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INTERSTELLAR

Regia: Christopher Nolan

Sceneggiatura: Christopher Nolan, Jonathan Nolan

Anno: 2014

Durata: 169′

Produzione: USA, Inghilterra

Fotografia: Hoyte Van Hoytema

Montaggio: Lee Smith

Scenografia: Nathan Crowley

Costumi: Mary Zophres

Colonna sonora: Hans Zimmer

Interpreti: Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Jessica Chastain, Wes Bentley, Michael Caine, Matt Damon, John Lithgow, Topher Grace, Casey Affleck

TRAMA

In un futuro imprecisato le risorse naturali della Terra sono diventate così scarse che l’umanità è regredita a una società agricola sull’orlo dell’estinzione. Un team di esploratori deve viaggiare attraverso un buco nero per trovare in un’altra dimensione un pianeta abitabile.

RECENSIONI

Siamo nel futuro, l’aria si fa sempre più spessa e irrespirabile, i raccolti languono, la natura lentamente e progressivamente muore, e noi con lei. Dimentichiamo quello che siamo stati, creatori e esploratori, e cerchiamo di amministrare la nostra fine, nel modo più decoroso possibile, risparmiando le ingenti quantità di denaro richieste e consumate da un’inutile progresso tecnologico, e dedicandoci all’agricoltura, per quanto possibile: questo il presente, il punto di partenza di Interstellar, epico giocattolone che sembra voler rifare il verso a 2001 Odissea nello spazio, senza tema di ricadere nell’ineleganza e nel fragore, laddove Kubrick ricercava nell’abissale silenzio dello spazio oscuro la misura al tempo stesso tragica e grottesca della nostra condizione nel ritmo cadenzato e bidimensionale del Donauwalzer di Johann Strauss, non mancando di iniettare a là Tarkosky nella fredda trama fantascientifica, e anche qui senza risparmiarsi, corpose dosi di emotività e di sentimentalismo: il romanzo familiare, sopratutto, e l’empatia umana troppo umana tra la macchina e l’uomo.

Straordinarie le immagini delle galassie lontane, delle superfici inospitali dei pianeti inabitabili visitati dai nostri protagonisti, dei buchi neri con i loro contorni aurati, e favolosi i paradossi della relatività e dello spaziotempo finalmente raccontati attraverso il drama e non semplicemente con l’impura teoria, in sé stessa di indiscutibile poesia e stupore, anche se non di altrettanto facile né universale palatabilità. Certo, un film imperfetto, meno serio di quanto in molti si aspettassero, meno preciso, meno attendibile di quanto quasi tutti credessero dovuto, incline tanto quanto Gravity alla licenza poetica, ma forse il problema sono le nostre aspettative, da quando è diventato di moda aspettarsi dalla fantascienza il rigore documentaristico e iperrealista della scienza, quando di quest’ultima non ha mai cercato di trattenere nient’altro che la pura fascinazione, instillando semmai in quei pochi eletti in grado di coglierlo un briciolo di quella curiosità che alle nostre vite comunemente non appartiene.

Personalmente, non mi aspettavo molto di più da un regista, certamente geniale, sempre capace di ammannirci un divertimento d’alta classe, da grande prestidigitatore, ma senza spessore, un regista la cui maggior dote non è mai stata quella di fornirci una maggiore comprensione della realtà né di indagare le profondità dell’animo umano, quanto piuttosto la sua straordinaria capacità di esaltarsi e di esaltarci vellicando la nostra parte più proclive alla violenza e all’emotività, suscitando quella nostra naturale simpatia  umana verso chi, alla fine della lotta, si erge vittorioso, e mascherando il tutto attraverso una manichea e semplicistica distinzione di bene e di male, senza nessuno spunto di riflessione critica (diversamente da David Cronenberg in A History of Violence, tanto per fare un esempio): sbagliato aspettarsi di più? Certo, oggi come allora.

Diversamente intelligente, e molto più complesso e di difficile fruibilità, l’ultimo film di David Michôd, The Rover, che racconta di un futuro ugualmente irrespirabile e di un’umanità agli sgoccioli, ridotta all’impossibilità di mascherare la propria miseria dietro una benestante ipocrisia, film catastrofista che non intende trasmetterci paura per il nostro futuro, quanto piuttosto mostrarci, attraverso le lenti distorcenti del cinema, la vera dimensione del nostro presente, dove l’aria si fa già sempre più irrespirabile, e dove le nostre pulsioni individualiste, e dunque distruttive e autodistruttive, già operano libere e incontrastate, nell’esaltazione ideologica generale.

Voto: 8

Giuseppe Argentieri


Non sopravvivrà un’altra generazione nella Terra, vicina all’esaurimento delle risorse alimentari e violentata da polveri tossiche. L’agricoltore ex-pilota della NASA Cooper viene reingaggiato dall’agenzia spaziale con la missione di trovare un nuovo pianeta in cui la vita possa proliferare in un’altra dimensione raggiungibile attraverso un wharm-hole . Ma i paradossi spazio-temporali legati al viaggio interstellare fanno sì che l’umanità potrebbe essere già estinta a missione compiuta.

Se Gravity di Cuaron era un film tutto giocato sulla fobia dello spazio aperto, l’ultima fatica di Nolan trova il proprio perno in un’agorafobia del tempo. Si tratta dell’angoscia di una temporalità sconfinata, che si flette in infinite dimensioni e sprofonda in buchi neri, rendendo impossibile recuperare qualsiasi cosa si sia lasciato alle spalle. È la solitudine estrema di uomini sperduti in abissi di tempo, la cui unica missione riguarda l’esigua temporalità cui il nostro pianeta è condannato. Si costruisce così ancora una volta un complessissimo sistema narrativo in cui diverse dimensioni di mondo diventano simultanee e concorrono verso un’unica soluzione, che aveva già fatto di Inception un esempio esplicito di sublime cerebrale. In questo senso il film raggiunge la sua massima efficacia quando può dar sfogo a quella che è la principale abilità del regista britannico, ossia il montaggio alternato più complesso e virtuosistico del cinema contemporaneo. La tecnica del montaggio alternato consiste nel far apparire come simultanee diverse azioni concomitanti: l’esempio più classico della storia del cinema è quello del salvataggio, che da Nascita di una nazione (1914) di Griffith in poi è stato riproposto in infinite varianti. In Interstellar può abbracciare addirittura diversi sistemi temporali che progrediscono verso il comune fine della salvezza: il tempo della terra, dello spazio aperto, dei pianeti  e delle dimensioni in cui si rimane ancorati. Raggiunge così nella parte centrale del film vertici di complessità, comunque proporzionale alla suspense percepita (e da intendere in senso letterale, trattandosi di assenza di gravità).

Ma se in Inception l’intrico gargantuesco del plot poteva poggiare sulla pura immaginazione, tale da conservare tutta la sua potenza immaginifica anche se non ricostruito nei minimi dettagli, in Interstellar la pretesa di fare della fisica teorica il principale motore della trama finisce per scadere nel didascalismo più arrugginito. Questo accade in particolar modo nella prima parte, dove i dialoghi sembrano stralciati da Dal Bing Bang ai buchi neri di Stephen Hawking, e non c’è svolta narrativa che non si faccia annunciare da uno spiegone sulla teoria della relatività o sui wharm-holes. Didascalico risulta anche il senso spirituale che attraversa tutta l’opera, riguardante il potere dell’amore (in particolare tra Cooper e la figlia Murph) di trascendere le barriere di spazio, tempo e gravità, che troviamo enunciato in modo lezioso e superfluo dal personaggio di Anne Hathaway a metà film. Ma nella seconda parte la forza visiva di tradurre in immagini, anche discutibili (la lucina iridescente che contorna il buco nero!) gli elementi più misteriosi dell’astrofisica prende il sopravvento, e l’esplodere del montaggio risulta il mezzo visivo più potente per comunicare l’infinita vertigine del tempo. Anche se tutta la complessità scientifica ed esistenziale di cui il film è intessuto si scioglie alla fine in un troppo semplice Deus ex machina, finendo per sembrare una complessa equazione che si risolve nel modo più banale una volta che si è scoperta la regola.

Voto: 6,5

Giancarlo Grossi


Christopher Nolan ovvero dei grossi buchi neri

“And you, my father, there on the sad height,
Curse, bless me now with your fierce tears, I pray”.

Cosa offre Interstellar? Personalmente, non è riuscito a darmi nulla. Non mi ha fatto riflettere, non mi ha sorpreso. Riuscire a incuriosire e a intrattenere lo spettatore per quasi tre ore sarebbe già un ottimo risultato, ma non se alla fine si rimane con l’amaro in bocca. Interstellar è intenso ma confuso, capace di ergersi a specchio della forza e allo stesso tempo dei limiti dell’opera di Nolan. Una scena del film, in particolare, sembra confessare emblematicamente la sua operazione cinematografica e la sua poetica: fare due puntini su un pezzo di carta e poi spiegazzare il foglio per unirli. Tutto qua.

La prima qualità di Nolan è la sua capacità di cingersi di un’aura da autore visionario, al punto da sentirsi accreditato a paragonarsi a Kubrick. Interstellar è il suo film più ambizioso, non solo dal punto di vista estetico: tutti gli elementi – a livello di sceneggiatura, regia, montaggio e colonna sonora (la continua alternanza fra rumore e silenzio) – cercano continuamente il contrasto, in primo luogo quello fra cosmico e intimo. È evidente che il soggetto fantascientifico rappresenta un pretesto per giocare con il tema delle nostre radici – la nostra casa e i nostri figli, nel senso più ampio di questi termini. Interstellar diventa un film di fantascienza dal punto di vista visivo, ma in fondo è un lungo-lungometraggio sulla paternità, l’amore, la speranza, la forza di volontà e tanti altri buoni sentimenti. L’ambientazione cosmica ha la pretesa di creare la distanza critica per osservare l’uomo e disegnare un nuovo umanesimo: ma alla fine del film tutto è uguale a prima, anzi tutto crolla e collassa, al punto che i diffusi paragoni (non dico con 2001!) con Gravity sono impietosi: il film di Cuaròn nella metà del tempo riesce a dire molto di più, mostrandosi superiore da tutti i punti di vista (in primo luogo estetico).

Il punto debole del film – paradossalmente – è la sceneggiatura. Nolan utilizza l’assodata tecnica “a spirale”, che mira a trascinare lo spettatore nei suoi ingranaggi al fine di disorientarlo: le teorie della relatività temporale rappresentano, in questo caso, il suo strumento magico. Trattandosi di un film di fantascienza non importa tanto la verosimiglianza della trama, quanto la sua credibilità; concetti che vanno ben distinti. A stonare non sono tanto le varie contraddizioni scientifiche che attraversano il film (qui lasciamo la parola ai molti scienziati che popolano il web), quanto la sensazione che neppure gli autori della sceneggiatura sappiano di cosa stanno parlando: Gargantua è un’abbuffata di contraddizioni e di teorie (o pseudo-tali), è nient’altro che il solito enorme buco nero della fantascienza di serie b, ossia il concetto-limite dove l’illogico è giustificato. Ma Gargantua non riesce a scagionare gli enormi buchi neri della sceneggiatura. La sviolinata finale sull’amore cosmico per “spiegare” l’incommensurabilità della quinta dimensione è assolutamente patetica. Un’aggravante è tentare, ancora una volta, di fondare il film su alcuni colpi ad effetto che purtroppo si intuiscono già a metà. Interstellar si rivela insomma un lavoro di mestiere, ma meno riuscito rispetto alle precedenti operazioni del regista: la sua complessità serve solo a celarne la confusione di fondo e il contrasto è pienamente avvertibile nei dialoghi, costantemente oscillanti fra il cervellotico e il patetico. L’ambizione di trascendere le tre dimensioni dà vita a un film piatto.

Altro elemento utile a comprendere la strategia propagandistica di Nolan – la sopra citata abilità a costruire attorno ai propri film un’aura, in questo caso anche credibilità scientifica – è la tenacia nell’informare lo spettatore che il film ha avuto la supervisione del teorico specializzato Kip Thorne. Ma a noi non ce ne frega niente. Non basta nominare un astrofisico per dare credibilità a una sceneggiatura. Così come non serve citare in continuazione Kubrick per avere una poetica. Non serve chiamare ogni volta in causa lo spettro dell’amore per colmare i vuoti di ciò che non riusciamo a concepire. Il ritratto di Nolan qui emerso sembra quello di un artista a metà: un prestigiatore suggestivo solo finché il suo complicato meccanismo stroppia e ci lascia senza niente in mano. Se non due puntini su un pezzo di carta spiegazzato.

Voto: 4,5

Patrick Martinotta


A quasi cinque anni di distanza da Inception, Christopher Nolan si tuffa ancora una volta nell’insidioso genere fantascientifico, affrontandolo con quelli che ormai sono diventati col tempo i tratti peculiari della sua cifra stilistica, ovvero una sceneggiatura granitica in cui tutti gli elementi si incastrano perfettamente, effetti speciali mozzafiato e una cura particolare nella scelta delle musiche. Paragonato da molti a 2001: Odissea nello spazioInterstellar è in realtà un melodramma che ingloba molti elementi individuati anche in altri film del genere, in particolare in Contact e Signs, ai quali Nolan sembra essersi ispirato soprattutto per la sostanziosa e rilevante presenza della componente emotiva – in particolare, la costante del rapporto padre-figlia; e inoltre la situazione familiare, l’ambientazione “agricola” e la soffusa atmosfera “esoterica” tipica soprattutto di SignsInterstellar mescola così le tematiche scientifiche già incontrate in 2001 (l’evoluzione dell’uomo; l’indeterminatezza del concetto di tempo e la possibilità di viaggiare attraverso più dimensioni) con le forti e a tratti invadenti parentesi emotive che, per forza di cose, diventano il supporto necessario per l’ottenimento di un successo commerciale sempre dichiaratamente inseguito nelle maxi produzioni statunitensi (la costante della gravità che si trasforma nella forza dell’amore, così immutabile e resistente a qualsiasi cambiamento; la geniale rappresentazione dello spazio tempo – incarnato dalla raffigurazione estetica della libreria che si ripete all’infinito – che si esplicita grazie al viaggio all’interno del buco nero, viaggio che diventa inesorabilmente la tangibile proiezione visiva del più affascinante, misterioso, ma anche angosciante trapasso nell’Aldilà). Il sentimento si fonde con la fantascienza, con il chiaro intento di accontentare più palati possibile – siamo lontani dalla freddissima e respingente atmosfera di Inception – e con la piacevole (ma per altri avvilente) sensazione di aver assistito alla versione Bignami, alla riduzione “per principianti” dell’inaccessibile capolavoro di Kubrick, dato che il significato sia “scientifico” che morale del tema trattato emergono grazie anche alla capacità del regista di accompagnare lo spettatore per mano nei meandri di tematiche altrimenti troppo complicate. Nolan si riconferma così il regista chiarificatore,  colui il quale non inventa nulla, ma che chiude tutti cerchi lasciati aperti nei film dai quali attinge avidamente.

Le musiche di Hans Zimmer (candidato all’Oscar) sono semplicemente perfette e conferiscono alla pellicola un’aura solenne che dona ulteriore spessore alla vicenda.

Da vedere.

 Voto: 8,5

Giorgio Mazzola


La sopravvivenza dell’umanità è ormai agli sgoccioli. Solo un’altra generazione ancora potrà probabilmente veder sorgere  l’alba, offuscata da immani tempeste di sabbia che saturano l’aria e minano mortalmente la salute di coloro che ancora resistono. La società, divenuta prettamente agricola, arranca nella costante lotta contro la piaga, che anno dopo anno distrugge i raccolti, portando la popolazione alla fame ed alla morte. In questo contesto Cooper, ex pilota ed ingegnere, lotta come tutti per la sopravvivenza della propria famiglia, ridotta ormai ai due figli ed al suocero.

“Il prossimo anno andrà meglio” è la frase che gli agricoltori si ripetono costantemente, ogni volta che la piaga si accanisce su di una coltivazione, portandoli a dover bruciare il campo. Di  anni però ne restano ben pochi, la fine prossima dell’umanità è presente negli occhi di tutti, che si aggrappano con fede a quel brandello di speme che, come brace sopita, arde nel DNA umano. Non c’è più nulla da fare se non resistere e combattere con le poche armi a disposizione: tenacia e speranza. Ed è la spinta alla sopravvivenza, la spinta dei legami familiari e dell’amore che condurrà Cooper ed altri scienziati oltre le soglie dell’universo conosciuto, attraverso il tempo e lo spazio. Per la salvezza dei propri figli, Cooper si butterà in un’impresa epica e coraggiosa, spinto da quell’amore genitoriale che pone in secondo piano la propria vita. La morte è una possibilità ammissibile, se questo comporterà la salvezza dei propri discendenti e dell’umanità stessa. Ed è lo stesso vincolo d’amore che lo lega alla figlia Murph ( e qui un piccolo accenno alla legge di Murphy in cui tutto ciò che può accadere accadrà) a dargli la forza ed il coraggio necessari  per superare anche i propri limiti.

Qui, presente e passato si fondono, corrono su binari paralleli, si ritorcono su se stessi, ripercorrendo quello stile caro a Nolan.  L’attendibilità  scientifica  di un viaggio attraverso un wormhole diventa verosimilmente plausibile, grazie alla collaborazione del fisico teorico Kip Thorne, senza però dimenticare  che, sempre di fantascienza stiamo parlando! Nolan ci mette di fronte ad una finestra in cui l’orizzonte è immaginabile, forse anche tangibile e probabile. Si corre sul filo del rasoio, fra verità e  finzione. Film molto coinvolgente ed emozionante, dal mio punto di vista, in cui ho potuto respirare, in alcuni punti, l’atmosfera di vecchi film cult. Nessun picco negativo o momento di noia per tutta la sua durata, non breve. L’essere uscita dalla sala di proiezione ed avervi continuato a pensare spesso, anche nei giorni successivi è dimostrazione di non esser un film da sottovalutare.

Voto: 7,5

Laura Cortese


Interstellar ha creato una netta scissione di partito tra chi lo elogia e chi lo critica, diventando in poche settimane un vero e proprio fenomeno mediatico. Matthew McConaughey, fresco di Oscar, è il protagonista tutto d’un pezzo pronto a partire per una missione spaziale che potrebbe salvare gli ormai pochi esseri umani rimasti sul globo terrestre, capace di ammorbidirsi solo quando visiona i videomessaggi dei figli. Anne Hathaway si divide fra la passione per la fisica quantistica e il senso filosofico dell’amore, scegliendo poi (ahimè per lei) quest’ultimo, Jessica Chastain è la rancorosa e risolutrice figlia del protagonista la quale riuscirà a salvare “capra e cavoli” grazie ad un insolito aiuto fornitole dal padre, il veterano Michael Caine è il potente e astuto doppiogiochista ma solo per necessità e infine non poteva mancare il cattivo di turno (in questo caso il matto di turno) interpretato da Matt Damon. Un cast all star interessante ma strano, sperimentale, a tratti un po’ stonato.

Effetti speciali curati, un uso del montaggio soddisfacente e capace di trasmettere adrenalina ed emozionare lo spettatore, così come la fotografia, ma – a mio modesto avviso – non basta per convincere del tutto. Una prima parte con un alone di mistero che invoglia a sapere di più sul destino del nostro pianeta, ormai ridotto a totale deserto, cede il passo a una seconda parte che rischia di appesantire quello che in un film può risultare più difficoltoso realizzare: i dialoghi. Scarni, ridotti all’osso, in totale armonia con l’ambiente (e fino a qui ci siamo), trasformati però in affettati surrogati dei peggiori cliché hollywoodiani, per arrivare verso un finale pienamente in linea col mood di Nolan: onirico e spiazzante ma al limite del grottesco e dell’incredulità, per quanto reso in maniera ottima sul piano tecnico. Un decollo che non mi ha convinto. Né carne né pesce.

Voto: 6-

Francesco Foschini


Diciamolo sinceramente, come tutte le cose che creano grandi aspettative, anche Interstellar conquista, ma non convince del tutto. Centosessantanove minuti che, si rapiscono gli occhi sullo schermo, ma con qualche sbadiglio qua e la’. Non mancherebbe nulla, la regia di Nolan e’ precisa, la trama azzeccata, sviluppata sull’affascinante tema della fisica teorica, gli effetti speciali sono spettacolari, la sceneggiatura regge, ma sopratutto e’ l’interpretazione di attori del calibro di Matthew McConaughey, Michael Caine, Anna Hathaway, Jessica Chastain che danno valore e rilievo a questo scenario. Cos’è che non funziona allora? Il tempo del film.

Una serie di lungaggini che, sicuramente, creano suspance per dei finali che non lasciano poi così tanto senza fiato. E la scelta di un tema così sofisticato, affrontato in passato da altre pellicole, come quello sulla fine del mondo, andava sviluppato con molta più ricercatezza e innovazione. Anche l’amore, che è il collante che muove lo svolgimento del film, porta con se un dramma, quello della separazione e distanza tra un padre e i propri figli per la salvezza del mondo, che non arriva poi così forte e toccante. Al di la delle ulteriori critiche, che si possono sollevare sulle fonti delle teorie fisiche utilizzate da Nolan per articolare il film, la cui veridicità poco interessa, trattandosi di un film di fantascienza. Un vero peccato, data la premessa dei primi trenta minuti della proiezione, che preparano il terreno per un andatura che invece ad un tratto confonde. Interstellar si è rivelato, il classico film americano, botteghino d’incassi, da vedere in quanto spinti dalla curiosità che suscita il nome di grande regista e del suo cast.

Voto: 5

Maritè Salatiello


Tra uomo e natura vi é ormai una sostanziale incompatibilità. Le avverse condizioni climatiche, nonché i frastornanti fenomeni atmosferici, stanno mettendo a dura prova la possibilità per il genere umano di sopravvivere ancora. Quella che nel film Cooper definisce “casa nostra” sembra non avere più le caratteristiche di quell’incostante, ma pur sempre ricco e produttivo, territorio natìo a cui l’essere umano sente, dal momento che la sua vita ha inizio, di appartenere. Quasi inconsapevolmente, egli sviluppa con esso un rapporto strettamente simbiotico che non gli consente, dunque, di immaginare la sua esistenza al di fuori. È proprio questo “fuori” che il film di Nolan cerca di esplorare. Una sofisticata squadra di membri speciali è chiamata a trovare, al di fuori della “nostra” galassia, un plausibile altrove in cui mettere nuove radici e prosperare di nuovo. La missione viene definitiva, appunto, Lazzaro in riferimento alla rinascita e alla nuova consapevolezza che essa si propone di raggiungere.

Oltre il sottile involucro rappresentato dall’astronave non c’é niente. Non esiste nulla che, come dichiara Romilly durante il viaggio verso il Worm Hole, non lo ucciderebbe all’istante. Cooper, in quest’occasione, fa riferimento alla medesima condizione che affligge anche i più grandi navigatori. Se durante un’esplorazione essi cadessero in acqua, morirebbero. Proprio come lo spazio, l’acqua si può dire non abbia una forma predefinità, se l’esploratore ci cadesse dentro, non potrebbe più esercitare alcun controllo, non gli sarebbe possibile respirare autonomamente e potrebbe non riuscire a riaffiorare mai più, perdendosi definitivamente. Cooper e la sua squadra sono loro stessi esploratori, stanno eseguendo una missione importante, il cui destino é indissolubilmente legato al loro e a quello di qualunque altro essere vivente sulla Terra. Quella é la loro barca.

La messa in scena del film richiama una miriade di luoghi sconosciuti facenti parte di una dimensione che potremmo definire ignota. In quanto esseri umani, noi non siamo di fatto a conoscenza di cosa esista oltre un certo limite del nostro sistema solare. La nostra galassia é il limite massimo. Nolan, con il suo film, ci spinge verso una dimensione sulla quale non saremmo nemmeno in grado di fantasticare e in cui ci troviamo completamente spaesati, vittime di un turbinio di emozioni ed ambientazioni surreali in cui niente é come ci aspetteremmo. La dimensione dello spazio e quella del tempo sono fortemente stravolte ed esercitano sui personaggi, quanto sugli spettatori, un effetto spesso straniante. Siamo accompagnati, con non poca fatica, attraverso repentini slittamenti che più personaggi vivono nel contempo rispetto ad altri. Cerchiamo di prendere le misure in un mondo in cui è presente solo un’infinita distesa d’acqua in grado di generare onde enormi capaci quasi di toccare il cielo o, ancora, sorvoliamo i cieli di un mondo le cui nuvole sono solide, congelate. Inconsciamente, proviamo un’inspiegabile fascinazione per lo spettacolo di quell’improbabile ed indomabile evento naturale che vediamo formarsi davanti ai nostri occhi ma, allo stesso tempo, siamo anche fortemente spaventati dalla minaccia che questo potrebbe comportare. Sono mondi fantastici quelli che Nolan ci porta a vedere e lo sono in modo particolare perché (come per ogni fantasia filmica) non possediamo una prova tangibile della loro esistenza ma, in questo caso, non siamo nemmeno portati a negarla categoricamente.

Similmente all’ambientazione dei pianeti visitati e alla incoerente dimensione temporale che scombussola i nostri nessi causali, Cooper si risveglia in un futuro che non potremmo mai riconoscere. La vita non é più la sua fattoria e la sua piantagione di mais (dimensione che riconosciamo antiquata anche secondo i nostri criteri iniziali) ma ci troviamo, per la prima volta, in un futuro aldilà di ogni immaginazione in cui le condizioni climatiche sono predeterminate e favorevolissime, la vita prospera vigorosamente e, grazie alla nuova tecnologia, esiste un modo per spostare l’intera comunità verso pianeti fino ad allora sconosciuti. Il motore della narrazione (come ci é dato riconoscere più avanti) é il legame affettivo che le persone sono in grado di instaurare tra di loro. Inizialmente questa condizione viene percepita come una debolezza, un ostacolo alla buona riuscita della missione e ritenuta, perciò, motivo di esclusione da questa. Successivamente, però, capiamo come sia proprio grazie a questo legame invisibile che diviene possibile per l’essere umano elevarsi al di sopra di quegli inconcepibili luoghi costituiti da parametri che la nostra mente non é, ancora, in grado di capire.

Durante il viaggio nel tempo che Cooper compie passando attraverso Gargantua (il profondo buco nero, detentore della grande verità), il legame d’amore rimasto sempre vivo e presente che lo collega alla figlia Murph permetterà ai due di comunicare ad un livello particolarmente intimo e profondo. Queste preziose informazioni, che permetteranno alla giovane donna di salvare il mondo, le vengono riportate da un luogo di cui non possediamo il minimo riferimento e che facciamo fatica, sia con lo sguardo che con il cervello, a visualizzare e a codificare. Solamente Murph dunque, essere superiore e possessore di una sensibilità unica, sarà in grado di riconoscere e sfruttare questi dati perché capace di superare la rabbia provata verso il padre (conseguentemente al suo abbandono) al fine di riconoscerne il messaggio sul quadrante dell’orologio lasciatole da lui, rappresentante fisico del loro legame. Come dice Amelia, l’amore non é una cosa che abbiamo inventato noi. Esso trascende dallo spazio, dal tempo, non é misurabile. Dovremmo fidarci anche se non riusciamo a capire.

Voto: 8

Cristina Malpasso


Tanti attoroni del momento come l’onnipresente Matthew McCounaughey,  le bellissime Anne Hathaway e Jessica Chastain, il sempre bravo Michael Caine, il fratellino minore di casa di Affleck e Matt Damon al servizio di un film con un budget stratosferico confezionato per puntare dritto all’Oscar, fomentare l’orda di Nolan-maniaci e soprattutto appagare l’ego smisurato di quel regista che mi piace definire come un Michael Bay più filosofico, colto e raffinato… o se preferite più paraculo, furbo e ipocrita. La trama, per quanto condita bene con una serie di spiegazioni scientifiche ed epistemologiche menate, è di una banalità sconcertante: il nostro pianeta sta morendo e tutta la popolazione della Terra è in pericolo, urge al più presto una soluzione. Un ex pilota della NASA viene arruolato per una missione pericolosissima che lo terrà a lungo lontano dai suoi amati figli.

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Se non fosse già stato bollato come capolavoro dell’ultimo decennio ancora prima che uscisse nelle sale, paragonato a 2001 Odissea nello Spazio (ma stiamo scherzando!) e Christopher Nolan  innalzato a nuovo Dio, mi sarei limitata a definire il film come una buona americanata, di quelle che trasudano morale e perbenismo ad ogni inquadratura, senza però mancare per questo di emozionare. Insomma un buon prodotto hollywoodiano, ben fatto e con qualche tamarrata che di certo in questi casi non guasta. Il problema però è che qui non si sta parlando di Armageddon, non c’è di mezzo uno stupido meteorite che sta per colpire la Terra, il cinema di Nolan deve essere molto più cervellotico e profondo e la sua presunzione tale da condurlo ad imbastire storie che pretendono di diventare vere e proprie tesi scientifiche. La volontà di essere macchinoso come Inception si traduce in pochi passaggi complessi, che si richiedono un po’ più di attenzione, ma più che fonderti il cervello intaccano la profondità dei personaggi. Cooper interpretato da Matthew McConaughey è un padre che ama i suoi figli, ma li abbandona con estrema facilità dopo che un illustre professore della NASA gli racconta due cose su una missione per salvare la Terra. Lui era il miglior pilota in circolazione, non importa se da anni fa l’agricoltore e non ha la preparazione atletica per affrontare una spedizione simile, lui è figo e parte comunque! Amelia Brand è la figlia del boss, ha il visuccio carino di Anne Hathaway, una qualche super laurea in ingegneria o simili e anche se avrà finito l’università da tre ore,  pure lei è figa e parte comunque!

Se Interstellar lo si prende come un giocattolone che ha come suo unico scopo quello di divertire sono io la prima ad urlare al capolavoro, purtroppo però il film vuole andare oltre pescando tra le teorie dei viaggio spazio-temporali per farne una questione morale e parlare di rapporti umani. Nolan ha puntato troppo in alto giocando con i grandi, quelli troppo più grandi di lui scomodando persino Stanley Kubrick e prendendo qua e là da tutta la cinematografia di fantascienza. Allora non ci sto, non mi basta la vecchia storia del fogliettino piegato per spiegare la teoria dei buchi neri per andare da A a B senza la dimensione tempo, se mi tiri il pippone pseudoscientifico esigo che a salvare la Terra non sia un agricoltore e una di 30 chili ma due scienziati veri, addestrati per anni solo per quella missione. Se mi filosofeggi su questioni legate all’umanità e al rapporto padre e figlio non ti credo se mi propini la solita storia dell’amore più forte della scienza.

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Un film in bilico tra il voler essere visivamente grandioso, dove la potenza dell’immagine riempie tutte le lacune narrative, e il voler essere macchinoso ad ogni costo fondendo alle teorie scientifiche le questioni proprie della morale. La storia dell’amore che vince su tutto toglie credibilità ai comportamenti dei personaggi ed è una tesi troppo debole per giustificare una frase come: “Perché mi guida l’unica forza che trascende il tempo, lo spazio e la gravità: l’amore”. Non è un capolavoro è solo un film di fantascienza godibilissimo con dei bellissimi effetti speciali (siamo nel 2014…magari lo diamo per scontato!) e come tale va preso.

Voto: 6

Cinefabis


 

VOTI

Patrick Martinotta: 4,5

Giuseppe Argentieri: 8

Giancarlo Grossi: 6,5

Giorgio Mazzola: 8,5

Laura Cortese: 7,5

Francesco Foschini: 6-

Maritè Salatiello: 5

Cristina Malpasso: 8

Cinefabis: 6

Angelo Grossi: 4

NYMPH()MANIAC

Regia: Lars von Trier

Sceneggiatura: Lars von Trier

Anno: 2014

Durata: 123′

Produzione: Danimarca, Germania, Gran Bretagna, Belgio

Fotografia: Manuel Alberto Claro

Montaggio: Molly Marlene Stensgaard

Scenografia: Simone Grau

Costumi: Manon Rasmussen

Effetti speciali: Erik Zumklev

InterpretiCharlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård, Stacy Martin, Shia LaBeouf, Uma Thurman, Christian Slater, Willem Dafoe

TRAMA

Una ninfomaniaca, trovata da un uomo in un vicolo dopo una violenza, racconta le proprie esperienze erotiche, dall’infanzia fino ai cinquant’anni.

RECENSIONI

Mentre sta rientrando a casa, il vecchio Seligman (Stellan Skarsgard) si imbatte nel corpo di una donna (Charlotte Gainsbourg) accasciata per terra in un vicolo. I suoi vestiti sono sporchi e il viso presenta alcune ferite. Il vecchio decide quindi di portarla in casa sua per darle i primi soccorsi. Al suo risveglio, Joe (così si chiama la donna) decide di spiegare all’uomo come ha fatto a ritrovarsi in quel luogo e in quello stato. Inizia così a raccontare la storia della sua vita, dall’infanzia fino a quel momento. Un racconto diviso in otto capitoli, ognuno con un titolo diverso, ma tutti con lo stesso comune denominatore legato all’importanza cruciale del sesso nella vita di Joe. La donna, infatti, si autodefinisce ninfomane, una condizione che in un modo o nell’altro ha segnato con avvilente puntualità i picchi e le cadute nella sua esistenza.

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Presentato in due parti, proiettate al cinema a qualche giorno di distanza l’una dall’altra, Nymphomaniac chiude la trilogia della depressione, comprendente anche Antichrist (2009) e Melancholia (2011). Von Trier torna alla tanto cara narrazione in capitoli, mettendo in scena forse uno dei suoi lavori più intensi e complessi di tutta la sua filmografia recente. Di Nymphomaniac si è parlato moltissimo, troppo, soprattutto prima dell’uscita ufficiale. Al centro di tutto c’è stata l’occasione ghiottissima di sollevare un polverone mediatico, grazie a un titolo, a una locandina e a un trailer (anzi due: uno soft e uno hard, tanto per stuzzicare ancora di più l’immaginazione, creando altre  aspettative) che non lasciavano granché all’interpretazione. Ma poi è arrivato il film.

Inutile dire che il sesso è al centro di tutto. D’altronde si sta parlando della vita di una ninfomane e delle sue esperienze, dall’infanzia fino all’età di cinquant’anni. Nonostante tutto, però, Von Trier riesce a menare lo spettatore per il naso, trascinandolo nei meandri di quello che in realtà è un film altro. Perché di sesso ce n’è tanto, ma non è lì che va cercato il fulcro dell’intero lavoro. Il sesso in Nymphomaniac è un mezzo, uno strumento attraverso cui il regista mette in scena una realtà parallela. Troppo facile? Forse, ma non credo che sia stata una conclusione tanto comune tra coloro i quali hanno assistito a questo glaciale spettacolo della carne. Se paragonassimo questo film a un viaggio in macchina il sesso non sarebbe l’autista, ma l’automobile.

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Quindi è inutile perdere tempo e energie a farsi sconvolgere dalle scene esplicite (o a fare i puristi, condannando la solita, bigotta censura che costringe a il mercato a distribuire una versione ridotta del film – sono tra quelli, lo ammetto). Non c’entra nulla. Sarebbe come dare la colpa all’automobile per la scelta sbagliata della meta. Il sesso è il tramite, uno splendido e a tratti catartico tramite attraverso cui Von Trier riflette sulla società, l’arte e la condizione umana contemporanea. Una riflessione che parte da lontano, da quell’inconsistenza insopportabile che pervadeva l’atmosfera in Melancholia e che finalmente sembra aver trovato una dimensione, una forma definita in quest’ultimo lavoro, nascosta tra le pieghe di quella che a tanti sarà sembrata un’ evitabilissima fiera di genitali e bocche in movimento. Cos’è dunque Nymphomaniac? Un film sul sesso? Sì. Un film erotico? Assolutamente no. Nymphomaniac è l’antierotismo per eccellenza. Non aggiunge sensazioni, non mette carne al fuoco. Nymphomaniac non mette in scena un crescendo emotivo che trova il suo bollente culmine nell’esplosione dell’amplesso.

Nymphomaniac è soprattutto un film di sottrazioni, di privazioni. È la storia di una fiamma che si spegne, senza speranza e senza un perché. Il sesso è un animale vivo, è qualcosa che aspira, che mangia che si nutre delle vite dei protagonisti e non lascia nulla dietro di sé.  È una storia di sottrazioni perpetuata attraverso i ripetuti atti sessuali che svuotano i protagonisti di ogni loro bene spirituale e materiale: il sesso priva Joe di una vita normale e ben presto le ruberà anche il piacere derivante dalla copula, ovvero l’unica ragione di quella sua vita “anormale” fatta di schiavitù carnale (il volume 1 termina con lei che in lacrime sussurra spaventata: “Non sento niente”). Il sesso priva Jerome della sua dignità, costringendolo ad ammettere di non poter soddisfare da solo Joe; e priva il vecchio Seligman della sua integrità, della sua figura eterea, del suo ruolo di contatto tra un mondo infernale e un altro talmente asettico da sembrare asfittico – ovvero la sua dimensione di uomo a-sessuale che lo obbliga a trovare immagini sempre nuove e sempre molto “normali” da poter associare ai racconti allucinanti di Joe e farli così diventare i titoli dei capitoli.

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Il sesso diventa quindi il togliere, l’estirpare, il soffocare. Svuotamento, ma anche paura dello svuotamento, la stessa paura che prova il passeggero del treno a cui una giovane Joe pratica una fellatio, un rapporto orale che significaprivarlo del seme che deve essere preservato per la fecondazione dell’ovulo di sua moglie –  un bambino che salvi il matrimonio, che tenga a freno la paura di perdere tutto in una traduzione perfetta del non-amore. Ogni capitolo è legato a un oggetto, a un concetto, a un’immagine, a un’idea che in un modo o nell’altro si mostra come un divertente ossimoro rispetto alla situazione che va a descrivere poco dopo, facendo tenere al film un curioso andamento sinusoidale. I nomi dei capitoli rappresentano l’esigenza da parte di Seligman di dare una forma a quello che Joe racconta, un’esigenza che nasce perché ciò che racconta la donna diventa ai suoi occhi inconsistente, incomprensibile, non incasellabile per un uomo come lui che non ha mai provato alcun desiderio sessuale. Seligman ascolta la storia di una donna che, sottrazione dopo sottrazione, perde la verginità, la madre, il padre, il marito, il figlio, l’amante e infine il suo posto nel mondo. Lui si ritrova ad essere l’unica cosa che le rimane, il suo unico amico. Eppure il sesso torna per mietere un’altra vittima e continua la sua opera di privazione, sottraendo stavolta al pubblico l’unico personaggio “normale” all’interno di quel turbine di sensazioni estreme.

L’ultimo della lista è proprio Seligman, l’unico che all’interno del film, incarnando una vera e propria accumulazione di nozioni enciclopediche, rappresentava un triste eppure anche rassicurante tutto che in qualche modo teneva testa allo svuotamento di ogni cosa da parte del sesso, contrapponendosi alla sua furia devastatrice. Un tutto che però risulta vuoto, inanimato, senza forza. Un accumulo senza significato che lo spinge a stravolgere la sua esistenza, tentando di costringere Joe a fare sesso con lui nel macabro e grottesco finale (vero punto debole della pellicola) e diventando così suo malgrado il simbolo dell’ultima ed estrema sottrazione del film, ovvero la privazione della vita altrui attraverso l’omicidio, da parte di Joe, condannata a rimanere sola.

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Von Trier firma un film bellissimo nella sua agghiacciante verosimiglianza, componendo una vera e propria sinfonia di valori al contrario (esemplare lo splendido Episodio 5: La scuola di Organo) che tende al minimo, all’essenzialità della questione. Il Dogma 95 applicato ai contenuti anziché al setting, forse per la prima volta nella sua carriera.

Voto: 8

Giorgio Mazzola di Club Ghost


“Se avessi voluto fare un vero film di sesso avrei filmato un fiore che ne impollina un altro. Per la migliore storia d’amore bastano due uccellini in gabbia”. [Andy Warhol]

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Infastidito da Antichrist e commosso da Malincholia, mi sono avvicinato a Nymph()maniac, come tutti, con una certa curiosità e molto sospetto. La difficoltà di distinguere il confine preciso tra operazione cinematografica e quella commerciale risiede nell’astuzia propagandistica di von Trier di presentare il film come un porno – conscio che si tratta del genere “peggio girato ma anche il più visto” – generando un approccio e un filtro di lettura volutamente superficiale, in grado di giocare con la fruizione dello spettatore, contaminandone a priori la purezza visiva. Costretti, per volontà dell’autore, a partire da tale questione, si deve sottolineare come, ovviamente, in realtà si porno non si tratti; a meno che non si estenda tale concetto fino a fargli abbracciare l’intera opera di von Trier, in virtù della propria natura espositiva, della sua misoginia e dolcezza, sensibilità e violenza, della capacità di stimolare il pubblico fino a farlo impazzire, a provare dolore o a lasciarlo inerte. In questo senso gli elementi pornografici di Nymph()maniac risiedono in una tendenza alla spettacolarizzazione debordante, insomma all’eccesso, alla prolissità, alla noia, all’ironia a volte inconsapevole e altre volte troppo consapevole.

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Nymph()maniac non è un porno ma casomai la sua antitesi, è un film quasi moralista e puritano, al punto che nelle scene di sesso si deve ricorrere alle controfigure o al digitale. Là il sottofondo narrativo è il mero pretesto oppure, nei migliori casi, l’attimo di pausa e di respiro che prepara un nuovo atto sessuale; qui le scene di sesso sono solo il contrappunto per definire il ritmo della tensione psicologica in cui consiste il film. Nymph()maniac non è una scopata fra due soggetti che si espongono l’uno all’altro, ma un’interminabile seduta psichiatrica fra due maschere che si nascondono reciprocamente: alla fine del percorso si svela semplicemente l’assenza di una cura; la nostra ninfa non esce dall’abisso. Ma l’impossibilità di sanare la frattura interiore sembra esibita più che altro dall’incapacità di von Trier di colmare la distanza con lo spettatore, che fa di tutto per stuzzicare, scandalizzare o addirittura violentare intellettualmente, ma che alla fine è lasciato insoddisfatto.

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Nymph()maniac è un nuovo tentativo da parte del regista di approcciare il tema dell’angoscia e della solitudine, che attraversa e muove la sua intera opera. Tale riflessione sull’uomo diventa quindi per von Trier una riflessione sul cinema, ma sempre, in maniera egocentrica, sul proprio cinema: i diversi richiami ai lavori precedenti – su tutti la scena del bambino che viene recuperato dal padre prima che si getti dalla finestra (ma è troppo tardi per lo spettatore che si è già sorbito Antichrist) – non rappresentano però nient’altro, in fin dei conti, che l’ennesimo gratuito divertissement. Il cinema di von Trier sembra mosso da un unico dogma: che non vi sia riflessione senza provocazione. La forza e la debolezza del suo lavoro risiede in questo delicato intervallo in cui la provocazione non diventa offesa gratuita (5+3?) per lo spettatore ma suo strumento di piacere. Alcune scene di Nymph()maniac, se prese nella loro purezza visionaria e giocosa, riescono pregevolmente a creare complicità con lo spettatore, ad esempio nel bellissimo elogio all’essenza poligamica dell’amore tramite la polifonia Ich Ruf Zu Dir, Herr Jesu Christ di Bach. Eppure, nel suo complesso, gli elementi narrativi di Nymph()maniac – a partire dai pesanti dialoghi, più letterari che cinematografici – si rivelano presuntuosi e convenzionali proprio nei momenti in cui vorrebbero essere più profondi o geniali (i vari richiami blasfemi o a giochini matematici); alcune scene potenti non possono giustificare un film di quattro ore. Dopo tanta fatica, un coito interrotto che non può che lasciare delusi.

Voto: 5

Patrick Martinotta


 

Dopo Antichrist (2009) e Melancholia (2012), quella che, non a torto, molti critici hanno individuato come una trilogia (spesso definita la “trilogia della depressione”), confluisce nell’ opera che delle tre è la più totale e importante, ma anche la più ironica e sfuggente, questo monumentale Nymph()maniac che rende sempre più palese quanto il percorso del mercuriale cineasta danese sia uno dei pochi degni eredi, pur in modo estremamente parodico e post-moderno, degli approcci moderni e spirituali di cineasti come Ingmar Bergman o Andrej Tarkovskij. In questo capitolo della sua opera è evidente come von Trier abbia firmato davvero la sua personalissima trilogia sul silenzio di Dio. Parente degenere di quella che in Bergman era composta da “Luci d’ inverno”, “Come in uno specchio” e “Il silenzio”, la trilogia sulla depressione nasce dal presupposto di inquadrare una realtà in cui è venuta meno qualsiasi possibilità di trovare una sintesi che possa ricomporre la frammentazione del reale e facilitare una ricerca di senso, tema certo non nuovo ma che in questo caso trova un’espressione originalissima e profondamente calata nella nostra contemporaneità.

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Come di solito avviene con il regista danese, chi cercherà nelle provocazioni più gridate il centro del film verrà abilmente sviato dalla possibilità di coglierne un senso compiuto. Infatti lo sberleffo principale del film è quello di presentarsi programmaticamente come un’opera superficiale che,  nella forma di una grande confessione-psicanalisi e di una ricerca proustiana di sé attraverso la ricostruzione del passato (non a caso costellata da oggetti che assumono una posizione centrale) della ninfomane Joe, non fa nulla per illuminare le ragioni profonde della dipendenza, né per comprendere il fil rouge che lega i frammenti sparsi dell’ esperienza umana della donna.

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I vari oggetti presenti nella casa monacale del confessore Seligman, che forniscono lo spunto per dare il titolo ai capitoli in cui il film è “frammentato”, dovrebbero contenere ognuno un concetto che, attraverso le continue digressioni  (che in modo enciclopedico toccano i temi più svariati, dalla pesca allo scisma d’oriente, passando per la polifonia di Bach), possa illuminare maggiormente le origini profonde dei comportamenti della donna, e trovare il centro che li lega, in poche parole rimettere insieme l’io frammentato di Joe. Nel vedere il film è difficile che uno spettatore non vada alla ricerca del collegamento tra queste suggestioni culturali e l’esperienza della donna, anzi sembra caldamente invitato a cercarlo. Questa ricerca è però destinata alla frustrazione, perché quella che invece il film ci mostra è una vera e propria anti-confessione in cui gli estenuanti rimandi e le infinite nozioni della cultura enciclopedica (e snob, infatti ignora Ian Fleming) di Seligman rimangono fini a sé stessi e superficiali, non illuminati da nessun vero collegamento con l’esperienza di Joe, né a loro volta illuminanti. Non a caso per la maggior parte si tratta di oggetti estranei alla vita di Joe (non tutti: fa eccezione il dolce ebraico) e presi in considerazione in modo casuale, in modo tale che le riflessioni sterili di Seligman emergono da essi con la caoticità di dei pop-up internettiani.

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 Con squisito senso parodico da parte del regista (e l’oggetto della parodia in questo caso è  a parere di chi scrive soprattutto certo cinema di Peter Greenaway, come reso evidente dall’uso di sovraimpressioni e di scomposizioni dell’inquadratura), i rimandi appesantiscono ulteriormente il senso di frammentazione di Joe, depistandola continuamente dalla possibilità di costruire una riflessione sui vari pezzi della sua vita. E’ questa estorsione da parte di Seligman (personaggio apparentemente luminoso e positivo, la cui ambiguità è abilmente nascosta) il vero atto sadico al centro del film. Così da spettatori ci viene continuamente negata la possibilità di capire l’origine delle azioni di Joe, e il centro che le lega, esattamente perché è negata alla stessa protagonista. In questo senso è centralissimo e magistrale l’episodio sulla moglie tradita, Mrs. H, interpretata da Uma Thurman, l’unico momento del film che spinge Joe a fare i conti con il centro delle sue azioni arbitrarie, occasione di una catarsi tragica che poi si dimostra  freddamente mancata.

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E’ proprio nella sua programmatica superficialità e freddezza, nonché in questi rimandi fini a sé stessi (in che modo il discorso  sulla chiesa d’oriente e quella di occidente rende più comprensibile il perché del masochismo di Joe?), nella piattezza di personaggi che sembrano essere solo l’insieme delle loro azioni , senza una personalità che le leghi (sfido a trovare spessore nel personaggio dell’”unico amato” Jerôme o nel sadico K), che risiede il senso dell’operazione parodica compiuta da von Trier. Il film, sposando il punto di vista di una narratrice intradiegetica che, proprio perché non riesce a ricomporsi e a capire il suo passato, è condannata a osservarlo attraverso una lente che lo appiattisce e lo priva di senso, rendendolo un insieme di parentesi privi di una frase principale che le tenga insieme (questo è a mio parere il senso, oltre quello più ampiamente sottolineato, della trascrizione del titolo del film), spinge a riflettere sulla frammentazione profonda della nostra contemporaneità, dove la conoscenza, per lo più di matrice enciclopedicamente internettiana, assume la forma di un’ accozzaglia di informazioni superflue che, rimanendo scollegate tra loro, costituiscono un ostacolo alla ricerca della verità su sé stessi, e dove la difficoltà sempre più grande di ricostruire il passato condanna alla sua reiterazione (da cui la dipendenza) e ad una sete perennemente insoddisfatta (qui simboleggiata dall’impossibilità di raggiungere l’ orgasmo).

In questo senso Nymph()maniac è davvero un film che mette il dito nella piaga sul nostro presente, nonché l’apice della pars destruens dell’opus vontrieriano rappresentata dall’ ultima trilogia, venuta molto dopo la part construens della trilogia “cristica” de Le Onde del Destino (a oggi a mio parere il capolavoro assoluto del danese), Idioti e Dancer in the Dark. Ed è un apice dopo il quale diventa molto difficile prevedere quali altri sassolini Lars von Trier debba ancora togliersi dalle scarpe.

Voto: 9

Angelo Grossi


I. LVT non è semplicemente uno che fa film, ma un pensatore e un teologo con una precisa idea del mondo. Qual è questa idea? Sarebbe sufficiente immaginare una divinità malvagia che gioca con le sue creature impunemente, dando loro a credere di essere libere mentre il loro destino dipende in larga parte non dalle loro scelte, ma dal caso, dalle coincidenze, dai loro incontrollabili impulsi, o meglio: dalle inclinazioni della suddetta divinità. Semplificando: non è esattamente così che LVT stesso, in quanto regista e sceneggiatore, si comporta con le sue stesse creature? Sottoponendole alla tortura di una trama di cui sono partecipanti passivi, vittime e non attori. Anche in questo caso, ma non è un caso unico nella sua cinematografia, la protagonista, Joe, non ha nessun ruolo nella propria crescita spirituale: il suo preteso vitalismo (Perhaps the only difference between me and other people is that I’ve always demanded more from the sunset. More spectacular colors when the sun hit the horizon. That’s perhaps my only sin) non giunge mai a una piena autoconsapevolezza, la sua vita oscilla dall’estasi alla tragedia senza che lei abbia mai la possibilità concreta di influenzare tale oscillazione. Perché il suo dio (LVT) non l’ha dotata di questa facoltà, ma solo di un perenne, insopprimibile e incomprensibile senso di colpa.

II. Come al solito, hanno detto che questo è un film maschilista. Ma ho letto anche il contrario. Di certo, è un’opera consapevole del differente apprezzamento con il quale comunemente giudichiamo il desiderio sessuale maschile e il desiderio femminile. Del primo dimentichiamo facilmente la meschinità, del secondo impossibile sottrarsi alla tentazione di considerarlo patologico. Ma una diversa considerazione del sesso, ne cambierebbe forse la natura? Impossibile. Il sesso è solo un’altra prova dell’inesistenza di Dio (di un Dio che non sia, appunto, ‘malvagio’). Nessuno di noi è buono, nessuno di noi è libero, nulla di tutto quello che facciamo ha senso, perché nulla sposta di una virgola l’essenza delle cose. Eppure, questo non ci esime dal senso di colpa, dalla responsabilità della felicità che ci manca, della libertà che non abbiamo. Di questo, il sesso, nella insignificante coazione a ripetere, non è che un’immagine perfetta.

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III. Ovviamente il sesso è un pretesto. Certo, ce n’è, ma è il veicolo del messaggio, non il fine: ecco perché è realistico, ma non veritiero, nella misura in cui a interpretarlo non sono gli attori di cui conosciamo volto e nome, ma anonime controfigure. Si tratta di un amo per attirarci e per mostrarci quanto facilmente sia possibile plagiarci. Perché se LVT avesse mostrato le vere celebrità nell’atto di fare sesso, avremmo smesso di guardare il film e cominciato a concentrarci sull’anatomia di Shia Le Beouf, di Stacy Martin… O no? Perché il sesso non deve distrarre dal senso della storia, che è un altro: ovvero una nuova declinazione del tormento interiore di un regista, che non smette mai di parlarci di sé anche quando ci parla di altro, della sua lotta contro la sofferenza, contro la tristezza, contro ‘l’evidenza della cosa terribile’. Fare film non è altro che questo forse, e come la scrittura: cura chi la produce, ma non chi ne usufruisce. Non c’è catarsi per noi, non è possibile uscire dal cinema rigenerati. Tocca a noi immaginare, se possibile, un mondo diverso.

Voto: 8

Giuseppe Argentieri


 VOTI

Patrick Martinotta: 5

Giuseppe Argentieri: 8

Angelo Grossi: 9

Giorgio Mazzola: 8

LA GRANDE BELLEZZA

Regia: Paolo Sorrentino

Soggetto: Paolo Sorrentino

Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello

Anno: 2013

Durata: 142′

Produzione: Italia/Francia

Casa di produzione: Indigo Film, Medusa Film, Babe Films, Pathé

Fotografia: Luca Bigazzi

Montaggio: Cristiano Travaglioli

Scenografia: Stefania Cella

Costumi: Daniela Ciancio

Colonna sonora: Lele Marchitelli

Interpreti: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Iaia Forte, Carlo  Buccirosso, Pamela Villoresi, Isabella Ferrari

TRAMA

Jep Gambardella, affascinante giornalista e scrittore, “primo fra i mondani” della vita notturna di Roma, il giorno del suo sessantacinquesimo compleanno comincia una malinconica riflessione sulla sua vita e sul mondo che lo circonda, per cercare, fra le maglie di un paesaggio vuoto e assurdo, il barlume di una speranza e di una Grande Bellezza.

RECENSIONI

A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: “La fessa”. Io, invece, rispondevo: “L’odore delle case dei vecchi”. La domanda era: “Che cosa ti piace di più veramente nella vita?”

La grande bellezza

Basandoci, per pigrizia, sul confronto con Fellini, porrei in secondo piano l’immediato richiamo alla Dolce vita per affermare casomai un parallelismo con E la nave va, altro film barocco e inevitabilmente noioso, ma capace di esprimere perfettamente l’impossibilità di raccontare il niente. Non la decadenza di Roma e dell’Italia sembrano essere l’oggetto de La grande bellezza, ma il tempo perduto, la vecchiaia e il suo disincanto. La città eterna, orgogliosamente chiusa nella prigione del proprio passato e nell’immobilismo dei suoi monumenti, diventa protagonista in quanto dimensione spaziale esemplare per rappresentare l’idea di tramonto. Ma la Roma di Sorrentino diventa una città da cartolina, non meno goffa e caricaturale di quella del Woody Allen di To Rome with Love, col suo corteo di personaggi-macchiette. Ben lontano dalla poetica metafisica di Fellini, lo stile di Sorrentino si rifugia nel grottesco: la sua indiscussa abilità tecnica finisce con l’infastidire, scivolando troppo spesso in leziosismi e prolissità alla peggior Terrence Malick, con sarcasmo saccente (travestito da sagace ironia) e monologhi autocompiaciuti (mascherati da brillanti dialoghi). Finisce tutto così, a questo niente, nascosto sotto il chiacchiericcio e il bla bla bla.

Voto: 4

Patrick Martinotta 


I. Nella GB non c’è una trama vera e propria (in realtà c’è), ma una serie di personaggi che ruotano attorno al protagonista, Jep Gambardella, uno scrittore in disarmo che immaginiamo ricchissimo, e che ama girovagare per Roma, come un flaneur d’altri tempi. Le sue passeggiate, accompagnate da una colonna sonora magistrale, sono i momenti migliori del film; lasciando libera l’immaginazione si riesce a sognare in compagnia di quest’uomo, che ha eretto a condizione universale la sua solitudine e la sua tristezza.

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II. Jep non è un nichilista, come in molti hanno sottolineato, ma un cinico, che cerca di resistere all’attrazione gravitazionale del cinismo contemporaneo. Che differenza c’è tra nichilismo e cinismo? Una differenza piccola, questa: se il nichilista non crede in niente (e in questo senso lo siamo stati tutti almeno per un momento), il cinico crede nelle piccole cose: non esistono (più) grandi ideali liberatori (l’amore, la libertà, …), ma per converso non esistono (più) neanche grandi tragedie (soffriamo tutti, chi più chi meno: non c’è nulla di notevole in questo). Il cinico crede nelle cose minute, come le strategie e giochi di prestigio, alle quali s’affida per sopravvivere. Nei momenti migliori di questo film, troviamo un protagonista che aspira a credere in qualcosa di più grande, che aspira a tenere viva la fiamma dell’illusione che ci possa essere qualcosa di preferibile all’arido quotidiano, fatto di piccole cose miserabili, ma cosa? Bisogna vedere il film per saperlo, e arrivare fino alla fine. Nei momenti peggiori, invece, Jep cede al costume contemporaneo, volendo schiacciare gli altri alla misura della propria mediocrità (l’artista simil Abramovic, la scrittrice impegnata, ecc.). Questo è un limite enorme.

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III. Molti hanno amato e odiato questo film per gli stessi motivi: l’apparente inafferrabilità del suo significato. C’è chi ha un gusto per l’ambiguità (e tutto sommato non ama ragionare sul senso dei film), e c’è chi invece odia la noia e ama divertirsi, e ha dunque bisogno di un filo da seguire, di una storia che appassioni o diverta. In entrambi i casi si perde qualcosa di questo film, che ha al suo centro un’idea forte, che è quella della bellezza – della sua inafferrabilità, della sua estrema fuggevolezza – attorno alla quale ruotano le storie, le immagini, le musiche e tutte le chiacchiere che sentiamo dall’inizio alla fine. Nei suoi momenti migliori questo film lascia credere che sia possibile a tutti, almeno una volta, partecipare di questa bellezza, incarnata in un incontro in una persona in un amore, e che questo possa durare e dare senso, l’unico senso possibile, alla vita, nei suoi momenti peggiori, invece, il film sembra implicare che non c’è significato possibile se non nel ricordo, e che dunque ci sia, in fondo, sempre preclusa la possibilità di una vita felice e significativa. La felicità è impossibile, perché se la viviamo non sappiamo dirla, e riusciamo a dirla solo quando è finita. Non c’è nulla di universale in questa declinazione cinica dell’esistenza. Solo una forma di stanchezza del pensiero, alla quale siamo facilmente proni, oggi. Un film, per esempio, non è una piccola cosa.

Voto: 8

Giuseppe Argentieri


 

VOTI

Patrick Martinotta: 4

Giuseppe Argentieri: 8