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12 ANNI SCHIAVO

Regia: Steve McQueen

Sceneggiatura: John Ridley

Titolo originale: 12 years a slave

Anno: 2013

Durata: 134’

Nazione: USA

Fotografia: Sean Bobbitt

Montaggio: Joe Walker

Musiche: Hans Zimmer

Interpreti: Chiwetel Ejiofor, Lupita Nyong’o, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Giamatti, Brad Pitt.

TRAMA

America, 1841. La storia vera del violinista  Solomon Northup, uomo di colore nato libero che vive a New York nell’epoca che precede la guerra di Secessione. Raggiunta una certa posizione di agiatezza e la serenità in famiglia, Salomon conosce solo per sentito dire la condizione della schiavitù. Finché un giorno…

RECENSIONE

Il regista britannico Steve McQueen (Hunger, Shame) riporta all’attenzione del mondo con “12 anni schiavo” (vincitore di 3 premi Oscar e del Golden Globe) un dramma oscuro che ha marchiato per sempre la società americana – la stessa che ha appena salutato il primo Presidente di colore – lasciandole una ferita che stenta ancora a rimarginarsi e ne mostra uno dei periodi più atroci. McQueen accompagna lo spettatore negli inferi delle condizioni disumane vissute da migliaia di esseri umani costretti a subire ogni genere di umiliazione e crudeltà. Crudeltà in un crescendo continuo, che più ancora che nel corpo si ripercuote nell’animo di chi oltre che percosso viene quotidianamente denigrato e privato di qualsivoglia dignità.

McQueen ancora una volta dimostra la sua grandezza di regista che non scrive tanto per essere acclamato quanto per dire la verità; denuncia ed analizza la condizione umana degli uomini resi schiavi e lo fa in modo lucido, senza filtri, mantenendo fede ad un racconto tanto crudo quanto crudele sono state le sofferenze vissute ingiustamente dal popolo africano.

Salomon Northup tenta di ribellarsi, di scappare, di trovare ogni possibile via d’uscita per sfuggire all’inferno della prigionia, ma sarà costretto suo malgrado a cedere alla passività e ad una momentanea rassegnazione quando capirà che è l’unico modo per sopravvivere. Sopravvivenza resa possibile unicamente dalla speranza che un giorno il suo destino muterà e dall’arrendevolezza che tuttavia non lo porterà mai ad affrontare la situazione con vittimismo. Alla fine delle lunghe giornate trascorse tra lavori massacranti, troverà nell’inseparabile violino l’unica consolazione, come per gli altri schiavi è consolante il canto disperato. Sottomesso a tal punto da dover rinunciare alla sua identità, abbandonato a sopravvivere in un contesto dove la paura ha tolto ogni forma di solidarietà anche tra gli stessi schiavi, saranno proprio pazienza e astuzia a restituirgli la tanto agognata libertà, per la quale i suoi compagni dovranno aspettare altri 4 anni.

Le scene più crude mostrano un incedere violento di barbare punizioni corporali che spesso sfociano in terribili esecuzioni. Ma sono altre, a mio avviso, le sequenze  più disturbanti, quelle che arrivano come un pugno allo stomaco, riguardano la denigrazione continua e gratuita: come la scena del crudele sorvegliante che canta l’ossessiva cantilena razzista “Ballate, negri maledetti, ballate”; o quella dei balletti notturni nei quali i neri vengono ridicolizzati dopo lo sfinimento di giornate passate nei campi di cotone sotto al sole a suon di  frustate. Una rappresentazione di uomini bianchi che usano la brutalità per mascherare la loro vigliaccheria e debolezza, e sui quali sembra aleggiare l’ombra scura di un castigo imminente che solo l’aldilà potrà riservargli.  Uomini la cui meschinità viene spesso resa possibile solo dall’uso eccessivo di alcol, certi di rimanere impuniti per le proprie malvagità. Uomini, tutelati dalla legge, che sembrano muoversi nell’universo parallelo di una società insana e malata che non risparmia nemmeno le loro donne, che per natura dovrebbero essere più predisposte alla compassione  e che si trasformano anch’esse in carnefici disumanizzate (come nella scena dove viene punita perfino una madre alla quale sono stati strappati i figli).

Il compiacimento nell’umiliazione, il sottolineare continuamente una pretesa supremazia razziale e culturale, vengono giustificati attraverso l’uso improprio della preghiera domenicale, come a lavarsi la coscienza dai sadismi perpetrati e cercare una oscena legittimazione divina per ripulirsi dalle proprie nefandezze.

La grande abilità recitativa – che coinvolge anche gli attori di contorno – dei tre personaggi ai quali ruota attorno la storia, molto bravi nel raffigurare la difficoltà dei rapporti umani, fa sì che si possa  definire “12 anni schiavo” un film bellissimo e allo stesso tempo straziante.

La forte componente espressiva di Chiwetel Ejiofor nel ruolo di Salomon nel portare sullo schermo  l’infelicità e le sofferenze psicologiche del suo personaggio, che poi sono quelle di un intero popolo, è indice di rara bravura. Ma vi si legge anche una grande forza. Lo schiavo Salomon per sopravvivere si vede costretto ad elaborare il dolore e ad annullarsi sino a rinnegare se stesso. Non vi è nulla che quest’uomo non abbia sopportato e lo spettatore, seppur già preannunciato nel titolo, non può fare a meno di chiedersi fino a quando riuscirà a tollerare tali e tante vessazioni fisiche e mentali.

Una strepitosa Lupita Nyong’o, qui alla sua prima esperienza cinematografica, si cala con incredibile intensità nei panni della fiera serva Patsey “la regina dei campi”, ruolo che le è giustamente valso l’Oscar come migliore attrice non protagonista. Sulla sua schiena infinite cicatrici per la sola colpa di essere  vittima di una spirale perversa di odio-amore che coinvolge un licenzioso padrone-carnefice  e la moglie gelosa. E’ forse nella terribile sequenza delle frustate che Lupita usa al meglio le sue doti interpretative, ormai completamente soggiogata dal padrone schiavista che ne è innamorato ma, non avendo la sensibilità necessaria per vivere un tale sentimento ed essendone al contempo posseduto, lo vuole annientare.

Michael Fassbender, attore feticcio di McQueen, si conferma uno dei migliori interpreti degli ultimi anni, impersonando magistralmente il ruolo dello schiavista sadico ed esaltato Edwin Epps. Ci vuole bravura per incarnare il male assoluto lasciando trapelare un tale crescendo di arroganza mista a conflitti interiori.

La breve apparizione di Brad Pitt (che del film è produttore) nei panni di un abolizionista canadese al quale si dovrà il merito di mettere fine alla prigionia del protagonista, non apporta nulla al prestigio della pellicola.

“12 anni schiavo” può vantare 9 nomination agli Oscar, è stato osannato nei festival di tutto il mondo ed ha ottenuto incassi stellari grazie anche ad un’ottima regia, splendidi piani sequenza degli sterminati paesaggi della Louisiana col sottofondo della coinvolgente musica di Hans Zimmer e lunghissimi primi piani sui volti dei personaggi che coinvolgono abilmente lo spettatore nella tristezza della storia narrata.

A chi volesse relegare la schiavitù ad un mero tragico episodio, risponderei che una simile  vergogna  epocale và collocata a pieno titolo sul podio delle stragi dell’umanità, e non vi è niente di più sbagliato che relegare certi eventi in un angolo del passato. Quel senso di disagio, di inevitabile turbamento e quel coinvolgimento emotivo che avvolgono lo spettatore durante l’intera durata della pellicola, calandolo nell’armadio del tempo pieno zeppo di scheletri e spaventosi segreti, devono portare proprio ad una profonda riflessione. Perchè non dimenticare diventi un dovere morale.

CURIOSITA’

Il regista affida alle didascalie finali la battaglia legale sostenuta e persa dall’autore contro gli uomini che lo hanno rapito e venduto (Northup in quanto nero non poteva testimoniare contro un bianco). Northup fece in tempo a pubblicare le sue memorie documentando l’orrore vissuto nelle piantagioni americane nel libro autobiografico del 1853 coadiuvato  dall’avvocato David Wilson, già autore di pubblicazioni sul tema dell’abolizione della schiavitù e che vendette all’epoca 30.000 copie. E lo fa poco prima di scomparire in circostanze ancora oggi sospette – il dettaglio che non esista una sua tomba non lascia molti dubbi – e dopo essersi battuto a fianco degli abolizionisti per i diritti civili.

Northup dunque, ottenuta una discreta notorietà dopo l’uscita del libro che fece discutere per parecchio tempo, morì in circostanze misteriose. Sicuramente aveva pestato troppi piedi. Nel giro di qualche anno la sua storia cadde nel dimenticatoio, fino a quando nel 1930 una bambina di 12 anni lo lesse per caso nella casa di un amico del padre. Sue Eakin, diventata da grande insegnante e giornalista, decise di ricostruire la storia raccontata da Northup. Nel 2010 Bianca Stigter, moglie del regista Steve McQueen, propose la sceneggiatura al marito, intenzionato da tempo a girare  un film sulla schiavitù negli Stati Uniti.

Agatha Orrico

Voto: 9

OSCAR 2016. INTERVISTA A GIANCARLO GROSSI

Condividiamo l’intervista del blog CIMO al Fachiro Giancarlo Grossi sugli Oscar 2016.

Valutando le tante nominations ricevute e i risultati dei Globe sembra che The Revenant farà man bassa di premi. Lei lo premierebbe o crede che ci siano film migliori in lizza? Quanto influenza una campagna mediatica come quella del film di Inarritu?

Innanzitutto devo fare una premessa: ho detestato The Revenant di Iñarritu, un film tanto presuntuoso a livello tecnico quanto fiacco dal punto di vista narrativo: lineare, tradizionale, incapace di restituire le emozioni di un sano revenge movie. Soprattutto, tanto spinto sul versante di un presunto realismo che possa spogliare il west della sua mitologia, quanto irrealistico in tutte le sue svolte narrative. Birdman era un film di tutt’altro respiro e complessità, e, anche se il battage pubblicitario sembra sostenere The Revenant, mi sembra difficile che lo stesso regista possa bissare l’Oscar a distanza di un anno, soprattutto con questo film. Aggiungo inoltre che almeno tre dei film candidati mi sembrano artisticamente superiori: un’opera eccezionale come Mad Max Fury Road, destinato a fare la storia del cinema ancor più che quella dell’Academy, l’ottimo La grande scommessa e un film coraggioso come Spotlight. Ma negli Oscar la campagna mediatica è fondamentale, a differenza che nei Festival l’audience è molto più decisiva della critica. Bisogna inoltre aggiungere che si tratta di una premiazione americanocentrica, che non sempre funge da sintomo delle vere rivoluzioni del cinema contemporaneo.

Al di là di The Revenant, da cosa si aspetta qualche sorpresa?

Mi ripeto: assolutamente Mad Max Fury Road del vecchio George Miller, un capolavoro di immensa suggestione visiva, azione allo stato puro che si traduce in un puro flusso di immagini indimenticabili. Un film che sarà studiato tra vent’anni, e che darebbe più importanza al premio di quanta il premio stesso possa dargliene. Se fossi membro dell’Academy, gli assegnerei tutte le 9 statuette cui è candidato.

Fra le attrici, Jennifer Lawrence e Cate Blanchett sono molto amate dall’Academy. Crede in un nuovo successo o può esserci qualche valida outsider? Brian Larson per Room?

Jennifer Lawrance ha ottime possibilità, recita anche nel film giusto, piacevole e inoffensivo, ma di un autore di grido come David O. Russell, che nel contesto americano vanta una schiera di fan paragonabile a quella che Tarantino o Von Trier possono trovare a livello europeo. Io personalmente premierei Cate Blanchett, come sempre straordinaria. E come non protagonista Jennifer Jason Leigh in The Hateful Eight, non solo la migliore interpretazione della sua carriera, ma anche una delle migliori degli ultimi anni a memoria d’uomo.

HE

Perché un regista americano come Tarantino viene sistematicamente ignorato dall’Academy? 

Tarantino non è sistematicamente ignorato dalle Nomination, ma lo è stato completamente – e scandalosamente – quest’anno, dove avrebbe concorso con un film, The Hateful Eight, che a mio modesto avviso è il più complesso della sua produzione recente. Tutto questo per motivi smaccatamente politici: recentemente Tarantino si è schierato a viso aperto contro le violenze razziste della polizia, subendo un boicottaggio mediatico organizzato. A questo va aggiunto il carattere politically scorrect di un film che rinuncia alla facilità di un centro morale che distingua buoni e cattivi, e che ci fa penetrare senza alcun filtro nelle divisioni politiche razziste e identitarie della Secessione Americana. Sicuramente, qualsiasi film possa vincere l’Oscar di quest’anno – a parte Mad Max – non potrà reggere il confronto artistico con quest’opera, cui il tempo renderà giustizia.

Non posso non chiederlo. Un motivo per cui Di Caprio merita un Oscar ed un motivo per cui non lo merita neanche quest’anno.

Se lo meriterebbe come risarcimento, essendo uno degli attori più brillanti della sua generazione. Non se lo meriterebbe per un film dove l’interpretazione muscolare e la resistenza fisica sono considerate condizioni sufficienti per una premiazione, e dove sembra che si tenti ogni virtuosismo in vista dell’Oscar. Nonostante poi il personaggio sia piatto e manchi completamente di caratterizzazione. La grandezza di Di Caprio attore sta piuttosto in una recitazione soffusa, capace di render conto delle sfumature, disegnare il carattere con grazia. È quello che abbiamo visto in altri film, in particolar modo The Wolf of Wall Street di Scorsese. Anche se in quel caso l’Oscar lo meritava effettivamente Matthew McCounaghey per l’interpretazione indimenticabile di Dallas Buyers Club.

BIRDMAN

Regia: Alejandro Gonzàlez Inarritu

Sceneggiatura: Alejandro Gonzàlez Inarritu, Nicolàs Giacobone, Alexander Dinelaris, Armando Bo

Anno: 2014

Durata: 119′

Produzione: USA

Fotografia: Emmanuel Lubezki

Montaggio: Douglas Crise

Scenografia: Kevin Thompson

Musiche: Antonio Sanchez

Interpreti: Michael Keaton, Zach Galifianakis, Edward Norton, Emma Stone, Andrea Riseborough, Naomi Watts

TRAMA

Riggan Thomson, attore famoso per aver interpretato il celebre supereroe Birdman, tenta di tornare sulla cresta dell’onda mettendo in scena a Broadway una pièce teatrale – tratta dal racconto di Raymond Carver What We Talk About When We Talk About Love – che dovrebbe rilanciarne il successo. Nei giorni che precedono la prima deve fare i conti con un ego irriducibile e gli sforzi per salvare la sua famiglia, la carriera e se stesso.

RECENSIONI

Micheal Keaton è stato Birdman, Micheal Keaton era Batman e ora è solo l’ombra di un super eroe, l’ombra di una celebrity che si allunga verso il declino e lotta tra le ossessioni di un passato fatto di successo e acclamazione e la miseria di un presente deprimente.

I super poteri di un tempo sono oggi solo una triste allucinazione e alle battaglie in calzamaglia contro mostri fantastici si sostituiscono le lotte contro nuovi nemici: la penna di una caustica critica del New York Times e la figlia (Emma Stone) tossica. In questo contesto senza speranza l’occasione per dimostrarsi ancora all’altezza della sua megalomania è lo spettacolo teatrale, di cui è produttore, sceneggiatore, regista e interprete.

Il film si presenta come un lungo piano sequenza in cui si susseguono le interpretazioni magistrali di Edward Norton e Micheal Keaton, dialoghi brillanti e ironici, inquadrature bellissime, soluzioni tecniche che spesso sbalordiscono per la loro creatività, ma ogni tanto purtroppo annoiano. Birdman ha il ritmo di un film d’essai, l’ironia tagliente di un autore (Inarritu) non americano, lo sguardo e l’immaginazione di un regista che dire virtuoso è dire poco; ma Birdman ha il grande limite di stupire e, allo stesso tempo, lasciare indifferenti. Infatti di tutte le rocambolesche riflessioni sulla vanità, sulle aspettative, sullo star system, sul narcisismo di cui tutti siamo vittime non resta molto né in testa né nel cuore.

Il principale protagonista dell’Oscar 2015 è quindi un film celebrale e ben realizzato, ma con poca anima. La solitudine e la miseria che investono ogni personaggio – le loro patetiche e divertenti nevrosi – non toccano fino in fondo lo spettatore; e non è un caso che le scene più riuscite siano i rari momenti in cui i personaggi escono dalle loro patologie e finalmente si incontrano. Penso ad Edward Norton ed Emma Stone sul terrazzo del teatro, a Micheal Keaton che in un bar di Broadway decide di affrontare la critica del New York Times: in questi frangenti, per un istante, quando i rapporti umani si sostituiscono ai giri a vuoto di un motore che romba ma non trasporta, finalmente il film respira.

Voto: 6/7

Luca Del Vescovo


Tutti in scena! E che si apra il sipario! È questa la frase simbolo che forse sintetizza la messa in scena dell’ultima pellicola di Inarritu, che omaggia così il palcoscenico teatrale. Il film, a partire dall’estetica registica, non si concentra tanto sulla rappresentazione attoriale quanto su ciò che si cela alle sue spalle, nascondendosi al pubblico. La macchina da presa pedina imperterrita i protagonisti, senza quasi mai staccarsi da loro, con un lungo piano-sequenza di circa due ore che riprende ogni stanza, ogni anfratto, ma in particolare ogni aspetto della vita, ogni nevrosi ed ogni preoccupazione vissute dietro le quinte da chiunque collabori alla buona riuscita dello spettacolo. Un’opera, verrebbe da dire, metateatrale inserita in un prodotto cinematografico.

La sopracitata tecnica del piano-sequenza è una scena rischiosa ma azzeccata: anche se tale  operazione ha il forte limite di appesantire la visione allo spettatore, il regista messicano ha saputo utilizzarla sapientemente, con l’intento di presentarci la verità che avvolge un qualsiasi ambiente teatrale. Birdman riporta sul grande schermo, dopo tanto tempo, Michael Keaton in un ruolo da protagonista. L’attore, invecchiato e scavato nel volto dalle rughe, è credibilissimo nelle vesti di una  star sulla via del tramonto, che tenta in tutti i modi di sparare le sue ultime cartucce.

Il film è una palese critica al mondo dello show-business, che dopo aver spremuto i suoi eroi li ripone in soffitta ad accumulare polvere, come un vestito fuori moda e non in linea con i tempi che corrono. Questo è quello che è Riggan Thomson, eroe degli anni Novanta, masticato e sputato dalla Hollywood dai contratti milionari, incapace secondo tutti gli addetti ai lavori di svestire i panni dell’Uomo Uccello. Basti pensare ai molti attori che, dopo aver interpretato un ruolo iconico, vi sono rimasti talmente avvinghiati nell’immaginario comune da non sapersene più discostare, per poi finire nel dimenticatoio o quasi; solo per citarne alcuni Mark Hamil (Guerre Stellari), Bela Lugosi (Dracula) e buona parte di quegli interpreti di serie tv, ai quali lo spettatore medio si riferisce con frasi del tipo: “Quello che ha fatto il dottore in quel serial” oppure “Guarda chi viene intervistato in televisione! Luke Skywalker!”. Ma è specialmente chi appartiene da sempre al teatro, che, dall’alto del suo snobismo verso forme d’arte più alla portata di tutti, è scettico nel passaggio di un attore dal cinema al proscenio. Un atteggiamento, probabilmente istigato dalla chiusura e dall’egocentrismo intellettuale verso il mezzo cinematografico fin dai suoi albori. Il vero attore è solo quello teatrale e basta, come ci fa capire l’atteggiamento presuntuoso di Mike Shiner, interpretato da Edward Norton. Birdman non è solo questo. Strizza l’occhio anche al cinecomics, ed a tutti i suoi sequel, prequel, midquel e reboot, che hanno oramai saturato il mercato, rimproverando la penuria di idee che il cinema Hollywoodiano sta vivendo in questo decennio.

Comunque sia, alla fine dei conti, una bella fetta di pubblico, colto e non, si rivela essere nel suo profondo ancora un bambino, entusiasmandosi più per l’effettaccio speciale o per la scena adrenalinica che per un film o un opera teatrale culturalmente elevati. Divertente l’allusione al Batman di Tim Burton, in cui Keaton calzava la maschera dell’uomo pipistrello.

 Voto 8.5

 Gabriele Manca


Riggan Thompson un tempo era Birdman, il supereroe che lo ha reso celebre, ricco e amato dal grande pubblico cinematografico. Oggi Birdman non c’è più. E’ solo una figura troppo ingombrante di un passato glorioso e ormai logoro che perseguita senza sosta l’esistenza dell’attore, che nel frattempo si trova ad affrontare il declino del suo successo e della sua popolarità. Per risorgere dalle ceneri dell’anonimato, Riggan sceglie di investire gli ultimi risparmi in uno spettacolo teatrale a Broadway: un remake di What We Talk About When We Talk About Love di Raymond Carver, nel quale decide di giocarsi tutta la carriera.

Birdman è un film che parla di fragilità. In particolare della fragilità che si cela dietro al mondo apparentemente dorato dello star system, e che si manifesta senza pietà quando il successo viene sostituito dal senso di vuoto e di solitudine del tramonto professionale. L’opera di Iňárritu parla anche di ossessione. L’ossessione di Riggan di togliersi una volta per tutte la tuta di Birdman e di far vedere al pubblico di poter essere ben altro che un eroe piumato, ma soprattutto l’ossessione che il protagonista nutre per il proprio Ego, che talvolta assume le sembianze della megalomania tipica di chi un tempo era un Dio e adesso non lo è più. Il regista messicano riesce a narrare questo vortice di stati d’animo attraverso i quattro giorni che anticipano l’esordio della pièce, e lo fa introducendo varie trame e personaggi – su tutti Sam, la figlia di Riggan e Mike Shiner, il co-protagonista della commedia teatrale – che come asteroidi entrano in collisione con la già precaria situazione dell’ex divo.

Il vero colpo da maestro di Iňárritu resta però la regia: un intenso piano sequenza lungo due ore, scandito da una colonna sonora composta in gran parte da una batteria jazz, che segue senza sosta i protagonisti, dentro e fuori il palcoscenico, e che riesce a coinvolgere a trecentosessanta gradi lo spettatore, trasportandolo dentro il grande schermo e rendendolo partecipe in prima persona delle vicissitudini dei personaggi. Interessante è anche la scelta del cast, che potremmo definire di supereroi, o quasi, dato che si possono riscontrare divertenti analogie tra i protagonisti principali e alcune delle loro interpretazioni passate. Infatti, salta subito all’occhio la decisione di affidare i panni di Riggan a  Michael Keaton, il quale a suo tempo fu il Batman di Tim Burton e che con Birdman compie una delle sue migliori performance. Poi c’è Emma Stone, che passa dal ruolo di Gwen Stacy (in The Amazing Spider- Man) a quello di figlia ribelle di Riggan, ma che conserva in entrambi i film la funzione di figura femminile di riferimento. Infine troviamo l’irruento Mike Shiner, interpretato da un Edward Norton in stato di grazia, che in quanto a irruenza risulta essere uno specialista avendo recitato la parte di Bruce Banner  in L’incredibile Hulk. Se si tratta realmente di scelte connesse – in particolare quella di Michael Keaton – o pura casualità forse non interessa. Ciò non esclude, che questi piccoli particolari, se notati, contribuiscono a dare un ulteriore tocco di classe al film.

Nella sua totalità, Birdman tocca con sapienza alcuni dei nervi scoperti che compongono il mondo del cinema, prestando particolare attenzione alla condizione esistenziale che vivono alcuni attori, spesso incompresa dal pubblico. Per certi versi il film di Iňárritu è a tratti lento, probabilmente complesso in alcuni momenti, soprattutto in chiave interpretativa e per questo  richiede una certo grado di attenzione da parte dello spettatore. Birdman possiede comunque la qualità di essere un’opera intensa, intima e originale, che offre la possibilità di essere apprezzata sempre di più ogni volta che la si guarda.

Voto: 7,5

Carlo Tambellini


 

VOTI

Luca Del Vescovo: 6/7

Gabriele Manca: 8,5

Carlo Tambellini: 7,5

AMERICAN SNIPER

Regia: Clint Eastwood

Sceneggiatura: Jason Hall

Anno: 2014

Durata: 132’

Produzione: USA

Fotografia: Tom Stern

Montaggio: Joel Cox, Gary Roach

Scenografia: Charisse Cardenas, James Murakami

Interpreti: Bradley Cooper, Sienna Miller, Kyle Gallner, Max Charles

TRAMA

Chris Kyle è un cecchino soprannominato “Leggenda” e sta combattendo due battaglie: tentare di essere un buon soldato, ma anche un buon marito e padre, mentre è a migliaia di chilometri da casa.

RECENSIONE

Torri gemelle, Iraq, sicurezza. Dio, patria e famiglia. Non è facile fare un film sul più grande eroe e martire dell’ultima e ancora freschissima guerra americana senza scivolare in una visione manichea e propagandistica. Non è facile raccontare la storia di Chris Kyle, ex cowboy, poi navy seals, poi reduce di guerra  e padre di famiglia senza trionfalismi o condanne. Ma Clint Esatwood ispirandosi ai grandi western prima e il filone cinematografico sui  giustizieri poi, di cui Callaghan fu il più luminoso protagonista, riesce nell’impresa.

Ma Chris Kyle è un eroe o un killer violento? La risposta è nelle parole dello stesso protagonista che l’unica cosa di cui si pente,  è di non essere riuscito a salvare più vite di quello che ha messo in salvo. Così Eastwood sospende il giudizio e racconta i 1000 giorni di  battaglie le 160 vittime certificate ma soprattutto la lotta enorme e durissima con se stesso una volta congedato, a rientrare nella vita normale. Superare l’insonnia, dimenticare le minacce e il senso di accerchiamento,  svestire l’uniforme, slacciare gli anfibi, calzare di nuovo i panni civili e ritrovare nella quotidianità stimoli ed emozioni.

Bradley Cooper, ingrassato nel film di oltre 10 chili, interpreta alla perfezione il ruolo e le battaglie fisiche ed interne del protagonista , guidato fin dall’inizio del film dall’avvertimento profetico del padre: si può essere lupi, pecore , ma la cosa più difficile è essere pastori da gregge. Una metafora semplice sul significato dell’essere padre al fronte o in patria, in famiglia o con  una generazione di soldati inginocchiati dai disturbi post traumatici da stress, e troppo spesso sconfitti dalla stessa quotidianità. Una metafora efficace  che è la linea guida e la risposta agli interrogativi del protagonista e del pubblico. Il cinema di Clint Esatwood è infatti semplice ma intenso, non ha la suspance né l’estetica della Bigelow in Hurt Locker, ma ha il grande merito di essere diretto e vero, senza fronzoli né postulati, disegnando in modo chiaro gli strumenti con cui affrontare  la visione  di un mondo duro e spietato: responsabilità, volontà e dovere . E’ questo il giustiziere 2.0.

Voto: 7

Luca Del Vescovo


 

Clint Eastwood ci regala anche questa volta un crudo affresco della storia bellica americana. Con American Sniper il regista racconta, attraverso la sua poetica dura e scarna, la vita di Chris Kyle, il cecchino più infallibile mai esistito tra le fila dell’esercito statunitense. La macchina da presa registra le gesta di Kyle in modo oggettivo, senza sentenziare o giudicare  coloro che si muovono sulla scena. Gli eventi vengono sbattuti in faccia allo spettatore in tutta la loro feroce verità. Noi che fissiamo lo schermo, un secondo prima ci troviamo in sala e quello dopo siamo lì, nel vivo dell’azione, che respiriamo l’odore della sabbia irachena, il sudore dei marines al fronte, l’aridità dell’ambientazione, lo spirito di cameratismo di quest’ultimi ed il continuo senso di pericolo che si percepisce ad ogni angolo. Molto spesso, l’occhio del protagonista è il nostro occhio, miriamo e spariamo assieme a lui, sembrando a tratti di stare giocando con lo sparatutto in prima persona di ultima uscita. Ma, a differenza della spersonalizzazione del soggetto che molla il colpo entro un gameplay, nel film le ansie e le preoccupazioni di Chris invadono le nostre menti, non possiamo sbagliare il bersaglio, se no game over, le vite ha disposizione sono solo una.

A volte la guerra si interseca in tempo reale con la tranquilla vita quotidiana in territori americano, riversando in esso tutte le sue paure, mettendoci d’innanzi all’impotenza che un comune individuo ha nei confronti di tali vicende. Una quotidianità che si sente fortemente anche fra i commilitoni, che pur trovandosi in un luogo dove la morte può bussare alla propria porta in qualsiasi momento, riescono ad avere anche qui la loro routine giornaliera, come una coperta di Linus che li protegge dalla sofferenza che devono sopportare. Però, tale espediente, porta alla desensibilizzazione ed alla perdita di qualsiasi etica sulla vita umana; o uccidi o vieni ucciso, questo è un po’ il mantra dei personaggi che osserviamo. Sino a quando non si ritorna a casa, e nella pace domestica se ci si sofferma a pensare per un secondo, affiorano le paranoie ed un senso di vuoto, che accompagna di continuo chi è tornato dal fronte. L’adrenalina in corpo è scemata, e lo spaesamento si amalgama con i ricordi degli orrori delle battaglie affrontate. Ma ormai, non si può più fare a meno di ritornare ad imbracciare il fucile, l’idea di dover affrontare i propri demoni interiori è  peggio che di risommergersi nel clima sanguinario da cui si sono presi una pausa, dove non si ha il tempo di riflettere sulle azioni che si compiono, in una continua trans agonistica.

Chris Kyle lotta per il proprio paese, vuole proteggere i suoi cari, ed è così, ma in lui pare che alberghino due personalità che sono agli antipodi: l’uomo con una morale, che non va fiero di quello che fa, riconoscendo il suo record come ignobile, sperando di non dover mai premere il grilletto, perché spezzare una vita, non solo ha ripercussioni tragiche su chi viene mandato all’altro mondo, ma anche su tutti coloro che hanno dei rapporti affettivi con quella persona; ed il SEAL, un killer legalizzato che vuole mettere alla prova i suoi nervi e le sue abilità, una macchina disumanizzata dove il suo unico scopo è quello di fare centro, ingaggiando una sfida con se stesso. Bradley Cooper, barbuto e temprato nel fisico per il ruolo, rende in modo impeccabile la concentrazione e l’ansia che traspare nel colpire il bersaglio e l’alienazione che possono portare professioni di questo tipo.

Voto: 8.5

Gabriele Manca


 

Luca Del Vescovo: 7

Gabriele Manca: 8,5

IL CIGNO NERO

Regia: Darren Aronofsky

Sceneggiatura: Mark Heyman, Andres Heinz, John McLuighing

Anno: 2010

Durata: 103′

Produzione: USA

Fotografia: Matthew Libatique

Montaggio: Andrew Weisblum

Scenografia: Thérèse DePrez

Costumi: Amy Westcott

Colonna sonora: Clint Mansell

Interpreti: Natalie Portaman, Mila Kunis, Barbara Hershey, Vincent Cassel, Winona Ryder

TRAMA

Nina è una ballerina di grande talento, completamente assorbita dalla danza. Una compagnia di New York sta allestendo “Il lago dei cigni” e deve scegliere le protagoniste per interpretare i ruoli dell’innocente cigno bianco e del sensuale cigno nero.

RECENSIONE

In quanto spettatori, siamo intrappolati in una fitta rete di trasposizioni mentali che la protagonista, Nina, elabora principalmente per sfuggire a se stessa. La storia parla di Nina, una ballerina classica professionista che aspira a diventare prima ballerina nell’opera di imminente realizzazione Il Lago dei Cigni. Questa nuova versione del balletto vede i due personaggi principalI, il Cigno bianco e il Cigno nero (simbolicamente il bene e il male), interpretati dalla stessa artista che quindi dovrà dare prova di una considerevole abilità per interpretare entrambe le parti. Contro ogni aspettativa Nina viene scelta. È qui che ha inizio il suo degrado fisico, ma soprattutto mentale, a causa della fote pressione psicologica esercitata dal suo stesso desiderio di prestigio, di riconoscimento, nonché dal desiderio di soddisfazione professionale, personale e anche sessuale. Nina si scoprirà la peggior nemica di se stessa. Vittima di inquietanti visioni e di masochistici impulsi non propriamente coscienti, Nina si troverà a vivere in una dimensione allucinatoria e surreale, piena di elementi incoerenti che caratterizzeranno l’intera narrazione.

La storia dunque si relaziona con l’opera il Lago dei Cigni. La bellissima principessa Odette viene trasformata in cigno dal malvagio mago Rothbart. Essa ha bisogno della promessa di amore eterno per rompere l’incantesimo ma sfortunatamente il suo principe si innamora della ragazza sbagliata, Odile, (la figlia del mago) tramutata per l’occasione in una versione malefica di Odette, identica a lei a parte per il vestito che, nel suo caso, è nero (il Cigno nero, appunto). Delusa e rassegnata a non riacquisire mai più le sue sembianze, Odette si getta da una rupe suicidandosi. L’ambiguo personaggio principale viene giocato sull’antitesi tra amore sacro e amore profano. Odette e Odile sono due facce della stessa medaglia che ora mostra più una faccia, ora più l’altra ma che, sporadicamente, in qualche modo esistono insieme.

La narrazione si basa dunque sul tema del doppio che viene esaltato dall’ambivalente luogo della superficie specchiata. Con l’espediente dello specchio è difatti possibile dare più o meno enfasi alla dimensione psichica del personaggio che ora può trovare un corrispettivo speculare opposto in una dimensione tanto lontana quanto prossima risultando sia Eroe che Traditore.

Durante lo svolgersi della pellicola, vediamo sempre più preponderante il ruolo interpretato dalla madre di Nina, Erica. Ex ballerina anche lei, intrattiene con la figlia un rapporto morboso instaurato su un totale controllo di lei vista ancora come una bambina. Erica tenta di rivestire gli angoli vivi della vita con tenera gomma piuma così da limitare i pericoli per la figlia i cui impulsi distruttivi, però, la porteranno a vivere in una dimensione del tutto personale nella quale la madre non ha alcun potere. È proprio questa condizione limitante in cui la madre cerca di rilegarla che fa crescere in Nina una sempre più sensibile insofferenza verso quella versione infantile che, in un incontro/scontro con il suo doppio, Nina ferisce voracemente a morte. A seguito di questo efferato atto, Nina può finalmente vivere appieno se stessa diventando un’artista completa.

Ha qui luogo uno dei climax della storia che potremmo riconoscere come relativo alla dimensione fisica di Nina. Con le spalle al muro, mentre osserva il cadavere del suo acerrimo nemico, vediamo la natura di Nina cambiare. Essa respira dapprima come durante uno scompenso respiratorio, poi il viso si distende, il respiro torna regolare e profondo e gli occhi si illuminano di un vivacissimo rosso. Capiamo ora che il Cigno nero è uscito allo scoperto. Esso non può più essere mitigato, nascosto sotto un tutù rosa chiaro, ma può esplodere in una strabiliante performance ricca di virtuosismi tecnici che gli faranno conquistare gli elogi del pubblico e della compagnia stessa.

Successivamente a questa vivace svolta, assistiamo ad una sconcertante scoperta che Nina fa tornata nel suo camerino. Il corpo del suo antagonista non c’è più, non una traccia di sangue. Capiamo in quel momento insieme a Nina non essere mai esistito un nemico da cui guardarsi, da cui difendersi, se non Nina stessa. Assistiamo ad un’inquadratura emblematica, piena del vestito bianco di Nina nel punto in cui vi è un grosso squarcio. Il dettaglio del vestito strappato, impregnato di sangue, la grossa ferita che respira assieme alla protagonista fanno chiaro riferimento all’evolutivo cambiamento che avviene ad un certo punto nella vita di ogni ragazza con il verificarsi delle prime mestruazioni. Con le stesse parole del regista Darren Aronofsky, Nina sta di fatto diventando una donna e quindi possiamo dire sia più consapevole del suo corpo e della sua intimità che sgorga letteralmente fuori da lei. Assistiamo ora ad un altro climax della storia che riguarda la dimensione spirituale di Nina. Il cigno bianco è stato ferito ed ora sanguina in preda ad uno stato confusionale ma colmo di accettazione proprio come richiede il personaggio cui Nina si è dedicata tanto. Odette/Nina ora può tornare sul palco è conquistare il suo momento più alto che, tramite l’estremo sacrificio, la libererà dal suo maleficio. Durante il salto scenico dalla finta rupe vediamo il corpo di Nina cadere in un momento lunghissimo in cui percepiamo il suo spirito liberarsi dalle angosce che l’avevano oppressa per tutto il film, lasciando finalmente spazio a sentimenti di rassegnazione e di pace.

Voto: 10!

Cristina Malpasso

LEI

Titolo Originale: Her

Regia: Spike Jonze

Soggetto: Spike Jonze

Sceneggiatura: Spike Jonze

Anno: 2013

Durata: 126’

Produzione: Spike Jonze

Paese di produzione: Stati Uniti

Fotografia: Hoyte Van Hoytema

Montaggio: Jeff Buchanan, Eric Zumbrunnen

Scenografia: Austin Gorg

Costumi: Casey Storm

Colonna sonora: Arcade Fire

Interpreti: Joaquin Phoenix, Amy Adams, Scarlett Johansson (voce)

TRAMA

Nella Los Angeles di un futuro non lontano, Theodore lavora in un’agenzia scrivendo lettere personali per conto di altre persone; lasciato dalla moglie, non riesce a rifarsi una vita, finché non inizia una relazione sentimentale con un sistema informatico di nuova generazione.

RECENSIONE

Achille e la tartaruga

È storia recente la notizia del (presunto) superamento del famoso test di Turing, accolto con vertigine ed entusiasmo dal pubblico – non solo accademico e scientifico – di un’umanità alla continua e confusa ricerca di tracce che lo proiettino in un futuro (prossimo) in cui reinventare se stessi. Molto e troppo si potrebbe discutere dell’assottigliamento di quella distanza fra umano e artificiale che potrebbe rimanere sempre infinita quanto uno dei passi della tartaruga di Zenone. Troppo potremmo filosofeggiare sull’esigenza dei sogni umani di confrontarsi con un limite da superare, in rapporto a un altro da sé, un’alterità, un altrove. Her ci salva da questo rischio, perché la questione dell’artificiale non rappresenta il nucleo del film di Spike Jonze, ma è solo lo strumento concettuale attraverso il quale discutere, ancora una volta, dell’amore e della solitudine umana. Con sollievo possiamo riporre nel cassetto il nostro voluminoso Hofstadter o i confronti con i vari Electric Dreams (1984) o Be Right Back della serie Black Mirror. Pur trattando dell’”amore ai tempi del virtuale”, la dimensione autentica di Her non è quella della fantascienza. Il futuro disegnato da Spike Jonze attraverso i suoi colori pastello non tende al surreale ma all’iper-reale, non a una sovversione del presente ma a una sua saturazione. Il primato della tecnologia non viene urlato o esagerato ma è lo sfondo che, emergendo nei dettagli, conferisce originalità a quella che ha la struttura di una normale storia d’amore.

Her 3

 A Love Story?

Her comincia come una favola dal sapore dolceamaro in cui tutti gli elementi concorrono a far immergere e immedesimare nella storia: la fluidità della narrazione, le musiche avvolgenti, la raffinatezza della regia, la voce di Scarlett Johansson (talmente vivida da rappresentare essa stessa una presenza concreta) e gli occhioni azzurri di Theodore (magnificamente interpretato da un Joaquin Phoenix in grado di reggere da solo la scena per 120 minuti). Il protagonista e l’ambiente che lo circonda sembrano inizialmente rappresentati in reciproca opposizione. Nell’epoca delle macchine umane troppo umane è stato sottratto all’uomo il tempo della comunicazione, quel tempo che lo ha fatto entrare nella storia creando la storia stessa: più che l’avvicinamento dell’artificiale all’umano è accaduto il contrario. Theodore, abbandonato dalla moglie, dedica interamente le sue giornate a un’occupazione d’ufficio paradossale, che consiste nello scrivere lettere personali o intime per conto di altre persone; attraverso il suo lavoro sembra l’unico capace di donare autenticità alle relazioni umane ormai anestetizzate. Quando conosce Samantha, però, la figura stessa di Theodore rivela progressivamente la sua ambiguità, facendo emergere alcuni lati del suo carattere legati all’incapacità di affrontare la realtà, nella sua quotidianità e consistenza. Proprio nel momento in cui Lei cerca un corpo e una carne come medium alla propria virtualità, la relazione rivela la propria natura: per Theodore Samantha non rappresenta altro che uno strumento perfettamente controllabile (in apparenza) al punto da generare dipendenza. Presentato come favola romantica che tenta di dare sostanza all’amore togliendogli carne e materia – la locandina sottotitola “A Spike Jonze Love Story” –, Her si rovescia nel suo opposto, ossia in una rappresentazione drammatica dello svuotamento dei rapporti umani, che diventano riflesso o estensione di sé sfociando nella massima solitudine. L’amore come simulacro.

Her 2

Voto: 8

Patrick Martinotta

SIDEWAYS

Regia: Alexander Payne

Soggetto: Rex Pickett

Sceneggiatura: Alexander Payne, Jim Taylor

Anno: 2004

Durata: 123’

Produzione: USA/Ungheria

Fotografia: Phedon Papamichael

Montaggio: Kevin Tent

Scenografia: Jane Ann Stewart

Costumi: Wendy Chuck

Colonna sonora: Rolfe Kent

Interpreti: Paul Giametti, Thomas Haden Church, Sandra Oh, Virginia Madsen

TRAMA

Miles, scrittore fallito e sconvolto dal divorzio con la moglie, e Jack, attore da soap opera dubbioso per l’imminente matrimonio, intraprendono un viaggio di una settimana lungo le strade del vino della California.

 RECENSIONI

 Nella profondità delle cantine, il vino non dimentica mai di ripercorrere questo moto del sole nelle ‘case’ del cielo. È proprio segnando il tempo delle stagioni in questo modo che esso acquista la più sorprendente delle arti: quella di invecchiare.

Gaston Bachelard

Abbandonando Apollo e le facili tentazioni nietzscheane si scopre che Dioniso-Bacco è un simbolo sufficiente ad esprimere la dicotomia della vita. Jack e Miles sono diversi e complementari come un vino fermo e uno frizzante, ma sono entrambi spaventati da fantasmi del passato (il divorzio, l’ex moglie) o del futuro (un matrimonio incombente), entrambi incastrati nel presente, coi suoi desideri e le sue speranze. Di fronte a un punto di non ritorno della propria vita – come per il Jack Nicholson di About Schmidt – i due amici si rifugiano nel sogno picaresco per eccellenza, una maldestra fuga on the road scandita dai due primordiali riti del piacere sensoriale, il sesso e il vino.

Sideways

Sideways è una narrazione di viaggio atipica, perché, nella duplice accezione del titolo, imbocca una “strada secondaria” e offre una visione “di sbieco”. È un film sul viaggio che non possiede il guizzo dell’acqua, né la libertà dell’aria, né lo scintillio del fuoco che divampa, ma il riposo e l’energia della terra. In questo racconto senza troppe pretese non troverete Chatwin né Cervantes né Kerouac, ma il retrogusto un po’ amaro della quotidianità, con le sue aspettative e le sue disillusioni. L’immagine del vino, con le sue molte anime e le sue sfumature, antico specchio dell’animo umano, è l’origine circolare del film, il punto di partenza e quello di arrivo. Ma il dispositivo filmico di Payne è talmente fedele alla sua metafora da trovare, grazie a una sceneggiatura ben misurata, il ritmo e il respiro adatti alla sua natura terrestre. L’uomo, indagando sul fondo di un bicchiere la storia, la geografia e – è la stessa cosa – l’astrologia del vino, può riscoprire con esso un’origine e un destino comuni. Perché, come scriveva il grande filosofo della Borgogna, Gaston Bachelard, “il vino è davvero un universale che riesce a farsi singolare se solo trova un filosofo che sappia berlo”.

 Voto: 7

Patrick Martinotta

LA GRANDE BELLEZZA

Regia: Paolo Sorrentino

Soggetto: Paolo Sorrentino

Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello

Anno: 2013

Durata: 142′

Produzione: Italia/Francia

Casa di produzione: Indigo Film, Medusa Film, Babe Films, Pathé

Fotografia: Luca Bigazzi

Montaggio: Cristiano Travaglioli

Scenografia: Stefania Cella

Costumi: Daniela Ciancio

Colonna sonora: Lele Marchitelli

Interpreti: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Iaia Forte, Carlo  Buccirosso, Pamela Villoresi, Isabella Ferrari

TRAMA

Jep Gambardella, affascinante giornalista e scrittore, “primo fra i mondani” della vita notturna di Roma, il giorno del suo sessantacinquesimo compleanno comincia una malinconica riflessione sulla sua vita e sul mondo che lo circonda, per cercare, fra le maglie di un paesaggio vuoto e assurdo, il barlume di una speranza e di una Grande Bellezza.

RECENSIONI

A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: “La fessa”. Io, invece, rispondevo: “L’odore delle case dei vecchi”. La domanda era: “Che cosa ti piace di più veramente nella vita?”

La grande bellezza

Basandoci, per pigrizia, sul confronto con Fellini, porrei in secondo piano l’immediato richiamo alla Dolce vita per affermare casomai un parallelismo con E la nave va, altro film barocco e inevitabilmente noioso, ma capace di esprimere perfettamente l’impossibilità di raccontare il niente. Non la decadenza di Roma e dell’Italia sembrano essere l’oggetto de La grande bellezza, ma il tempo perduto, la vecchiaia e il suo disincanto. La città eterna, orgogliosamente chiusa nella prigione del proprio passato e nell’immobilismo dei suoi monumenti, diventa protagonista in quanto dimensione spaziale esemplare per rappresentare l’idea di tramonto. Ma la Roma di Sorrentino diventa una città da cartolina, non meno goffa e caricaturale di quella del Woody Allen di To Rome with Love, col suo corteo di personaggi-macchiette. Ben lontano dalla poetica metafisica di Fellini, lo stile di Sorrentino si rifugia nel grottesco: la sua indiscussa abilità tecnica finisce con l’infastidire, scivolando troppo spesso in leziosismi e prolissità alla peggior Terrence Malick, con sarcasmo saccente (travestito da sagace ironia) e monologhi autocompiaciuti (mascherati da brillanti dialoghi). Finisce tutto così, a questo niente, nascosto sotto il chiacchiericcio e il bla bla bla.

Voto: 4

Patrick Martinotta 


I. Nella GB non c’è una trama vera e propria (in realtà c’è), ma una serie di personaggi che ruotano attorno al protagonista, Jep Gambardella, uno scrittore in disarmo che immaginiamo ricchissimo, e che ama girovagare per Roma, come un flaneur d’altri tempi. Le sue passeggiate, accompagnate da una colonna sonora magistrale, sono i momenti migliori del film; lasciando libera l’immaginazione si riesce a sognare in compagnia di quest’uomo, che ha eretto a condizione universale la sua solitudine e la sua tristezza.

la grande

II. Jep non è un nichilista, come in molti hanno sottolineato, ma un cinico, che cerca di resistere all’attrazione gravitazionale del cinismo contemporaneo. Che differenza c’è tra nichilismo e cinismo? Una differenza piccola, questa: se il nichilista non crede in niente (e in questo senso lo siamo stati tutti almeno per un momento), il cinico crede nelle piccole cose: non esistono (più) grandi ideali liberatori (l’amore, la libertà, …), ma per converso non esistono (più) neanche grandi tragedie (soffriamo tutti, chi più chi meno: non c’è nulla di notevole in questo). Il cinico crede nelle cose minute, come le strategie e giochi di prestigio, alle quali s’affida per sopravvivere. Nei momenti migliori di questo film, troviamo un protagonista che aspira a credere in qualcosa di più grande, che aspira a tenere viva la fiamma dell’illusione che ci possa essere qualcosa di preferibile all’arido quotidiano, fatto di piccole cose miserabili, ma cosa? Bisogna vedere il film per saperlo, e arrivare fino alla fine. Nei momenti peggiori, invece, Jep cede al costume contemporaneo, volendo schiacciare gli altri alla misura della propria mediocrità (l’artista simil Abramovic, la scrittrice impegnata, ecc.). Questo è un limite enorme.

la g

III. Molti hanno amato e odiato questo film per gli stessi motivi: l’apparente inafferrabilità del suo significato. C’è chi ha un gusto per l’ambiguità (e tutto sommato non ama ragionare sul senso dei film), e c’è chi invece odia la noia e ama divertirsi, e ha dunque bisogno di un filo da seguire, di una storia che appassioni o diverta. In entrambi i casi si perde qualcosa di questo film, che ha al suo centro un’idea forte, che è quella della bellezza – della sua inafferrabilità, della sua estrema fuggevolezza – attorno alla quale ruotano le storie, le immagini, le musiche e tutte le chiacchiere che sentiamo dall’inizio alla fine. Nei suoi momenti migliori questo film lascia credere che sia possibile a tutti, almeno una volta, partecipare di questa bellezza, incarnata in un incontro in una persona in un amore, e che questo possa durare e dare senso, l’unico senso possibile, alla vita, nei suoi momenti peggiori, invece, il film sembra implicare che non c’è significato possibile se non nel ricordo, e che dunque ci sia, in fondo, sempre preclusa la possibilità di una vita felice e significativa. La felicità è impossibile, perché se la viviamo non sappiamo dirla, e riusciamo a dirla solo quando è finita. Non c’è nulla di universale in questa declinazione cinica dell’esistenza. Solo una forma di stanchezza del pensiero, alla quale siamo facilmente proni, oggi. Un film, per esempio, non è una piccola cosa.

Voto: 8

Giuseppe Argentieri


 

VOTI

Patrick Martinotta: 4

Giuseppe Argentieri: 8