece gridare alla nascita di un Malick in erba. Qui, come nel precedente “Joe”, troviamo Al Pacino nel ruolo di un ex-carcerato depresso che, intrappolato nei rimpianti di un amore idealizzato del passato, non riesce a vivere il presente. Il risultato non è dei peggiori: tratta il tema della depressione in modo anche delicato, con l’uso ricorrente di metafore di facilissima interpretazione (si veda il finale). Un buon prodotto medio, un compitino fatto bene.


The Postman’s White Nights (Belye nochi pochtalona alekseya trayapitsyna) di Andrej Končalovskij (Russia). Voto: 6


Il giovane favoloso di Mario Martone (Italia). Voto: 8½


Sivas di Kaan Müjdeci (Turchia). Voto: 7

Vincitore del premio della giuria, questa opera prima ha rappresentato paradossalmente l’unico vero scandalo del festival, balzando al centro di pretestuose polemiche riguardanti le cruente lotte tra cani che mostra. Inoltre è stata stroncata dai critici, che non sono riusciti a spiegarsi la presenza in concorso di un film tanto sgraziato. E’ vero che al festival erano presenti opere prime molto più convincenti (e addirittura una per cui spenderei la parola ‘capolavoro’, il serbo “Figlio di nessuno”, visto nella Settimana della Critica”). E’ anche vero che il film trae forza proprio dalla sua sgraziatezza: girato con una telecamera mobilissima, ha al centro un bambino, Aslan (bravissimo l’interprete), tutt’altro che carino e simpatico, che sfoggia un turpiloquio degno di uno scaricatore di porto d’altri tempi, mostrando un mondo, quello dell’ Anatolia contadina, all’insegna della lotta e della sopraffazione, in cui i sogni non esistono e dove ognuno deve accettare il suo ruolo di dominatore o dominato. Il risultato è un “Belle e Sebastien” brutto, sporco e cattivo, non privo di interesse, ma lontano dall’essere un esordio indimenticabile.


Anime nere di Francesco Munzi (Italia / Francia). Voto: 5

Un modesto romanzo criminale ambientato in una Calabria sospesa tra una tribalità atavica e l’affacciarsi timido e soffocato della modernità. Purtroppo le evoluzioni dei personaggi sembrano emergere dal nulla, perché non sorrette da una sceneggiatura che ne sappia illuminare i percorsi interiori.


The Look of Silence di Joshua Oppenheimer (Danimarca / Finlandia / Norvegia / Indonesia / Gran Bretagna). Voto: 8


Fires on the Plain (Nobi) di Shinya Tsukamoto (Giappone). Voto: 5

Tsukamoto questa volta usa lo stile parossistico e allucinato a cui ci ha abituati per inquadrare la guerra. Purtroppo si limita a colpire allo stomaco e scioccare, soffocando qualsiasi tentativo di costruire una riflessione che abbia un minimo di spessore.


Red Amnesia (Chuangru zhe) di Wang Xiaoshuai (Cina). Voto: 9

A parere di chi scrive, il film migliore del concorso. Storia di fantasmi del passato e di riscatti impossibili, il film gode di un equilibrio riuscitissimo tra una regia, una sceneggiatura e una recitazione degli attori di stupefacente solidità. Riesce a tenere sempre alta la tensione, ma anche a creare uno spaccato a tutto tondo di un Paese e di una condizione esistenziale, con un finale struggente che non si dimentica.

Angelo Grossi

71ª FESTIVAL DI VENEZIA – PARTE 1

IN CONCORSO

A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence (En duva satt på en gren och funderade på tillvaron) di Roy Andersson (Svezia / Germania / Norvegia / Francia). Voto: 8

Chiusura della trilogia dedicata da Andersson al cosa significa “essere un essere umano” (come dichiarato nei titoli di testa), questo singolare insieme di tableaux vivants che spesso indugia nella metanarrazione si aggiudica un Leone d’Oro coraggioso nel privilegiare un cinema non di narrazione. E’ un film pieno di invenzioni mirabolanti che ritraggono una serie di personaggi mortiferi e catatonici condannati alla reiterazione infinita di azioni assurde e irresistibilmente comiche tra le quali si sbriciola ogni possibile senso dell’esistenza.


The Cut di Fatih Akın (Germania / Francia / Italia / Russia / Canada / Polonia / Turchia). Voto: 3

Terzo capitolo di una trilogia chiamata “L’amore, la morte e il diavolo”, che segue a “La sposa turca” (che dovrebbe trattare l’amore) e a “Ai confini del paradiso” (la morte). Questa volta tocca al diavolo, cioè al male all’interno della Storia, con un’epopea riguardante il sinistro capitolo storico del genocidio degli armeni. Peccato che il risultato sia questo  esangue polpettone scontato quanto una fiction televisiva, in cui diventa praticamente impossibile interessarsi al destino di un padre alla ricerca delle figlie in capo al mondo, manco fosse una vicenda difficile da rendere interessante.


Tales (Ghesse-ha) di Rakhshan Bani-Etemad (Iran). Voto: 6

L’intento della regista iraniana è quello di raccontare le contraddizioni del proprio paese attraverso una serie di episodi in cui la narrazione è trascinata dai racconti orali dei personaggi, le cui storie, rimangono fuori campo, attraverso le diverse reazioni di chi ascolta. L’unico episodio che però riesce ad andare veramente a segno è l’ultimo, ambientato in un taxi, e consistente in un delicato dialogo tra il giovane tassista che ha abbandonato l’università e una ragazza sieropositiva, in cui il non detto e i sentimenti trattenuti muovono magistralmente i fili della narrazione. Purtroppo tutto il resto del film è all’insegna del già visto e si lascia facilmente dimenticare. Fosse stato solo un cortometraggio consistente nell’ ultimo episodio, avrebbe pienamente giustificato il premio per la miglior sceneggiatura che il film ha ricevuto.


Le rançon de la glorie di Xavier Beauvois (Francia/Belgio/Svizzera). Voto: 5½

Un intento anche troppo ambizioso quello del regista di “Uomini di Dio”: quello di raccontare la storia del rapimento del cadavere di Chaplin con i toni dei suoi film, sottolineati anche dalla splendida colonna sonora (sprecata) di Michel Legrand, che come nei film di Charlot avrebbe il ruolo di sostituire le parole nel manifestare i sentimenti dei personaggi. Questo confronto volutamente ricercato, però, finisce per sottolineare la fiacchezza del film, che non riesce nell’ imitazione troppo ambiziosa che si impone. La sottolineatura di come i due protagonisti siano più vicini allo spirito del Vagabondo rispetto al mondo che lo circondava nella vita reale, non è priva di interesse, ma troppo fragile per reggere un intero film.


Le dernier coup de marteau di Alix Delaporte (Francia). Voto: 6

Un romanzo di formazione melodrammatico all’insegna del già visto e del già sentito.


Pasolini di Abel Ferrara (Francia / Belgio / Italia). Voto: 4

Nel voler ricostruire gli ultimi giorni di Pasolini, Ferrara non è interessato né a comprendere in profondità quegli anni, né a delineare la complessità del personaggio. Il tutto si limita dunque a un elenco di aneddoti  che un giro su wikipedia o su youtube basterebbe a rendere del tutto superfluo.


Tre cuori (3 coeurs) di Benoît Jacquot (Francia). Voto: 4

Cinema tedioso, esangue, privo di vita. Colpo di sonno assicurato.

Angelo Grossi

PRIMO INTERVALLO

NYMPH()MANIAC

Regia: Lars von Trier

Sceneggiatura: Lars von Trier

Anno: 2014

Durata: 123′

Produzione: Danimarca, Germania, Gran Bretagna, Belgio

Fotografia: Manuel Alberto Claro

Montaggio: Molly Marlene Stensgaard

Scenografia: Simone Grau

Costumi: Manon Rasmussen

Effetti speciali: Erik Zumklev

InterpretiCharlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård, Stacy Martin, Shia LaBeouf, Uma Thurman, Christian Slater, Willem Dafoe

TRAMA

Una ninfomaniaca, trovata da un uomo in un vicolo dopo una violenza, racconta le proprie esperienze erotiche, dall’infanzia fino ai cinquant’anni.

RECENSIONI

Mentre sta rientrando a casa, il vecchio Seligman (Stellan Skarsgard) si imbatte nel corpo di una donna (Charlotte Gainsbourg) accasciata per terra in un vicolo. I suoi vestiti sono sporchi e il viso presenta alcune ferite. Il vecchio decide quindi di portarla in casa sua per darle i primi soccorsi. Al suo risveglio, Joe (così si chiama la donna) decide di spiegare all’uomo come ha fatto a ritrovarsi in quel luogo e in quello stato. Inizia così a raccontare la storia della sua vita, dall’infanzia fino a quel momento. Un racconto diviso in otto capitoli, ognuno con un titolo diverso, ma tutti con lo stesso comune denominatore legato all’importanza cruciale del sesso nella vita di Joe. La donna, infatti, si autodefinisce ninfomane, una condizione che in un modo o nell’altro ha segnato con avvilente puntualità i picchi e le cadute nella sua esistenza.

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Presentato in due parti, proiettate al cinema a qualche giorno di distanza l’una dall’altra, Nymphomaniac chiude la trilogia della depressione, comprendente anche Antichrist (2009) e Melancholia (2011). Von Trier torna alla tanto cara narrazione in capitoli, mettendo in scena forse uno dei suoi lavori più intensi e complessi di tutta la sua filmografia recente. Di Nymphomaniac si è parlato moltissimo, troppo, soprattutto prima dell’uscita ufficiale. Al centro di tutto c’è stata l’occasione ghiottissima di sollevare un polverone mediatico, grazie a un titolo, a una locandina e a un trailer (anzi due: uno soft e uno hard, tanto per stuzzicare ancora di più l’immaginazione, creando altre  aspettative) che non lasciavano granché all’interpretazione. Ma poi è arrivato il film.

Inutile dire che il sesso è al centro di tutto. D’altronde si sta parlando della vita di una ninfomane e delle sue esperienze, dall’infanzia fino all’età di cinquant’anni. Nonostante tutto, però, Von Trier riesce a menare lo spettatore per il naso, trascinandolo nei meandri di quello che in realtà è un film altro. Perché di sesso ce n’è tanto, ma non è lì che va cercato il fulcro dell’intero lavoro. Il sesso in Nymphomaniac è un mezzo, uno strumento attraverso cui il regista mette in scena una realtà parallela. Troppo facile? Forse, ma non credo che sia stata una conclusione tanto comune tra coloro i quali hanno assistito a questo glaciale spettacolo della carne. Se paragonassimo questo film a un viaggio in macchina il sesso non sarebbe l’autista, ma l’automobile.

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Quindi è inutile perdere tempo e energie a farsi sconvolgere dalle scene esplicite (o a fare i puristi, condannando la solita, bigotta censura che costringe a il mercato a distribuire una versione ridotta del film – sono tra quelli, lo ammetto). Non c’entra nulla. Sarebbe come dare la colpa all’automobile per la scelta sbagliata della meta. Il sesso è il tramite, uno splendido e a tratti catartico tramite attraverso cui Von Trier riflette sulla società, l’arte e la condizione umana contemporanea. Una riflessione che parte da lontano, da quell’inconsistenza insopportabile che pervadeva l’atmosfera in Melancholia e che finalmente sembra aver trovato una dimensione, una forma definita in quest’ultimo lavoro, nascosta tra le pieghe di quella che a tanti sarà sembrata un’ evitabilissima fiera di genitali e bocche in movimento. Cos’è dunque Nymphomaniac? Un film sul sesso? Sì. Un film erotico? Assolutamente no. Nymphomaniac è l’antierotismo per eccellenza. Non aggiunge sensazioni, non mette carne al fuoco. Nymphomaniac non mette in scena un crescendo emotivo che trova il suo bollente culmine nell’esplosione dell’amplesso.

Nymphomaniac è soprattutto un film di sottrazioni, di privazioni. È la storia di una fiamma che si spegne, senza speranza e senza un perché. Il sesso è un animale vivo, è qualcosa che aspira, che mangia che si nutre delle vite dei protagonisti e non lascia nulla dietro di sé.  È una storia di sottrazioni perpetuata attraverso i ripetuti atti sessuali che svuotano i protagonisti di ogni loro bene spirituale e materiale: il sesso priva Joe di una vita normale e ben presto le ruberà anche il piacere derivante dalla copula, ovvero l’unica ragione di quella sua vita “anormale” fatta di schiavitù carnale (il volume 1 termina con lei che in lacrime sussurra spaventata: “Non sento niente”). Il sesso priva Jerome della sua dignità, costringendolo ad ammettere di non poter soddisfare da solo Joe; e priva il vecchio Seligman della sua integrità, della sua figura eterea, del suo ruolo di contatto tra un mondo infernale e un altro talmente asettico da sembrare asfittico – ovvero la sua dimensione di uomo a-sessuale che lo obbliga a trovare immagini sempre nuove e sempre molto “normali” da poter associare ai racconti allucinanti di Joe e farli così diventare i titoli dei capitoli.

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Il sesso diventa quindi il togliere, l’estirpare, il soffocare. Svuotamento, ma anche paura dello svuotamento, la stessa paura che prova il passeggero del treno a cui una giovane Joe pratica una fellatio, un rapporto orale che significaprivarlo del seme che deve essere preservato per la fecondazione dell’ovulo di sua moglie –  un bambino che salvi il matrimonio, che tenga a freno la paura di perdere tutto in una traduzione perfetta del non-amore. Ogni capitolo è legato a un oggetto, a un concetto, a un’immagine, a un’idea che in un modo o nell’altro si mostra come un divertente ossimoro rispetto alla situazione che va a descrivere poco dopo, facendo tenere al film un curioso andamento sinusoidale. I nomi dei capitoli rappresentano l’esigenza da parte di Seligman di dare una forma a quello che Joe racconta, un’esigenza che nasce perché ciò che racconta la donna diventa ai suoi occhi inconsistente, incomprensibile, non incasellabile per un uomo come lui che non ha mai provato alcun desiderio sessuale. Seligman ascolta la storia di una donna che, sottrazione dopo sottrazione, perde la verginità, la madre, il padre, il marito, il figlio, l’amante e infine il suo posto nel mondo. Lui si ritrova ad essere l’unica cosa che le rimane, il suo unico amico. Eppure il sesso torna per mietere un’altra vittima e continua la sua opera di privazione, sottraendo stavolta al pubblico l’unico personaggio “normale” all’interno di quel turbine di sensazioni estreme.

L’ultimo della lista è proprio Seligman, l’unico che all’interno del film, incarnando una vera e propria accumulazione di nozioni enciclopediche, rappresentava un triste eppure anche rassicurante tutto che in qualche modo teneva testa allo svuotamento di ogni cosa da parte del sesso, contrapponendosi alla sua furia devastatrice. Un tutto che però risulta vuoto, inanimato, senza forza. Un accumulo senza significato che lo spinge a stravolgere la sua esistenza, tentando di costringere Joe a fare sesso con lui nel macabro e grottesco finale (vero punto debole della pellicola) e diventando così suo malgrado il simbolo dell’ultima ed estrema sottrazione del film, ovvero la privazione della vita altrui attraverso l’omicidio, da parte di Joe, condannata a rimanere sola.

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Von Trier firma un film bellissimo nella sua agghiacciante verosimiglianza, componendo una vera e propria sinfonia di valori al contrario (esemplare lo splendido Episodio 5: La scuola di Organo) che tende al minimo, all’essenzialità della questione. Il Dogma 95 applicato ai contenuti anziché al setting, forse per la prima volta nella sua carriera.

Voto: 8

Giorgio Mazzola di Club Ghost


“Se avessi voluto fare un vero film di sesso avrei filmato un fiore che ne impollina un altro. Per la migliore storia d’amore bastano due uccellini in gabbia”. [Andy Warhol]

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Infastidito da Antichrist e commosso da Malincholia, mi sono avvicinato a Nymph()maniac, come tutti, con una certa curiosità e molto sospetto. La difficoltà di distinguere il confine preciso tra operazione cinematografica e quella commerciale risiede nell’astuzia propagandistica di von Trier di presentare il film come un porno – conscio che si tratta del genere “peggio girato ma anche il più visto” – generando un approccio e un filtro di lettura volutamente superficiale, in grado di giocare con la fruizione dello spettatore, contaminandone a priori la purezza visiva. Costretti, per volontà dell’autore, a partire da tale questione, si deve sottolineare come, ovviamente, in realtà si porno non si tratti; a meno che non si estenda tale concetto fino a fargli abbracciare l’intera opera di von Trier, in virtù della propria natura espositiva, della sua misoginia e dolcezza, sensibilità e violenza, della capacità di stimolare il pubblico fino a farlo impazzire, a provare dolore o a lasciarlo inerte. In questo senso gli elementi pornografici di Nymph()maniac risiedono in una tendenza alla spettacolarizzazione debordante, insomma all’eccesso, alla prolissità, alla noia, all’ironia a volte inconsapevole e altre volte troppo consapevole.

Nympho 4

Nymph()maniac non è un porno ma casomai la sua antitesi, è un film quasi moralista e puritano, al punto che nelle scene di sesso si deve ricorrere alle controfigure o al digitale. Là il sottofondo narrativo è il mero pretesto oppure, nei migliori casi, l’attimo di pausa e di respiro che prepara un nuovo atto sessuale; qui le scene di sesso sono solo il contrappunto per definire il ritmo della tensione psicologica in cui consiste il film. Nymph()maniac non è una scopata fra due soggetti che si espongono l’uno all’altro, ma un’interminabile seduta psichiatrica fra due maschere che si nascondono reciprocamente: alla fine del percorso si svela semplicemente l’assenza di una cura; la nostra ninfa non esce dall’abisso. Ma l’impossibilità di sanare la frattura interiore sembra esibita più che altro dall’incapacità di von Trier di colmare la distanza con lo spettatore, che fa di tutto per stuzzicare, scandalizzare o addirittura violentare intellettualmente, ma che alla fine è lasciato insoddisfatto.

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Nymph()maniac è un nuovo tentativo da parte del regista di approcciare il tema dell’angoscia e della solitudine, che attraversa e muove la sua intera opera. Tale riflessione sull’uomo diventa quindi per von Trier una riflessione sul cinema, ma sempre, in maniera egocentrica, sul proprio cinema: i diversi richiami ai lavori precedenti – su tutti la scena del bambino che viene recuperato dal padre prima che si getti dalla finestra (ma è troppo tardi per lo spettatore che si è già sorbito Antichrist) – non rappresentano però nient’altro, in fin dei conti, che l’ennesimo gratuito divertissement. Il cinema di von Trier sembra mosso da un unico dogma: che non vi sia riflessione senza provocazione. La forza e la debolezza del suo lavoro risiede in questo delicato intervallo in cui la provocazione non diventa offesa gratuita (5+3?) per lo spettatore ma suo strumento di piacere. Alcune scene di Nymph()maniac, se prese nella loro purezza visionaria e giocosa, riescono pregevolmente a creare complicità con lo spettatore, ad esempio nel bellissimo elogio all’essenza poligamica dell’amore tramite la polifonia Ich Ruf Zu Dir, Herr Jesu Christ di Bach. Eppure, nel suo complesso, gli elementi narrativi di Nymph()maniac – a partire dai pesanti dialoghi, più letterari che cinematografici – si rivelano presuntuosi e convenzionali proprio nei momenti in cui vorrebbero essere più profondi o geniali (i vari richiami blasfemi o a giochini matematici); alcune scene potenti non possono giustificare un film di quattro ore. Dopo tanta fatica, un coito interrotto che non può che lasciare delusi.

Voto: 5

Patrick Martinotta


 

Dopo Antichrist (2009) e Melancholia (2012), quella che, non a torto, molti critici hanno individuato come una trilogia (spesso definita la “trilogia della depressione”), confluisce nell’ opera che delle tre è la più totale e importante, ma anche la più ironica e sfuggente, questo monumentale Nymph()maniac che rende sempre più palese quanto il percorso del mercuriale cineasta danese sia uno dei pochi degni eredi, pur in modo estremamente parodico e post-moderno, degli approcci moderni e spirituali di cineasti come Ingmar Bergman o Andrej Tarkovskij. In questo capitolo della sua opera è evidente come von Trier abbia firmato davvero la sua personalissima trilogia sul silenzio di Dio. Parente degenere di quella che in Bergman era composta da “Luci d’ inverno”, “Come in uno specchio” e “Il silenzio”, la trilogia sulla depressione nasce dal presupposto di inquadrare una realtà in cui è venuta meno qualsiasi possibilità di trovare una sintesi che possa ricomporre la frammentazione del reale e facilitare una ricerca di senso, tema certo non nuovo ma che in questo caso trova un’espressione originalissima e profondamente calata nella nostra contemporaneità.

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Come di solito avviene con il regista danese, chi cercherà nelle provocazioni più gridate il centro del film verrà abilmente sviato dalla possibilità di coglierne un senso compiuto. Infatti lo sberleffo principale del film è quello di presentarsi programmaticamente come un’opera superficiale che,  nella forma di una grande confessione-psicanalisi e di una ricerca proustiana di sé attraverso la ricostruzione del passato (non a caso costellata da oggetti che assumono una posizione centrale) della ninfomane Joe, non fa nulla per illuminare le ragioni profonde della dipendenza, né per comprendere il fil rouge che lega i frammenti sparsi dell’ esperienza umana della donna.

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I vari oggetti presenti nella casa monacale del confessore Seligman, che forniscono lo spunto per dare il titolo ai capitoli in cui il film è “frammentato”, dovrebbero contenere ognuno un concetto che, attraverso le continue digressioni  (che in modo enciclopedico toccano i temi più svariati, dalla pesca allo scisma d’oriente, passando per la polifonia di Bach), possa illuminare maggiormente le origini profonde dei comportamenti della donna, e trovare il centro che li lega, in poche parole rimettere insieme l’io frammentato di Joe. Nel vedere il film è difficile che uno spettatore non vada alla ricerca del collegamento tra queste suggestioni culturali e l’esperienza della donna, anzi sembra caldamente invitato a cercarlo. Questa ricerca è però destinata alla frustrazione, perché quella che invece il film ci mostra è una vera e propria anti-confessione in cui gli estenuanti rimandi e le infinite nozioni della cultura enciclopedica (e snob, infatti ignora Ian Fleming) di Seligman rimangono fini a sé stessi e superficiali, non illuminati da nessun vero collegamento con l’esperienza di Joe, né a loro volta illuminanti. Non a caso per la maggior parte si tratta di oggetti estranei alla vita di Joe (non tutti: fa eccezione il dolce ebraico) e presi in considerazione in modo casuale, in modo tale che le riflessioni sterili di Seligman emergono da essi con la caoticità di dei pop-up internettiani.

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 Con squisito senso parodico da parte del regista (e l’oggetto della parodia in questo caso è  a parere di chi scrive soprattutto certo cinema di Peter Greenaway, come reso evidente dall’uso di sovraimpressioni e di scomposizioni dell’inquadratura), i rimandi appesantiscono ulteriormente il senso di frammentazione di Joe, depistandola continuamente dalla possibilità di costruire una riflessione sui vari pezzi della sua vita. E’ questa estorsione da parte di Seligman (personaggio apparentemente luminoso e positivo, la cui ambiguità è abilmente nascosta) il vero atto sadico al centro del film. Così da spettatori ci viene continuamente negata la possibilità di capire l’origine delle azioni di Joe, e il centro che le lega, esattamente perché è negata alla stessa protagonista. In questo senso è centralissimo e magistrale l’episodio sulla moglie tradita, Mrs. H, interpretata da Uma Thurman, l’unico momento del film che spinge Joe a fare i conti con il centro delle sue azioni arbitrarie, occasione di una catarsi tragica che poi si dimostra  freddamente mancata.

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E’ proprio nella sua programmatica superficialità e freddezza, nonché in questi rimandi fini a sé stessi (in che modo il discorso  sulla chiesa d’oriente e quella di occidente rende più comprensibile il perché del masochismo di Joe?), nella piattezza di personaggi che sembrano essere solo l’insieme delle loro azioni , senza una personalità che le leghi (sfido a trovare spessore nel personaggio dell’”unico amato” Jerôme o nel sadico K), che risiede il senso dell’operazione parodica compiuta da von Trier. Il film, sposando il punto di vista di una narratrice intradiegetica che, proprio perché non riesce a ricomporsi e a capire il suo passato, è condannata a osservarlo attraverso una lente che lo appiattisce e lo priva di senso, rendendolo un insieme di parentesi privi di una frase principale che le tenga insieme (questo è a mio parere il senso, oltre quello più ampiamente sottolineato, della trascrizione del titolo del film), spinge a riflettere sulla frammentazione profonda della nostra contemporaneità, dove la conoscenza, per lo più di matrice enciclopedicamente internettiana, assume la forma di un’ accozzaglia di informazioni superflue che, rimanendo scollegate tra loro, costituiscono un ostacolo alla ricerca della verità su sé stessi, e dove la difficoltà sempre più grande di ricostruire il passato condanna alla sua reiterazione (da cui la dipendenza) e ad una sete perennemente insoddisfatta (qui simboleggiata dall’impossibilità di raggiungere l’ orgasmo).

In questo senso Nymph()maniac è davvero un film che mette il dito nella piaga sul nostro presente, nonché l’apice della pars destruens dell’opus vontrieriano rappresentata dall’ ultima trilogia, venuta molto dopo la part construens della trilogia “cristica” de Le Onde del Destino (a oggi a mio parere il capolavoro assoluto del danese), Idioti e Dancer in the Dark. Ed è un apice dopo il quale diventa molto difficile prevedere quali altri sassolini Lars von Trier debba ancora togliersi dalle scarpe.

Voto: 9

Angelo Grossi


I. LVT non è semplicemente uno che fa film, ma un pensatore e un teologo con una precisa idea del mondo. Qual è questa idea? Sarebbe sufficiente immaginare una divinità malvagia che gioca con le sue creature impunemente, dando loro a credere di essere libere mentre il loro destino dipende in larga parte non dalle loro scelte, ma dal caso, dalle coincidenze, dai loro incontrollabili impulsi, o meglio: dalle inclinazioni della suddetta divinità. Semplificando: non è esattamente così che LVT stesso, in quanto regista e sceneggiatore, si comporta con le sue stesse creature? Sottoponendole alla tortura di una trama di cui sono partecipanti passivi, vittime e non attori. Anche in questo caso, ma non è un caso unico nella sua cinematografia, la protagonista, Joe, non ha nessun ruolo nella propria crescita spirituale: il suo preteso vitalismo (Perhaps the only difference between me and other people is that I’ve always demanded more from the sunset. More spectacular colors when the sun hit the horizon. That’s perhaps my only sin) non giunge mai a una piena autoconsapevolezza, la sua vita oscilla dall’estasi alla tragedia senza che lei abbia mai la possibilità concreta di influenzare tale oscillazione. Perché il suo dio (LVT) non l’ha dotata di questa facoltà, ma solo di un perenne, insopprimibile e incomprensibile senso di colpa.

II. Come al solito, hanno detto che questo è un film maschilista. Ma ho letto anche il contrario. Di certo, è un’opera consapevole del differente apprezzamento con il quale comunemente giudichiamo il desiderio sessuale maschile e il desiderio femminile. Del primo dimentichiamo facilmente la meschinità, del secondo impossibile sottrarsi alla tentazione di considerarlo patologico. Ma una diversa considerazione del sesso, ne cambierebbe forse la natura? Impossibile. Il sesso è solo un’altra prova dell’inesistenza di Dio (di un Dio che non sia, appunto, ‘malvagio’). Nessuno di noi è buono, nessuno di noi è libero, nulla di tutto quello che facciamo ha senso, perché nulla sposta di una virgola l’essenza delle cose. Eppure, questo non ci esime dal senso di colpa, dalla responsabilità della felicità che ci manca, della libertà che non abbiamo. Di questo, il sesso, nella insignificante coazione a ripetere, non è che un’immagine perfetta.

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III. Ovviamente il sesso è un pretesto. Certo, ce n’è, ma è il veicolo del messaggio, non il fine: ecco perché è realistico, ma non veritiero, nella misura in cui a interpretarlo non sono gli attori di cui conosciamo volto e nome, ma anonime controfigure. Si tratta di un amo per attirarci e per mostrarci quanto facilmente sia possibile plagiarci. Perché se LVT avesse mostrato le vere celebrità nell’atto di fare sesso, avremmo smesso di guardare il film e cominciato a concentrarci sull’anatomia di Shia Le Beouf, di Stacy Martin… O no? Perché il sesso non deve distrarre dal senso della storia, che è un altro: ovvero una nuova declinazione del tormento interiore di un regista, che non smette mai di parlarci di sé anche quando ci parla di altro, della sua lotta contro la sofferenza, contro la tristezza, contro ‘l’evidenza della cosa terribile’. Fare film non è altro che questo forse, e come la scrittura: cura chi la produce, ma non chi ne usufruisce. Non c’è catarsi per noi, non è possibile uscire dal cinema rigenerati. Tocca a noi immaginare, se possibile, un mondo diverso.

Voto: 8

Giuseppe Argentieri


 VOTI

Patrick Martinotta: 5

Giuseppe Argentieri: 8

Angelo Grossi: 9

Giorgio Mazzola: 8