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BIRDMAN

Regia: Alejandro Gonzàlez Inarritu

Sceneggiatura: Alejandro Gonzàlez Inarritu, Nicolàs Giacobone, Alexander Dinelaris, Armando Bo

Anno: 2014

Durata: 119′

Produzione: USA

Fotografia: Emmanuel Lubezki

Montaggio: Douglas Crise

Scenografia: Kevin Thompson

Musiche: Antonio Sanchez

Interpreti: Michael Keaton, Zach Galifianakis, Edward Norton, Emma Stone, Andrea Riseborough, Naomi Watts

TRAMA

Riggan Thomson, attore famoso per aver interpretato il celebre supereroe Birdman, tenta di tornare sulla cresta dell’onda mettendo in scena a Broadway una pièce teatrale – tratta dal racconto di Raymond Carver What We Talk About When We Talk About Love – che dovrebbe rilanciarne il successo. Nei giorni che precedono la prima deve fare i conti con un ego irriducibile e gli sforzi per salvare la sua famiglia, la carriera e se stesso.

RECENSIONI

Micheal Keaton è stato Birdman, Micheal Keaton era Batman e ora è solo l’ombra di un super eroe, l’ombra di una celebrity che si allunga verso il declino e lotta tra le ossessioni di un passato fatto di successo e acclamazione e la miseria di un presente deprimente.

I super poteri di un tempo sono oggi solo una triste allucinazione e alle battaglie in calzamaglia contro mostri fantastici si sostituiscono le lotte contro nuovi nemici: la penna di una caustica critica del New York Times e la figlia (Emma Stone) tossica. In questo contesto senza speranza l’occasione per dimostrarsi ancora all’altezza della sua megalomania è lo spettacolo teatrale, di cui è produttore, sceneggiatore, regista e interprete.

Il film si presenta come un lungo piano sequenza in cui si susseguono le interpretazioni magistrali di Edward Norton e Micheal Keaton, dialoghi brillanti e ironici, inquadrature bellissime, soluzioni tecniche che spesso sbalordiscono per la loro creatività, ma ogni tanto purtroppo annoiano. Birdman ha il ritmo di un film d’essai, l’ironia tagliente di un autore (Inarritu) non americano, lo sguardo e l’immaginazione di un regista che dire virtuoso è dire poco; ma Birdman ha il grande limite di stupire e, allo stesso tempo, lasciare indifferenti. Infatti di tutte le rocambolesche riflessioni sulla vanità, sulle aspettative, sullo star system, sul narcisismo di cui tutti siamo vittime non resta molto né in testa né nel cuore.

Il principale protagonista dell’Oscar 2015 è quindi un film celebrale e ben realizzato, ma con poca anima. La solitudine e la miseria che investono ogni personaggio – le loro patetiche e divertenti nevrosi – non toccano fino in fondo lo spettatore; e non è un caso che le scene più riuscite siano i rari momenti in cui i personaggi escono dalle loro patologie e finalmente si incontrano. Penso ad Edward Norton ed Emma Stone sul terrazzo del teatro, a Micheal Keaton che in un bar di Broadway decide di affrontare la critica del New York Times: in questi frangenti, per un istante, quando i rapporti umani si sostituiscono ai giri a vuoto di un motore che romba ma non trasporta, finalmente il film respira.

Voto: 6/7

Luca Del Vescovo


Tutti in scena! E che si apra il sipario! È questa la frase simbolo che forse sintetizza la messa in scena dell’ultima pellicola di Inarritu, che omaggia così il palcoscenico teatrale. Il film, a partire dall’estetica registica, non si concentra tanto sulla rappresentazione attoriale quanto su ciò che si cela alle sue spalle, nascondendosi al pubblico. La macchina da presa pedina imperterrita i protagonisti, senza quasi mai staccarsi da loro, con un lungo piano-sequenza di circa due ore che riprende ogni stanza, ogni anfratto, ma in particolare ogni aspetto della vita, ogni nevrosi ed ogni preoccupazione vissute dietro le quinte da chiunque collabori alla buona riuscita dello spettacolo. Un’opera, verrebbe da dire, metateatrale inserita in un prodotto cinematografico.

La sopracitata tecnica del piano-sequenza è una scena rischiosa ma azzeccata: anche se tale  operazione ha il forte limite di appesantire la visione allo spettatore, il regista messicano ha saputo utilizzarla sapientemente, con l’intento di presentarci la verità che avvolge un qualsiasi ambiente teatrale. Birdman riporta sul grande schermo, dopo tanto tempo, Michael Keaton in un ruolo da protagonista. L’attore, invecchiato e scavato nel volto dalle rughe, è credibilissimo nelle vesti di una  star sulla via del tramonto, che tenta in tutti i modi di sparare le sue ultime cartucce.

Il film è una palese critica al mondo dello show-business, che dopo aver spremuto i suoi eroi li ripone in soffitta ad accumulare polvere, come un vestito fuori moda e non in linea con i tempi che corrono. Questo è quello che è Riggan Thomson, eroe degli anni Novanta, masticato e sputato dalla Hollywood dai contratti milionari, incapace secondo tutti gli addetti ai lavori di svestire i panni dell’Uomo Uccello. Basti pensare ai molti attori che, dopo aver interpretato un ruolo iconico, vi sono rimasti talmente avvinghiati nell’immaginario comune da non sapersene più discostare, per poi finire nel dimenticatoio o quasi; solo per citarne alcuni Mark Hamil (Guerre Stellari), Bela Lugosi (Dracula) e buona parte di quegli interpreti di serie tv, ai quali lo spettatore medio si riferisce con frasi del tipo: “Quello che ha fatto il dottore in quel serial” oppure “Guarda chi viene intervistato in televisione! Luke Skywalker!”. Ma è specialmente chi appartiene da sempre al teatro, che, dall’alto del suo snobismo verso forme d’arte più alla portata di tutti, è scettico nel passaggio di un attore dal cinema al proscenio. Un atteggiamento, probabilmente istigato dalla chiusura e dall’egocentrismo intellettuale verso il mezzo cinematografico fin dai suoi albori. Il vero attore è solo quello teatrale e basta, come ci fa capire l’atteggiamento presuntuoso di Mike Shiner, interpretato da Edward Norton. Birdman non è solo questo. Strizza l’occhio anche al cinecomics, ed a tutti i suoi sequel, prequel, midquel e reboot, che hanno oramai saturato il mercato, rimproverando la penuria di idee che il cinema Hollywoodiano sta vivendo in questo decennio.

Comunque sia, alla fine dei conti, una bella fetta di pubblico, colto e non, si rivela essere nel suo profondo ancora un bambino, entusiasmandosi più per l’effettaccio speciale o per la scena adrenalinica che per un film o un opera teatrale culturalmente elevati. Divertente l’allusione al Batman di Tim Burton, in cui Keaton calzava la maschera dell’uomo pipistrello.

 Voto 8.5

 Gabriele Manca


Riggan Thompson un tempo era Birdman, il supereroe che lo ha reso celebre, ricco e amato dal grande pubblico cinematografico. Oggi Birdman non c’è più. E’ solo una figura troppo ingombrante di un passato glorioso e ormai logoro che perseguita senza sosta l’esistenza dell’attore, che nel frattempo si trova ad affrontare il declino del suo successo e della sua popolarità. Per risorgere dalle ceneri dell’anonimato, Riggan sceglie di investire gli ultimi risparmi in uno spettacolo teatrale a Broadway: un remake di What We Talk About When We Talk About Love di Raymond Carver, nel quale decide di giocarsi tutta la carriera.

Birdman è un film che parla di fragilità. In particolare della fragilità che si cela dietro al mondo apparentemente dorato dello star system, e che si manifesta senza pietà quando il successo viene sostituito dal senso di vuoto e di solitudine del tramonto professionale. L’opera di Iňárritu parla anche di ossessione. L’ossessione di Riggan di togliersi una volta per tutte la tuta di Birdman e di far vedere al pubblico di poter essere ben altro che un eroe piumato, ma soprattutto l’ossessione che il protagonista nutre per il proprio Ego, che talvolta assume le sembianze della megalomania tipica di chi un tempo era un Dio e adesso non lo è più. Il regista messicano riesce a narrare questo vortice di stati d’animo attraverso i quattro giorni che anticipano l’esordio della pièce, e lo fa introducendo varie trame e personaggi – su tutti Sam, la figlia di Riggan e Mike Shiner, il co-protagonista della commedia teatrale – che come asteroidi entrano in collisione con la già precaria situazione dell’ex divo.

Il vero colpo da maestro di Iňárritu resta però la regia: un intenso piano sequenza lungo due ore, scandito da una colonna sonora composta in gran parte da una batteria jazz, che segue senza sosta i protagonisti, dentro e fuori il palcoscenico, e che riesce a coinvolgere a trecentosessanta gradi lo spettatore, trasportandolo dentro il grande schermo e rendendolo partecipe in prima persona delle vicissitudini dei personaggi. Interessante è anche la scelta del cast, che potremmo definire di supereroi, o quasi, dato che si possono riscontrare divertenti analogie tra i protagonisti principali e alcune delle loro interpretazioni passate. Infatti, salta subito all’occhio la decisione di affidare i panni di Riggan a  Michael Keaton, il quale a suo tempo fu il Batman di Tim Burton e che con Birdman compie una delle sue migliori performance. Poi c’è Emma Stone, che passa dal ruolo di Gwen Stacy (in The Amazing Spider- Man) a quello di figlia ribelle di Riggan, ma che conserva in entrambi i film la funzione di figura femminile di riferimento. Infine troviamo l’irruento Mike Shiner, interpretato da un Edward Norton in stato di grazia, che in quanto a irruenza risulta essere uno specialista avendo recitato la parte di Bruce Banner  in L’incredibile Hulk. Se si tratta realmente di scelte connesse – in particolare quella di Michael Keaton – o pura casualità forse non interessa. Ciò non esclude, che questi piccoli particolari, se notati, contribuiscono a dare un ulteriore tocco di classe al film.

Nella sua totalità, Birdman tocca con sapienza alcuni dei nervi scoperti che compongono il mondo del cinema, prestando particolare attenzione alla condizione esistenziale che vivono alcuni attori, spesso incompresa dal pubblico. Per certi versi il film di Iňárritu è a tratti lento, probabilmente complesso in alcuni momenti, soprattutto in chiave interpretativa e per questo  richiede una certo grado di attenzione da parte dello spettatore. Birdman possiede comunque la qualità di essere un’opera intensa, intima e originale, che offre la possibilità di essere apprezzata sempre di più ogni volta che la si guarda.

Voto: 7,5

Carlo Tambellini


 

VOTI

Luca Del Vescovo: 6/7

Gabriele Manca: 8,5

Carlo Tambellini: 7,5

GONE GIRL – L’AMORE BUGIARDO

Regia: David Fincher

Sceneggiatura: Gillian Flinn

Anno: 2014

Durata: 149′

Produzione: USA

Fotografia: Jeff Cronenweth

Montaggio: Kirk Baxter, Angus Wall

Scenografia: Donald Graham Burt

Costumi: Trish Summerville

Colonne sonore: Trent Reznor, Atticus Ross

Interpreti: Ben Affleck, Rosamund Pike, Carrie Coon, Kim Dickens

TRAMA

Al quinto anno di matrimonio con Amy, Nick perde il suo lavoro di scrittore e decide di trasferirsi in Missouri per aprire un bar insieme alla gemella Margot. Ma all’anniversario di nozze Amay sparisce nel nulla.

RECENSIONI

Il giorno del loro quinto anniversario l’improvvisa e inaspettata scomparsa di Amy Dunne rompe la consuetudine di un matrimonio, che agli occhi di tutti sembrava perfetto. Ma niente è ciò come sembra e l’ombra del dubbio si allunga sulla felicità della loro unione e sulla figura del marito.

Gli indizi si accumulano, gli investigatori sono alla ricerca di un colpevole, i media alla disperata caccia di un capro espiatorio, e il puzzle piano piano si configura. L’ameno paesino di provincia americana con le case bianche e i vialetti ben curati che sonnecchiava in letargo si tinge di quelle tinte cupe che solo Fincher sa dare e ben presto l’interesse morboso della comunità su cui soffia l’attenzione ossessiva dei media solletica le violenze più latenti. Ma nulla è come sembra.

Si tratta di un film perfetto, anche troppo. Fincher gioca con virtuosismo con i generi e i personaggi, invertendo più volte vittima e carnefice e trasformando proporzionalmente ai colpi di scena il registro della pellicola, che da thriller diviene Noir, per poi sfiorare l Horror e terminare in una Dark commedy graffiante sul matrimonio, descritto come luogo di manipolazioni e compromessi narcisistici ma ancor di più sulle sproporzioni e sui non luoghi dell’intimità ormai cannibalizzati dalla ferocia delle regole dell’apparenza e dei media.

Il film ha ritmo, una bellissima atmosfera, dialoghi intelligenti ed un estetica perfetta ma non coinvolge fino ino in fondo ed è quasi corrotto dalla stessa bravura e dalla vanità celebrale del suo regista che è la croce e la delizia di un’opera che lascia allibiti ma non emoziona che è indiscutibile ma non riesce a diventare un capolavoro.

Voto 7,5

Luca Del Vescovo

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Come spesso accade, il titolo originale, seppur più sbrigativo e impersonale, surclassa quello tradotto in italiano, che, riecheggiando un genere di film romantico e strappa lacrime, incuriosisce solamente quella fetta di pubblico dai gusti meno ricercati. Lo stesso incipit si presenta, ingannevolmente, talmente lezioso e sdolcinato da far invidia alla migliore lovestory hollywoodiana. Attraverso un flash-back, la protagonista Amy (interpretata da Rosamund Pike) ci regala squarci del suo passato: l’incontro con Nick (Ben Affleck), il primo bacio, la prima notte e la proposta di matrimonio; il tutto sfumato in una realtà dai contorni onirici, favolistici. Siamo di fronte a un Amore astratto, velleitario, retorico, il cui oggetto non è tanto la persona concreta ma la proiezione del desiderio di perfezione, di elevazione rispetto al grigiore della quotidianità. E come in ogni favola che si rispetti, anche questa storia “è troppo bella per essere vera”, e da una pioggia di zucchero filato si passa brutalmente al presente e a schizzi di sangue fresco sul fornello della cucina. Dov’è Amy?

Thriller, giallo che prevarica i limiti del genere e sfocia nel noir, Gone Girl ha un intreccio complesso, un’architettura labirintica, in alcune parti fin troppo contorta. Alla fine lo stesso David Fincher sembra aver perso qualche filo (non stupitevi se alcuni passaggi rimarranno irrisolti e in sospeso), senza però compromettere la struttura logica generale del film.

Tutta la vicenda si snoda intorno a Amy, che catalizza l’attenzione del pubblico su di sé, lasciando in ombra gli altri personaggi. Rosamund Pike interpreta un personaggio camaleontico: dalla “super figa che mangia pizza fredda e rimane una 42” alla casalinga depressa e frustrata. Dalla cattiva ragazza che beve birra e mangia junk food a donna cruenta, senza scrupoli e pietà. La protagonista calza a pennello in ognuno di questi ruoli e allora sorge naturale chiedersi: ma chi è veramente Amy? Depredata della sua vera identità, che ha affibbiato alla sua controparte letteraria “la mitica Amy”, si è spersonalizzata, svuotata: può essere solo ciò che gli altri vogliono che ella sia. Accanto a un personaggio così sfaccettato contrasta un Ben Affleck inetto, preda degli eventi, incapace di prendere decisioni autonome, pavido burattino mono espressivo.

David  Fincher inscena un finto “delitto perfetto”, che, come Hitchcock insegna, è per sua natura “imperfetto” e la verità, inesorabile, viene a galla. Ma se il pubblico e i personaggi del noir in bianco e nero erano affamati di verità, in Gone Girl non è così. Non c’è più posto per il vero, per l’autentico. La verità rimane latente, svilita e subordinata a un ordine superiore di luccicanti menzogne.

Voto: 7,5

Camilla Longo Giordani

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Questa pellicola propone un’interessante panoramica della vita coniugale nelle sue contraddizioni e nei suoi agi, tra le bugie e il fallimento amoroso e la mancata realizzazione del sogno di coppia, e che coppia, poi, con due protagonisti di questo calibro. Belli e affascinanti, talmente tanto che il buon Fincher dedica una serie infinita di inquadrature ai vari profili di Affleck, mostrato in tutta la sua beltà da muscoloso Adone Casanova, meno alla Amy interpretata da Rosamund Pike (scelta, pare, tra svariati nomi importanti, come quello di Charlize Theron) quasi da accentuarne l’oscurità del personaggio, da rendere ancora più marcato l’alone di indefinito mistero intorno alla sua magra figura. Insomma, belli e affascinanti – abbiamo detto – ricchi, giovani, interessanti: tutti gli ingredienti per arrivare al famigerato american dream. Ma cosa va storto? Dov’è l’inghippo? Più radicato di un qualsiasi disagio, più particolare di una qualsiasi nevrosi: l’insoddisfazione perenne che muove intricatissimi fili di disamore, disistima e rabbia, fino ad arrivare al punto di rottura di un delicato raso che mantiene l’unione, fino all’ossessione del rimanere uniti nonostante tradimenti e stanchezza, per una serie di ben architettate pressioni psicologiche, violenze mentali che portano alla destrutturazione non solo del personaggio, ma dell’io proprio ed unico di tutti e ognuno.

Un Fincher assolutamente inusuale, questo di Gone Girl, lontano dalla raffinata crudeltà di Seven, distante dalla cruenta schizofrenia di fight club, come unico condivisibile scenario: l’animo umano, nelle sue più cavernose contraddizioni. Belle le riprese a due respiri, la storia battuta in due tempi, da una parte, Nick che si angoscia per uscire pulito dalle probabile accuse, mentre la Amy ormai lontana sorseggia il suo drink, in piscina, godendosi le altrui angosce. Fincher frega ancora, fino alla fine, il proprio spettatore, che si scervella per arrivare a carpirne il possibile sbocco. La conclusione del film lascia con il classico amaro in bocca, l’impossibilità di uscire da una gabbia matrimoniale soffoca e inquieta, e soprattutto inquieta come tutta la narrazione sia mossa e manipolata da faziosi mass media che gestiscono ad hoc le situazioni e le verità, siano queste presunte o tangibili. Contestualmente, però, è un film sopravvalutato dal quale ci si aspetta certamente di più, almeno per il buon nome del regista che lo coordina, almeno per sopperire ai tempi lunghi di immagini ridondanti a cui si è costretti, che sforano di poco l’obbiettivo di portare in scena un così delicato ecosistema, e di poco si sfiora anche l’Oscar, nonostante le svariate nomination.

Voto: 7

Alessandra Buttiglieri

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“Quando penso a mia moglie, penso sempre alla sua testa. Immagino di aprirle quel cranio perfetto e srotolarle il cervello in cerca di risposte alle domande principali di ogni matrimonio: a cosa pensi? Come ti senti? Che cosa ci siamo fatti?”. Ispirato al bestseller americano di Gillian Flynn, Gone Girl propone in chiave drammatica i retroscena più oscuri di un matrimonio ormai al capolinea, interpretati e veicolati non solo attraverso i racconti e il vissuto dei due protagonisti, ma anche tramite l’occhio implacabile e accusatorio dei media americani. Nick ed Amy, in apparenza felicemente sposati, sono in realtà, come ogni altro personaggio di Fincher, figli di un’epoca contraddittoria, che vuole soap opera a lieto fine – qui rappresentato dall’ideale di un matrimonio perfetto. Un matrimonio fatto di tradimenti, bugie, inganni, dubbi, verità celate che si insinuano nel rapporto tra i coniugi e ne determinano il fallimento. Ma è di una soap che si parla: niente è perduto! I due amanti, nonostante le problematiche matrimoniali, sono destinati a riconciliarsi e a vivere felici nonostante tutto. È così che deve andare. È questo che il pubblico americano vuole ed è questo che Nick ed Amy daranno in pasto ai loro famelici seguaci. Film drammatico reso accattivante da un pizzico di suspense e mistero, Gone Girl cerca di andare oltre le felici apparenze coniugali per svelarne l’essenza, spesso cruda, e i compromessi che le verità celate comportano.

Voto: 6

Martina Malavenda

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Centro di falsità permanente

Dimensione privata e dimensione pubblica, verità e menzogna, fedeltà e tradimento, perdono e vendetta. Fincher torna nella calda culla del genere Thriller per raccontarci la crisi della coppia moderna, tra recessione economica e tradimenti. La deriva dell’amore, fino all’estremo.  Ma forse c’è di più. Dall’idilliaco primo bacio avvolto (letteralmente) in una nuvola di zucchero Nick e Amy imboccano una strada che li porterà dritti all’odio reciproco, con sacrifici mal digeriti, cappi psicologici, ricatti economici e menzogne. La coppia si sgretola. Tutto ciò che segue è un racconto ad orologeria, con forzati sviluppi narrativi e personaggi caricaturali che trasformano nel bene e nel male il semplice thriller in dramma grottesco, toccando corde dissonanti. Si percepisce l’ingombrante doppio ruolo della sceneggiatrice (già autrice del best seller di partenza) che fa pesare la matrice del film. Espedienti come la lettura del diario e la caccia al tesoro sembrano ricalcare il tedioso Lettere da una sconosciuta (Max Ophuls, 1948), lasciando un sapore letterario al palato, portando a percepire il peso della pagina a scapito delle immagini. La falsità, come male sociale, cinge l’universo di Gone Girl. In ogni suo aspetto la corruzione è totale, non c’è scampo per niente e nessuno e l’ovvia soluzione psichica di difesa dell’uomo appare “mal comune mezzo gaudio”, così va il mondo. Fincher non ci sta, ci racconta i retroscena e fa emergere una verità che spesso resta chiusa tra quattro mura, ci permette di entrare nelle teste dei protagonisti per darci l’inequivocabile verità e la confronta con la verità presunta, quella sociale. Il risultato è un evidente scarto.

Quest’affresco sociale risulta però in qualche modo incompiuto: si prova fatica a seguire i processi che costruiscono questo mondo malgrado siano fondamentali per la percezione reale, gli attanti non creano coinvolgimento e trasformano i propri, complessi, pensieri in novelle rappresentazioni delle maschere della commedia dell’arte, creando  contrapposizioni nette e semplificate (buono-cattivo, ingenuo-manipolatore).

Personaggi esageratamente stereotipati come le conduttrici di talk show fanno pensare che la lettura debba prendere nuove direzioni, uscire dall’empatia che il thriller crea necessariamente con determinati personaggi, allo scopo di assumere una visione sopraelevata della vicenda, distante dal sentimento. Lo straniamento che ne consegue è indispensabile per creare la condizione adatta alla percezione della critica alla società, che Fincher non voleva sottacere. Siamo schiavi della nostra immagine e dei processi che la costruiscono e  la demoliscono. La verità non è importante e forse non lo è mai stata; stiamo vivendo il  passaggio evolutivo che ci porterà ad essere solo ed esclusivamente immagini, il nostro alter ego. Si esce dall’universo reale e si entra in quello della finzione. L’ipocrisia regna in questo nuovo mondo e non possiamo far altro che stare al gioco, accettando il fatto che non esiste l’amore ma solo una rappresentazione dello stesso. La famiglia, punto cardine della società, è un simulacro, una messa in scena: simbolo vuoto dello smarrimento della società occidentale che, vittima di se stessa, è costretta a replicare immagini ormai prive di senso.

Il sorriso ebete di Nick (un Ben Affleck molto a suo agio nel ruolo), mantenuto anche in circostanze inopportune (vedi la veglia), sarà una delle pietre che affosseranno la sua immagine. Perché ciò che appare, è. Forse è per far emergere questo concetto che Fincher ha volutamente lasciato buchi nella storia senza calcare la mano sull’approfondimento dei personaggi; da questo punto di vista le varie incongruenze narrative (peccato capitale per un thriller) non sono così gravi. Ma oltre a questa critica, per altro banale, cosa ci lascia questo film? Un buon ritmo ma con forzati espedienti, frivole citazioni (dalla rapina di Amy – Thelma e Louise, all’assassinio di Desi Collings – Basic Instinct), buone prove attoriali e poco altro.

Voto 5,5

Manuel Lasaponara

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L’amore bugiardo mi è piaciuto anche se mi ha fatto temere il peggio a causa di un inizio non esattamente all’altezza delle mie aspettative. Amy e Nick, belli e ricchi, incarnano la coppia felice e innamorata. Sposati da cinque anni, lasciano la caotica New York per la più tranquilla provincia americana del Missouri dove lui è cresciuto. Il loro rapporto, all’apparenza perfetto, nasconde una ostilità crescente enfatizzata dalla crisi economica che ha frenato le ambizioni di questi due giovani e promettenti scrittori, trasformandoli in una casalinga annoiata lei e uno svogliato proprietario di un bar lui. Il giorno del loro quinto anniversario Amy scompare in circostanze misteriose e tutti, media e polizia compresi, sono convinti che sia stato Nick ad ucciderla. Per la prima ora si assiste ad un thriller piuttosto fiacco in cui il marito, dall’aria troppo rilassata e dal comportamento sempre pacato che non lo fa cedere mai a pianti e scenate isteriche, sembra l’unico vero colpevole.  Se l’assassino è stato ben presto individuato, le ragioni della sparizione di Amy nascondono invece molti dubbi e perplessità. In questa prima parte, dove scarseggiano i colpi di scena e tutto scivola tra le più ovvie previsioni, ci si chiede dove sia finito il David Fincher che tutti noi conosciamo e come sia stato possibile confezionare un thriller così palesemente banale. Fortunatamente tutte le carte vengono ridistribuite e allo scoccare della prima ora inizia un nuovo film, cambiano i punti di vista e si comincia a fare sul serio! La bella Rosamund Pike sembra uscita da un film di Hitchcock- bionda, pazza e misteriosa come Kim Novak ne La donna che visse due volte, ma anche sexy e diabolica come Marilyn Monroe in Niagara di Henry Hathaway – Ben Affleck cambia espressione (e non è roba da poco dato che, salvo rare eccezioni, fa sempre la stessa faccia dai tempi di Pearl Harbor, anche se ultimamente lo sto rivalutando), la storia finalmente ingrana, anzi, esplode in un susseguirsi di giochetti ad incastro, nuove piste e inganni. Da thriller svogliato dalla struttura debole si trasforma finalmente in quel film che mi aspettavo di vedere, in cui si svelano le reali intenzioni di quella coppia che non è come vuole apparire perché ad unirli non è l’amore, ma solo il sospetto, la paura e soprattutto la vendetta. Sotto lo sguardo cinico dei media, capace di distruggere l’immagine di un uomo additandolo come colpevole e creare personaggi di cui si sente la necessità di conoscere ogni più piccolo particolare della vita privata,  la storia di Amy e Nick viene chirurgicamente sezionata, aperta ed esplorata come un cadavere dopo un’autopsia per poi essere malamente ricomposta e ricucita. L’ immagine pubblica è la sola che conta, i media sono gli unici in grado di decidere chi è il colpevole e chi la vittima, cambiando velocemente idea senza cercare la verità ma solo seguendo la scia degli eventi con ceca convinzione. Lo schema logico si fa imprevisto e tu, spettare che nel buoi della sala osservi le vite degli altri, a questo punto sei nel mezzo di tutto questo fragore mediatico, sei confuso e tutto quello che ti è stato raccontato per tutta la prima ora a questo punto ha ben poca importanza… David Fincher te l’ha fatta di nuovo ed esci dal cinema soddisfatto!

Voto: 8

Cinefabis


Luca Del Vescovo: 7,5

Camilla Longo Giordani: 7,5

Alessandra Buttiglieri: 7

Martina Malavenda: 6

Manuel Lasaponara: 5,5

Cinefabis: 8

Patrick Martinotta: 6,5

Giuseppe Argentieri: 8

SIX FEET UNDER

Regia: Alan Ball

Nazione: USA

Anno: 2001-2005

Numero stagioni: 5

Numero episodi: 63

Durata episodio: 60′

Interpreti: Peter Krause, Michael C. Hall, Frances Conroy, Lauren Ambrose, Freddy Rodriguez, Mathew St. Patrick, Rachel Griffiths

Vino vs. Coca Cola

Non sono mai sazio, ho sempre appetito. Il cinema non è più sufficiente, così ho iniziato a cibarmi voracemente anche di serie TV, dicono tutti che sono il massimo. Ne ho viste tante, ho fatto lunghe maratone sbragato sul divano di casa con il cellulare pronto al primo languore a chiamare in soccorso il delivery più vicino o più gustoso. Hamburger, patatine, pizza e pigrizia. Trash food e cultura di massa. Serialità in tutti i sensi, molto spesso noia. Ho visto molto, ho guardato Dexter, ho visto Breaking Bad, ho riso qualche volta con The Big Bang Theory, mi sono smarrito negli intrighi di Games of Thrones o nei continui misteri di Lost, nelle indagini spirituali di True Detective e posso finalmente dire la mia al tavolo del grande dibattito.

Lost

Io non credo che le serie Tv abbiano superato il cinema. Certo Il mercato dell’Home video è in crescita, sempre più persone, anno dopo anno, comprano  in dvd o Blue Ray prodotti pensati appositamente per la televisione a  scapito dei film. E i produttori? Beh  giustamente seguono interessati i gusti del pubblico, investono nelle idee dei loro sceneggiatori  e cercano di offrire tutti i mezzi necessari per liberare al galoppo le fantasie dei creativi con risultati sorprendenti. Effetti speciali incredibili, qualità cinematografica, alto tasso di spettacolarità. Suspance, musiche, colpi di scena, intrattenimento puro. Ma poco di più. Spesso dopo qualche puntata ho la netta sensazione di rimasticare sempre lo stesso boccone e che le storie diventino più intricate che interessanti.

Gli archi narrativi dei personaggi si dilungano e contorcono su loro stessi in attesa di un nuovo conflitto di una nuova sorpresa, del prossimo colpo si scena che ci porterà avanti almeno un’altra stagione. Ma c’è di più, a  differenza di un certo cinema, le serie televisive nascono fin dal principio per essere un prodotto industriale, dedicato ad un mercato specifico che risponde ad esigenze precise. Tutte le leve di marketing sono lì, pronte a essere azionate, per promuovere, solleticare, incuriosire, vendere. Sono quindi degli ottimi snack, utilizzano ingredienti a lunga scadenza, ipoallergennici – e noi come tali li scartiamo e ce li godiamo, ma non pretendiamo per favore che siano alta cucina. Il Packaging è interessante, a volte geniale ma non  hanno mai lo stesso sapore di un piatto espresso cucinato con attenzione e cura, con amore e ricerca, con la voglia di creare qualcosa di unico e condividere la visione autentica di un mondo e i sapori personalissimi che fino ad un momento prima erano solo negli occhi e nel palato del regista.

Sei passi sopra

Certo ci sono delle eccezioni, così tra le serie distribuite in Italia negli ultimi anni merita attenzione Six Feet Under, nata dalla mente di Alan Ball, sceneggiatore di American Beauty e creatore di True Blood. Si tratta di una dark commedy originale e fantasiosa, piena di spunti creativi, di sogni macabri e di visoni oniriche stupefacenti e divertentissime. E’ la storia di una famiglia di becchini, dei loro intrecci amorosi, delle loro aspettative e dei movimenti intimi che li animano e che puntata dopo puntata strisciano fuori muovendo le loro ambizioni e dando vita a nuove paure che illuminano ogni episodio per la creatività della loro rappresentazione.

In Six Feet Under ci sono dei personaggi a tre dimensioni, che hanno una vita e puntata dopo puntata viene voglia di andare avanti non tanto per capire come il protagonista uscirà dall’ennesima trappola in cui ormai sembra spacciato, ma per la curiosità di scoprire come le relazioni tra i personaggi si intesseranno ed evolveranno, come gli attori, episodio dopo episodio, cambieranno lentamente il loro sguardo sul mondo.

In poche altre serie, anche di ottima fattura, mi è capitato di vedere cinema.

Luca Del Vescovo

BIG EYES

Regia: Tim Burton

Sceneggiatura: Scott Alexander, Larry Karaszewski

Anno: 2014

Durata: 105’

Produzione: USA

Fotografia: Bruno Delbonnel

Montaggio: JC Bond

Scenografia: Rick Heinrichs

Costumi: Colleen Atwood

Colonna sonora: Danny Elfman

Interpreti: Amy Adams, Cristoph Waltz, Danny Houston, Jon Polito, Krysten Ritter

TRAMA

Anni Sessanta: si narra la storia della pittrice Margaret Keane e del marito Walter, per anni considerato l’autore delle opere della moglie, che conobbero un enorme successo.

RECENSIONE

Big Eyes è l’autentica storia di una delle più grandi frodi nel mondo dell’arte contemporanea, è una commedia divertente ed una presa in giro sarcastica del mondo dell’arte che,  così come qualsiasi altro mercato, è soggetto alle ferree regole della promozione mediatica, del profitto e del marketing. Siamo a cavallo tra gli anni 50 e 60, è il periodo di Wharol, delle serigrafie, dei prodotti  di massa e della cultura POPolare. E’ il periodo di Walter Keane “pittore” di grande successo ma soprattutto abile promotore e bugiardo compulsivo. Walter, vittima del suo narcisismo, costringe la moglie Margaret a dipingere per lui, impossessandosi di tutti i suoi quadri e arrivando alla notorietà attraverso una serie ripetuta di menzogne, seguendo una strategia tanto improvvisata quanto efficace.

Chiaramente nell’egocentrico e vulcanico mondo di Walter Keane  non c’è spazio per le esigenze di nessun altro, tanto meno quelle della moglie  Amy Adams (Margaret Ulbrich), che è la ragione della sua fortuna ma allo stesso tempo un possibile ostacolo alla via della consacrazione definitiva.

Si tratta di un film che manca totalmente dell’ispirazione visiva  a cui ci ha abituato Tim Burton: le atmosfere cupe, grottesche, talvolta barocche, tipiche del suo lavoro, vengono sostituite da lunghe giornate assolate e da una fotografia color pastello su cui non tramonta mai il sole, non  scendono le meravigliosi notti o gli incubi onirici – marchio di fabbrica del regista americano. Le uniche ombre sopravvivono nella personalità, nei desideri e nella megalomania di Walter Keane  – un Christoph Waltz fuori dalle righe, istrionico e magistrale fin dall’inizio della pellicola.

Big Eyes è quindi guidato da una sceneggiature senza sorprese (se non per la scena del duello tra Keane e il critico cinematografico), ma non servono conigli dal cilindro per ridere e uscire rallegrati da un film che senza dubbio ha il grande merito di divertire.

Voto 6,5

Luca Del Vescovo

AMERICAN SNIPER

Regia: Clint Eastwood

Sceneggiatura: Jason Hall

Anno: 2014

Durata: 132’

Produzione: USA

Fotografia: Tom Stern

Montaggio: Joel Cox, Gary Roach

Scenografia: Charisse Cardenas, James Murakami

Interpreti: Bradley Cooper, Sienna Miller, Kyle Gallner, Max Charles

TRAMA

Chris Kyle è un cecchino soprannominato “Leggenda” e sta combattendo due battaglie: tentare di essere un buon soldato, ma anche un buon marito e padre, mentre è a migliaia di chilometri da casa.

RECENSIONE

Torri gemelle, Iraq, sicurezza. Dio, patria e famiglia. Non è facile fare un film sul più grande eroe e martire dell’ultima e ancora freschissima guerra americana senza scivolare in una visione manichea e propagandistica. Non è facile raccontare la storia di Chris Kyle, ex cowboy, poi navy seals, poi reduce di guerra  e padre di famiglia senza trionfalismi o condanne. Ma Clint Esatwood ispirandosi ai grandi western prima e il filone cinematografico sui  giustizieri poi, di cui Callaghan fu il più luminoso protagonista, riesce nell’impresa.

Ma Chris Kyle è un eroe o un killer violento? La risposta è nelle parole dello stesso protagonista che l’unica cosa di cui si pente,  è di non essere riuscito a salvare più vite di quello che ha messo in salvo. Così Eastwood sospende il giudizio e racconta i 1000 giorni di  battaglie le 160 vittime certificate ma soprattutto la lotta enorme e durissima con se stesso una volta congedato, a rientrare nella vita normale. Superare l’insonnia, dimenticare le minacce e il senso di accerchiamento,  svestire l’uniforme, slacciare gli anfibi, calzare di nuovo i panni civili e ritrovare nella quotidianità stimoli ed emozioni.

Bradley Cooper, ingrassato nel film di oltre 10 chili, interpreta alla perfezione il ruolo e le battaglie fisiche ed interne del protagonista , guidato fin dall’inizio del film dall’avvertimento profetico del padre: si può essere lupi, pecore , ma la cosa più difficile è essere pastori da gregge. Una metafora semplice sul significato dell’essere padre al fronte o in patria, in famiglia o con  una generazione di soldati inginocchiati dai disturbi post traumatici da stress, e troppo spesso sconfitti dalla stessa quotidianità. Una metafora efficace  che è la linea guida e la risposta agli interrogativi del protagonista e del pubblico. Il cinema di Clint Esatwood è infatti semplice ma intenso, non ha la suspance né l’estetica della Bigelow in Hurt Locker, ma ha il grande merito di essere diretto e vero, senza fronzoli né postulati, disegnando in modo chiaro gli strumenti con cui affrontare  la visione  di un mondo duro e spietato: responsabilità, volontà e dovere . E’ questo il giustiziere 2.0.

Voto: 7

Luca Del Vescovo


 

Clint Eastwood ci regala anche questa volta un crudo affresco della storia bellica americana. Con American Sniper il regista racconta, attraverso la sua poetica dura e scarna, la vita di Chris Kyle, il cecchino più infallibile mai esistito tra le fila dell’esercito statunitense. La macchina da presa registra le gesta di Kyle in modo oggettivo, senza sentenziare o giudicare  coloro che si muovono sulla scena. Gli eventi vengono sbattuti in faccia allo spettatore in tutta la loro feroce verità. Noi che fissiamo lo schermo, un secondo prima ci troviamo in sala e quello dopo siamo lì, nel vivo dell’azione, che respiriamo l’odore della sabbia irachena, il sudore dei marines al fronte, l’aridità dell’ambientazione, lo spirito di cameratismo di quest’ultimi ed il continuo senso di pericolo che si percepisce ad ogni angolo. Molto spesso, l’occhio del protagonista è il nostro occhio, miriamo e spariamo assieme a lui, sembrando a tratti di stare giocando con lo sparatutto in prima persona di ultima uscita. Ma, a differenza della spersonalizzazione del soggetto che molla il colpo entro un gameplay, nel film le ansie e le preoccupazioni di Chris invadono le nostre menti, non possiamo sbagliare il bersaglio, se no game over, le vite ha disposizione sono solo una.

A volte la guerra si interseca in tempo reale con la tranquilla vita quotidiana in territori americano, riversando in esso tutte le sue paure, mettendoci d’innanzi all’impotenza che un comune individuo ha nei confronti di tali vicende. Una quotidianità che si sente fortemente anche fra i commilitoni, che pur trovandosi in un luogo dove la morte può bussare alla propria porta in qualsiasi momento, riescono ad avere anche qui la loro routine giornaliera, come una coperta di Linus che li protegge dalla sofferenza che devono sopportare. Però, tale espediente, porta alla desensibilizzazione ed alla perdita di qualsiasi etica sulla vita umana; o uccidi o vieni ucciso, questo è un po’ il mantra dei personaggi che osserviamo. Sino a quando non si ritorna a casa, e nella pace domestica se ci si sofferma a pensare per un secondo, affiorano le paranoie ed un senso di vuoto, che accompagna di continuo chi è tornato dal fronte. L’adrenalina in corpo è scemata, e lo spaesamento si amalgama con i ricordi degli orrori delle battaglie affrontate. Ma ormai, non si può più fare a meno di ritornare ad imbracciare il fucile, l’idea di dover affrontare i propri demoni interiori è  peggio che di risommergersi nel clima sanguinario da cui si sono presi una pausa, dove non si ha il tempo di riflettere sulle azioni che si compiono, in una continua trans agonistica.

Chris Kyle lotta per il proprio paese, vuole proteggere i suoi cari, ed è così, ma in lui pare che alberghino due personalità che sono agli antipodi: l’uomo con una morale, che non va fiero di quello che fa, riconoscendo il suo record come ignobile, sperando di non dover mai premere il grilletto, perché spezzare una vita, non solo ha ripercussioni tragiche su chi viene mandato all’altro mondo, ma anche su tutti coloro che hanno dei rapporti affettivi con quella persona; ed il SEAL, un killer legalizzato che vuole mettere alla prova i suoi nervi e le sue abilità, una macchina disumanizzata dove il suo unico scopo è quello di fare centro, ingaggiando una sfida con se stesso. Bradley Cooper, barbuto e temprato nel fisico per il ruolo, rende in modo impeccabile la concentrazione e l’ansia che traspare nel colpire il bersaglio e l’alienazione che possono portare professioni di questo tipo.

Voto: 8.5

Gabriele Manca


 

Luca Del Vescovo: 7

Gabriele Manca: 8,5

THE IMITATION GAME

Regia: Morten Tyldum

Sceneggiatura: Andrew Hodges, Graham Moore

Anno: 2014

Durata: 114′

Produzione: USA, Regno Unito

Fotografia: Oscar Faura

Montaggio: William Goldenberg

Scenografia: Maria Djurkovic

Costumi: Sammy Sheldon

Colonna sonora: Alexandre Desplat

Interpreti: Benedict Cumberbatch, Keira Knightley, Matthew Goode, Mark Strong, Rory Kinnear

TRAMA

Basato sulla vera storia di Alan Turing, brillante matematico e crittografo britannico, che nel corso della seconda guerra mondiale con l’aiuto di un team d’eccezione si impegna a violare il codice enigma con cui i Nazisti comunicavano via radio tutti i loro attacchi.

Imitation 1

RECENSIONE

I Tedeschi bombardano la Gran Bretagna, l’Europa è in ginocchio e le risorse alimentari sono ormai briciole per la popolazione affamata. La Germania del terzo Reich imperversa, l’esito della guerra, così come la trama del film, appare scontato. Ma – c’è sempre  un ma – il futuro del mondo libero non è solo nello scontro ideologico tra tirannia e democrazia, tra libertà ed oppressione, tra Churchill o Hitler o in qualche discorso del Re, bensì nelle mani e soprattutto nella mente del giovane caustico e brillante matematico Alan Turing. Alle sue capacità è assegnato il compito di decifrare Enigma, il codice con cui i tedeschi comunicano via radio giornalmente tutte le loro strategie militari.

Basato su una storia vera e chiaramente incredibile, il film è costruito conformemente alla tendenza del momento (Aron Sorkin docet) su diverse linee narrative temporali, ognuna con il suo prevedibile colpo di scena e un piccolo segreto di facile soluzione. Nell’adolescenza del protagonista si nascondono le ragioni del suo comportamento solo apparentemente cinico, mentre nel presente c’è la vera soluzione di quello che poi un enigma non è.

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Are you paying attention? Recita più volte una riuscita battuta di Turing, ma non ne serve poi così tanta per seguire tutti gli sviluppi delle tre storie e soprattutto la denuncia finale a un Inghilterra falsamente libertina ma di fondo profondamente conformista.

Tutte le svolte del film arrivano esattamente quando devono arrivare e nonostante l’atmosfera sia cupa e coinvolgente, le musiche affascinanti, i dialoghi  ben scritti con battute incalzanti e  taglienti alla Social network,  tutto è purtroppo esattamente come ci si aspetta che sia , comprese le due poco credibili storie d’amore che si intrecciano nel passato del protagonista.

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Solo la prova di  Benedict Cumberbatch emerge in un  film che ha sicuramente tra gli obiettivi, fissati a tavolino dagli abili produttori , la statuetta d’oro come miglior attore. Si tratta di una pellicola ben realizzata che non stupisce e non emoziona ma si lascia godere soprattutto di mercoledì, ricalcando alla perfezione le intuizioni di altri film più coinvolgenti come il Discorso del re o a Beautiful mind.

Voto 6,5

Luca Del Vescovo

“Sono le persone che nessuno immagina possano fare certe cose quelle che fanno cose che nessuno può immaginare”. Descrizione perfetta di quella che si scoprirà essere una delle menti più brillanti del ventesimo secolo, abile matematico ed esperto crittografo: Alan Turing, all’apparenza timido, balbettante, dall’aspetto impacciato e quasi totalmente incapace di avere normali interazioni sociali, diventa un eroe in uno dei periodi più bui del nostra storia – la Seconda Guerra Mondiale.

Il film, ispirato alla biografia di Andrew Hodges “Alan Turing. La storia di un’enigma”, è ambientato a Manchester, Londra, nei primi anni ’50. Lo sviluppo cronologico della storia è spesso interrotto da una serie di episodi legati al passato: è un susseguirsi di riprese di eventi presenti collocati al tempo in cui Alan fu arrestato da un agente di polizia e poi interrogato con l’accusa di aver commesso atti osceni, in una Gran Bretagna che ancora rinnegava e anzi denunciava l’omosessualità come un morbo che doveva essere curato; e flashback di eventi passati riguardanti non solo l’infanzia del protagonista ma soprattutto l’episodio che, solo in seguito, divenne di maggiore rilevanza pubblica: il periodo in cui Turing fu ingaggiato dall’esercito inglese per decriptare il codice “Enigma”, ideato dai Nazisti per comunicare segretamente operazioni militari. Alan, insieme a un’equipe di scacchisti, matematici e linguisti, ideò una macchina in grado di decodificare in pochi minuti i messaggi criptati nazisti, grazie alla quale non solo si evitarono numerosi attacchi avversari, ma si salvarono anche 14 milioni tra civili e soldati che altrimenti sarebbero morti e si evitò che la guerra prolungasse per oltre due anni, favorendo la vittoria degli inglesi.

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Il “gioco di imitazione”, suggerito dal titolo, si riferisce non solo all’universo di sotterfugi e contraffazioni nazisti ma anche all’esistenza stessa del gruppo e dei suoi membri, costretti a lavorare sotto copertura, primo fra tutti lo stesso Turing, portato a nascondere la propria omosessualità e omologarsi secondo regole di comportamento socialmente accettate, come una macchina che riproduce perfettamente pensieri, emozioni, attitudini umane. È un gioco che rende inconsistenti i confini tra uomo e intelligenza artificiale, tra ciò che è vero e ciò che è soltanto una mera imitazione dell’intelligenza umana.

Film di straordinaria intensità emotiva, “The Imitation Game” rende finalmente noto al mondo quanto quest’eccentrico uomo abbia fatto per l’umanità e quanto, nonostante la persistente avversione della società inglese contro la diversità sessuale, abbia lasciato ai postumi in merito ad innovazioni tecnologiche nel campo dell’informatica.

Voto: 8

Martina Malavenda


VOTI

Luca Del Vescovo: 6,5

Martina Malavenda: 8