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12 ANNI SCHIAVO

Regia: Steve McQueen

Sceneggiatura: John Ridley

Titolo originale: 12 years a slave

Anno: 2013

Durata: 134’

Nazione: USA

Fotografia: Sean Bobbitt

Montaggio: Joe Walker

Musiche: Hans Zimmer

Interpreti: Chiwetel Ejiofor, Lupita Nyong’o, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Giamatti, Brad Pitt.

TRAMA

America, 1841. La storia vera del violinista  Solomon Northup, uomo di colore nato libero che vive a New York nell’epoca che precede la guerra di Secessione. Raggiunta una certa posizione di agiatezza e la serenità in famiglia, Salomon conosce solo per sentito dire la condizione della schiavitù. Finché un giorno…

RECENSIONE

Il regista britannico Steve McQueen (Hunger, Shame) riporta all’attenzione del mondo con “12 anni schiavo” (vincitore di 3 premi Oscar e del Golden Globe) un dramma oscuro che ha marchiato per sempre la società americana – la stessa che ha appena salutato il primo Presidente di colore – lasciandole una ferita che stenta ancora a rimarginarsi e ne mostra uno dei periodi più atroci. McQueen accompagna lo spettatore negli inferi delle condizioni disumane vissute da migliaia di esseri umani costretti a subire ogni genere di umiliazione e crudeltà. Crudeltà in un crescendo continuo, che più ancora che nel corpo si ripercuote nell’animo di chi oltre che percosso viene quotidianamente denigrato e privato di qualsivoglia dignità.

McQueen ancora una volta dimostra la sua grandezza di regista che non scrive tanto per essere acclamato quanto per dire la verità; denuncia ed analizza la condizione umana degli uomini resi schiavi e lo fa in modo lucido, senza filtri, mantenendo fede ad un racconto tanto crudo quanto crudele sono state le sofferenze vissute ingiustamente dal popolo africano.

Salomon Northup tenta di ribellarsi, di scappare, di trovare ogni possibile via d’uscita per sfuggire all’inferno della prigionia, ma sarà costretto suo malgrado a cedere alla passività e ad una momentanea rassegnazione quando capirà che è l’unico modo per sopravvivere. Sopravvivenza resa possibile unicamente dalla speranza che un giorno il suo destino muterà e dall’arrendevolezza che tuttavia non lo porterà mai ad affrontare la situazione con vittimismo. Alla fine delle lunghe giornate trascorse tra lavori massacranti, troverà nell’inseparabile violino l’unica consolazione, come per gli altri schiavi è consolante il canto disperato. Sottomesso a tal punto da dover rinunciare alla sua identità, abbandonato a sopravvivere in un contesto dove la paura ha tolto ogni forma di solidarietà anche tra gli stessi schiavi, saranno proprio pazienza e astuzia a restituirgli la tanto agognata libertà, per la quale i suoi compagni dovranno aspettare altri 4 anni.

Le scene più crude mostrano un incedere violento di barbare punizioni corporali che spesso sfociano in terribili esecuzioni. Ma sono altre, a mio avviso, le sequenze  più disturbanti, quelle che arrivano come un pugno allo stomaco, riguardano la denigrazione continua e gratuita: come la scena del crudele sorvegliante che canta l’ossessiva cantilena razzista “Ballate, negri maledetti, ballate”; o quella dei balletti notturni nei quali i neri vengono ridicolizzati dopo lo sfinimento di giornate passate nei campi di cotone sotto al sole a suon di  frustate. Una rappresentazione di uomini bianchi che usano la brutalità per mascherare la loro vigliaccheria e debolezza, e sui quali sembra aleggiare l’ombra scura di un castigo imminente che solo l’aldilà potrà riservargli.  Uomini la cui meschinità viene spesso resa possibile solo dall’uso eccessivo di alcol, certi di rimanere impuniti per le proprie malvagità. Uomini, tutelati dalla legge, che sembrano muoversi nell’universo parallelo di una società insana e malata che non risparmia nemmeno le loro donne, che per natura dovrebbero essere più predisposte alla compassione  e che si trasformano anch’esse in carnefici disumanizzate (come nella scena dove viene punita perfino una madre alla quale sono stati strappati i figli).

Il compiacimento nell’umiliazione, il sottolineare continuamente una pretesa supremazia razziale e culturale, vengono giustificati attraverso l’uso improprio della preghiera domenicale, come a lavarsi la coscienza dai sadismi perpetrati e cercare una oscena legittimazione divina per ripulirsi dalle proprie nefandezze.

La grande abilità recitativa – che coinvolge anche gli attori di contorno – dei tre personaggi ai quali ruota attorno la storia, molto bravi nel raffigurare la difficoltà dei rapporti umani, fa sì che si possa  definire “12 anni schiavo” un film bellissimo e allo stesso tempo straziante.

La forte componente espressiva di Chiwetel Ejiofor nel ruolo di Salomon nel portare sullo schermo  l’infelicità e le sofferenze psicologiche del suo personaggio, che poi sono quelle di un intero popolo, è indice di rara bravura. Ma vi si legge anche una grande forza. Lo schiavo Salomon per sopravvivere si vede costretto ad elaborare il dolore e ad annullarsi sino a rinnegare se stesso. Non vi è nulla che quest’uomo non abbia sopportato e lo spettatore, seppur già preannunciato nel titolo, non può fare a meno di chiedersi fino a quando riuscirà a tollerare tali e tante vessazioni fisiche e mentali.

Una strepitosa Lupita Nyong’o, qui alla sua prima esperienza cinematografica, si cala con incredibile intensità nei panni della fiera serva Patsey “la regina dei campi”, ruolo che le è giustamente valso l’Oscar come migliore attrice non protagonista. Sulla sua schiena infinite cicatrici per la sola colpa di essere  vittima di una spirale perversa di odio-amore che coinvolge un licenzioso padrone-carnefice  e la moglie gelosa. E’ forse nella terribile sequenza delle frustate che Lupita usa al meglio le sue doti interpretative, ormai completamente soggiogata dal padrone schiavista che ne è innamorato ma, non avendo la sensibilità necessaria per vivere un tale sentimento ed essendone al contempo posseduto, lo vuole annientare.

Michael Fassbender, attore feticcio di McQueen, si conferma uno dei migliori interpreti degli ultimi anni, impersonando magistralmente il ruolo dello schiavista sadico ed esaltato Edwin Epps. Ci vuole bravura per incarnare il male assoluto lasciando trapelare un tale crescendo di arroganza mista a conflitti interiori.

La breve apparizione di Brad Pitt (che del film è produttore) nei panni di un abolizionista canadese al quale si dovrà il merito di mettere fine alla prigionia del protagonista, non apporta nulla al prestigio della pellicola.

“12 anni schiavo” può vantare 9 nomination agli Oscar, è stato osannato nei festival di tutto il mondo ed ha ottenuto incassi stellari grazie anche ad un’ottima regia, splendidi piani sequenza degli sterminati paesaggi della Louisiana col sottofondo della coinvolgente musica di Hans Zimmer e lunghissimi primi piani sui volti dei personaggi che coinvolgono abilmente lo spettatore nella tristezza della storia narrata.

A chi volesse relegare la schiavitù ad un mero tragico episodio, risponderei che una simile  vergogna  epocale và collocata a pieno titolo sul podio delle stragi dell’umanità, e non vi è niente di più sbagliato che relegare certi eventi in un angolo del passato. Quel senso di disagio, di inevitabile turbamento e quel coinvolgimento emotivo che avvolgono lo spettatore durante l’intera durata della pellicola, calandolo nell’armadio del tempo pieno zeppo di scheletri e spaventosi segreti, devono portare proprio ad una profonda riflessione. Perchè non dimenticare diventi un dovere morale.

CURIOSITA’

Il regista affida alle didascalie finali la battaglia legale sostenuta e persa dall’autore contro gli uomini che lo hanno rapito e venduto (Northup in quanto nero non poteva testimoniare contro un bianco). Northup fece in tempo a pubblicare le sue memorie documentando l’orrore vissuto nelle piantagioni americane nel libro autobiografico del 1853 coadiuvato  dall’avvocato David Wilson, già autore di pubblicazioni sul tema dell’abolizione della schiavitù e che vendette all’epoca 30.000 copie. E lo fa poco prima di scomparire in circostanze ancora oggi sospette – il dettaglio che non esista una sua tomba non lascia molti dubbi – e dopo essersi battuto a fianco degli abolizionisti per i diritti civili.

Northup dunque, ottenuta una discreta notorietà dopo l’uscita del libro che fece discutere per parecchio tempo, morì in circostanze misteriose. Sicuramente aveva pestato troppi piedi. Nel giro di qualche anno la sua storia cadde nel dimenticatoio, fino a quando nel 1930 una bambina di 12 anni lo lesse per caso nella casa di un amico del padre. Sue Eakin, diventata da grande insegnante e giornalista, decise di ricostruire la storia raccontata da Northup. Nel 2010 Bianca Stigter, moglie del regista Steve McQueen, propose la sceneggiatura al marito, intenzionato da tempo a girare  un film sulla schiavitù negli Stati Uniti.

Agatha Orrico

Voto: 9

LA DONNA CHE CANTA

Titolo originale: Incendies

Regia: Denis Villeneuve

Sceneggiatura:  Wajdi Mouawad

Anno: 2010

Durata: 130′

Produzione: Canada

Fotografia: André Turpin

Montaggio: Monique Dartonne

Scenografia: André-Line Beauparlant,Rana Abboot, Marie-Soleil Dénommé, Amin Charif El Masri, Philippe Lord e Fenton Williams

Interpreti: Lubna Azabal, Mélissa Désormeaux-Poulin, Maxim Gaudette, Remy Girard, Abdelghafour Elaaziz.

TRAMA

All’apertura del testamento della madre, fratello e sorella canadesi scoprono di avere un padre che credevano morto e un fratello di cui non conoscevano l’esistenza. Per ritrovarli dovranno affrontare un lungo viaggio in Medio Oriente alla ricerca delle proprie radici che li porterà a scoprire il torbido e terribile passato della mamma, così ombrosa ed enigmatica in vita.

RECENSIONE

Canada – Alla morte della madre Nawal ai gemelli Jeanne e Simon vengono consegnate  da un notaio due lettere. Una è destinata al padre che credevano morto e l’altra ad un fratello di cui non conoscevano l’esistenza. Le ultime volontà della madre  sono quelle di ritrovare padre e fratello e consegnare personalmente le missive. Jeanne, giovane matematica la cui mente razionale ha una spiegazione logica per tutto,  intraprende senza esitazione un lungo viaggio a ritroso che si intreccia con la storia di sua madre da giovane, attraversando luoghi della sua terra di origine a lei sconosciuti. Insieme al fratello riuscirà, mettendo insieme i pochi indizi (un piccolo crocifisso e un passaporto) e numerosi tasselli, a  ricostruire il doloroso passato della mamma. Attraverso flashback continui le vicende delle due donne si sovrappongono, come due rette parallele di una formula matematica  che, pur non incontrandosi mai arrivano allo stesso punto. Il tutto viene – credo volutamente – rimarcato dalla  marcata somiglianza tra le due attrici.

La pellicola è ambientata – anche se non viene espressamente dichiarato – nella terra tormentata del Libano, sconvolta da anni di guerra civile, ma potrebbe trattarsi di una qualunque altra nazione  dove sono in atto conflitti e atrocità, tra distese di cemento e polvere mescolata a sangue. La trama, inizialmente indecifrabile, si sviluppa via via alimentandosi di dubbi e domande senza apparente risposta, sino a rivelare che il comportamento incoerente e ombroso di Nawal, in realtà era giustificato da un’esistenza densa di sofferenze. La storia viene svelata: la cristiana Nawal viene ripudiata dalla famiglia per aver amato un musulmano e il figlio che partorisce (il fratello che non conoscono) le viene sottratto subito dopo il parto. Parte allora alla ricerca del figlio perduto ma viene travolta dagli orrori della guerra, dalla violenza e dalla morte che la circonda. Lei, un tempo fervente pacifista, si schiera contro i nazionalisti e uccide un importante leader politico cristiano. Viene rinchiusa nella famigerata prigione di Kfar-Ryat, dove resta per 15 anni subendo torture e violenze. In carcere non si è mai piegata ai suoi aguzzini, tanto da essere soprannominata da tutti  “la donna che canta”, perché cerca di mascherare la sua sofferenza con il canto. Fino a giungere all’inaspettato e crudele finale che svela ai due ragazzi che fratello e padre sono la stessa persona.

“La donna che canta” è un teorema matematico, una storia che parla di amore materno, uno spaccato della società mediorientale, sulla violenza e sui dissidi religiosi e politici. E’ un percorso che esplora le proprie origini passando attraverso ricordi dolorosi, fatti di filo spinato e  spietati cecchini e che, anche attraverso rivelazioni scioccanti, può portare un senso di liberazione chiarificatrice.

La trasposizione cinematografica trae spunti dalla vera storia di Souha Fawaz Bechara e da  episodi  della guerra civile libanese. Il film, superbamente diretto dal canadese Denis Villeneuve (Polytechnique, Prisoners), è ispirato alla pièce teatrale “Incendies” del drammaturgo di origini libanesi Wajdi Mouawad ed ha vinto svariati premi (tra i quali miglior film canadese al Toronto International Film Festival e la candidatura agli Oscar 2011 come miglior film straniero). La divisione in capitoli, ognuno dei quali titolato,  permette alla trama di snodarsi molto bene nello spazio temporale, percorrendo luoghi diversi sia geograficamente che per identità storica e situazione politica.

La scena più intensa ma allo stesso tempo inquietante del film è quella iniziale che si apre su di un campo di ulivi, come sottofondo le splendide note di “You and Whose Army” dei Radiohead (dall’album Amnesiac del 2001). La camera del regista si dirige lentamente verso l’interno di una casa diroccata inquadrando gli sguardi spaventati di bambini che vengono preparati per la loro iniziazione alla guerra da alcuni miliziani.  Poi indugia  e si sofferma a lungo su di un bambino che, mentre viene rasato, fissa insistentemente l’obiettivo. Quello sguardo fisso in macchina riesce a riassumere in pochi minuti tutta la tragedia dei popoli medio orientali, o di chi provenga da nazioni martoriate divise da violenti conflitti e soprusi. E’ straziante perché sembra farsi carico di tutta l’angoscia di un’infanzia violata, è uno sguardo  svuotato di qualunque dolcezza infantile, che cela rancore, proprio perchè sta perdendo così prematuramente l’innocenza. E’ conscio di ciò che lo aspetta e sembra promettere vendetta.

Il regista Villeneuve è abilissimo nella rappresentazione del dolore profondo, ogni centimetro della pellicola è intriso di odio verso la guerra, e quello sguardo di bambino è talmente dilaniante che arriva ad avere una potenza ancor più devastante di spettacolari scene di battaglia hollywoodiane.

“La donna che canta” non è solo un film che mette in fila scenari di morte e  torture inflitte senza apparente pentimento, è molto di più. E’ la rappresentazione, portata in scena in modo magistrale ed assolutamente autentico dall’attrice belga Lubna Azabal, dell’infinito amore materno, del complesso rapporto madre-figli. Lubna interpreta con innegabile talento recitativo, molto intenso e mai sopra le righe, il ruolo di una donna piegata dalla rabbia per le sofferenze e le ingiustizie subite che hanno lasciato sul suo volto i segni di un dolore troppo immenso per trasfigurarsi in perdono.

Nawal, come ogni vittima di atroci barbarie, ad un certo punto finisce per nutrirsi dello stesso odio di cui è stata vittima, quasi come se l’unico atto di ribellione fosse la vendetta, che diviene sempre più pulsante a mano a mano che ci si avvicina al cuore della storia: lo strazio della perdita di un figlio, uno dei dolori più grandi per una madre,  appare inaccettabile e orgoglio e dignità non  sono sufficienti contro il timore della lontananza  definitiva. Ha intrapreso una ricerca senza sosta pur di ritrovarlo ma non vi è riuscita, ed ha riversato la sua protezione sugli altri due, portandoli lontano da quelle terre insanguinate. Li ha protetti da quel passato doloroso,  finchè non ha capito che questo non poteva più essere taciuto perchè nascondeva problemi irrisolti. E col tempo riesce anche a perdonare, e lo fa  attraverso le lettere che consegna al marito e al figlio. E’ lì che si svela l’umanità di Nawal, quasi una madre courage, che ad un certo punto si era persa lasciando il posto alla vendetta, ma che poi accetta il suo destino rompendo quella catena di odio che non vuole lasciare in eredità ai figli. Proprio come la terra del Libano, del Medio Oriente, o di un qualunque altro paese martoriato dalla guerra, che ha partorito dal proprio ventre sia il seme della violenza che quello della speranza. Ho l’impressione che all’acqua – le piscine dove nuotano Jeanne e Simon – venga attribuita una valenza di elemento purificatore, quasi a voler ricreare una sorta di protettivo utero materno.

“La donna che canta” è un film di altissima tecnica registica e fotografica e picchi di eccellenza nella recitazione di tutto il cast e in particolare – come già sottolineato – della bravissima Lubna Azabal, vincitrice del Premio Magritte come miglior attrice nel 2012. Un film straziante che per la sua crudezza ti entra fin nelle viscere più profonde. A mio parere inattaccabile.

Voto: 9

Agatha Orrico

DAUNBAILO’

Titolo originale: Down by Low

Regia: Jim Jarmusch

Sceneggiatura: Jim Jarmusch

Anno: 1986

Durata: 107’

Nazione: USA, Germania

Fotografia: Robby Muller

Montaggio: Melody London

Scenografia: Janet Densmore

Costumi: Carol Wood

Musica: John Lurie

Interpreti: Roberto Benigni, Tom Waits, John Lurie, Nicoletta Braschi, Ellen Barkin

TRAMA

Un disc jockey in crisi d’identità, un protettore di prostitute e un bizzarro italiano si ritrovano compagni di galera nella stessa cella. Evasi dal carcere, lo strampalato trio inizia sgangherata fuga tra le paludi di New Orleans, fino alla definitiva separazione.

RECENSIONE

“Daunbailò” – trasposizione italianizzata dell’originale “Down by law”, è un film decisamente borderline in quanto difficilmente collocabile in un solo genere – road movie, commedia, film-noir, comico. L’intellettuale Jarmusch riesce a rendere credibile l’impensabile accostamento recitativo del comico Roberto Benigni con artisti ‘maledetti’ del calibro di Tom Waits e John Lurie, i cui personaggi hanno ben poco in comune se non il fatto di vivere ai margini della comunità. Uno degli aspetti più interessanti e forti del film è proprio la grande prova interpretativa degli attori.

Il regista smonta il mito del classico ‘sogno americano’, e lo fa con sguardo disincantato, utilizzando  identità che si aggirano in una società corrotta, dove squallide periferie, prive di colori, appaiono tutte uguali. La scelta del bianco e nero che ammicca al neo realismo rafforza l’idea di realtà parallela nella quale si muovono Zack/Waits e Jack/Lurie. Una deriva esistenziale dove il buio è rotto solo da qualche fanale nella notte, tutto intorno lo squallore quotidiano.

I luoghi, messi in risalto dalla nitida fotografia di Robby Mueller, sono un pretesto per consegnare allo spettatore uno spaccato della società nella sua visione più cupa e surreale, ne è un esempio la scena iniziale con un lungo piano sequenza sulle case di New Orleans, che più che abitazioni appaiono contenitori di esistenze simili a prigioni. Scene scarne e dilatate, tempi lunghi a camera fissa spesso privi di dialogo, che servono proprio a mettere a fuoco la faccia dell’America del periodo reaganiano e a dare voce al tormento interiore così ben rappresentato da Waits e Lurie.

Tom Waits, cantore degli oppressi, autore dalla voce rugginosa di capolavori come “Rain Dogs”, “Swordfishtrombone” e “Invitation to the blues”, ricalca se stesso dando in prestito  al personaggio di  Zack la stessa aria arruffata e malsana di chi beve bourbon a colazione (guarda caso “Jockey full of bourbon” è il titolo di una delle canzoni di Waits che compaiono nella colonna sonora). Memorabile la scena nella quale Waits, dopo un litigio con la fidanzata, passa in rassegna le sue cose lanciate sul marciapiede e porta con sé sono le sue scarpe di coccodrillo: “Preferisco un fallimento alle mie condizioni, che il successo alle condizioni degli altri”, dichiarava anni fa parlando di se stesso, ma potrebbe essere una frase dello stesso Zack; perché la vita è uno schifo ma in fondo chi se ne frega.

“Se devo dire di avere mai incontrato un genio, quello è Roberto. E’ incredibilmente coraggioso e se qualcuno sembrava capace o meritevole di un Oscar, beh, quello era lui”. E’ una dichiarazione di John Lurie all’amico Benigni all’indomani dell’Oscar del 1999 per “La vita è bella”. Lurie, nella vita leader dei Lounge Lizards e pittore affermato, è perfetto nella parte di Jack con quell’aria snob sulla sagoma dinoccolata,  le mani in tasca, il carattere scontroso e quella faccia che cattura lo schermo. Il personaggio interpretato mostra la stessa strafottenza  di Lurie, basterebbe ricordare la sua abitudine a concedere interviste – rarissime – senza alzarsi dal letto.

E’ a un terzo dal film che fa la sua comparsa il terzo protagonista, un giovane ma già riconoscibilissimo Roberto Benigni che mette in scena tutta la sua indomabile verve tra il serio e il clownesco in uno stentato inglese. “I scream, you scream, we all scream for ice cream” diventa una divertente gag all’interno della cella, dove Roberto gioca con l’assonanza inglese tra le parole  “gridare” e “gelato”. Divertente e surreale la scena nel bosco dove, mentre Benigni cucina un coniglio ricordando la sua famiglia, gli altri due vagano nella notte come due psicopatici con musica di sfondo da psyco thriller: geniale!

Zack e Jack potrebbero essere le due facce della stessa medaglia, il ritratto di chi vive di espedienti ai margini della comunità, dove l’emarginazione con consente vie di uscita. Non vi è redenzione per chi viene dal ghetto, incastrato dalla legge essa stessa corrotta (esplicita la scena del poliziotto con la minorenne), che condanna a priori per quello che si è più che per quello che si fa. A pensarci bene, mentre Zack e Jack vengono arrestati ingiustamente, Roberto è finito in prigione per aver ucciso un uomo (non si capisce se per sbaglio o intenzionalmente), in un contorto gioco delle parti. Nonostante ciò Roberto è il personaggio positivo che, con la sua ingenuità unita ad  una buona dose di ingegno, riesce a barcamenarsi nelle situazioni difficili sino a diventare il collante che tiene unito il gruppo.  E sarà proprio questo suo atteggiamento aperto alla vita che ne consentirà il riscatto, permettendogli di trovare la felicità in un ambiente desolato e apparentemente privo di speranza, con una donna amorevole e diversa dalle donne facili sinora rappresentate da Jarmusch. Se per Roberto il finale è quello da favola moderna, non lo è altrettanto per Zack e Jack.

La scena conclusiva mette i due di fronte ad un bivio, dove la scelta è tra due strade identiche e senza fine, metafora delle loro esistenze, così simili e complementari. Qui Jarmusch lascia intendere un ritorno ai perversi meccanismi della società dalla quale essi sono venuti, ognuno destinato alla propria solitudine. Ma ugualmente, a modo loro, liberi di scegliere.

Voto: 9

Agatha Orrico

ROCK STAR

Regia: Stephen Herek

Sceneggiatura: John Stockwell

Anno: 2001

Durata: 105’

Produzione: USA

Fotografia: Ueil Steiger

Montaggio: Trudy Ship

Colonna sonora: Trevor Rabin

Interpreti: Mark Wahlberg, Jennifer Aniston, Dominic West

TRAMA

Chris “Izzy” Coles di giorno ripara fotocopiatrici, di sera si scatena sul palco con la sua band imitando alla perfezione il celebre gruppo degli Steel Dragon. Finché non viene notato dagli stessi Dragon, che gli offrono un ruolo nel gruppo.

RECENSIONE

La grande macchina che ruota attorno al rock non è altro che un business come un altro, i musicisti sono uomini d’affari che recitano un ruolo e danno al pubblico ciò che vuole e quello che succede dietro le quinte non è sempre bello. Sono cose che tutti sappiamo, ma a volte preferiremmo non ammetterlo. Potrebbe essere questo il messaggio della commedia musicale americana “Rock Star”, ma il cui titolo originale, “Metal God”, sarebbe stato più appropriato.

Ambientata negli anni ottanta, la storia è quella di un impiegato che di notte si esibisce cantando cover della sua band preferita, gli Steel Dragon.  Se Mark Wahlberg è bravissimo nel dare credibilità al ruolo del tamarro metallaro Chris ”Izzy” Coles, con movenze che ricordano quelle dei grandi rocker, non è da meno Jennifer Aniston nel ruolo della fidanzata che conferisce al personaggio un’interpretazione molto intensa. A seguito dell’allontanamento del cantante dal gruppo degli Steel Dragon, gli altri componenti della band notano la somiglianza di  Chris/Wahlberg con il leader uscente, e lo scelgono come nuovo  front-man.

La storia si ispira ad un fatto realmente accaduto. Tim ”Ripper” Owens era un impiegato che di sera si esibiva nei locali proponendo cover dei britannici Judas Priest. Owens venne effettivamente avvicinato dai componenti dei Judas, da poco rimasti orfani del loro cantante Rob Halford. Dopo un rapido provino, proprio come nel film, Owens  diventò il loro front-man (Owens rimarrà con i Judas dal ’96 al 2003 ed Halford ritornerà nel 2003). Il mondo rappresentato nel film mette in luce senza troppi filtri i disagi di molte band: tour interminabili, scontri di personalità, alcol e droga a fiumi, relazioni infelici, groupies onnipresenti  e manager senza scrupoli disposti a tutto pur di mantenere i loro musicisti sempre on the road. Chris/Wahlberg infatti, dopo un esordio  elettrizzante, verrà catapultato in una dimensione parallela che lo spingerà verso una rapida ed inesorabile discesa all’inferno, dove le persone amate sono state sostituite da cattivi consiglieri.

Nella pellicola cinematografica compaiono brevemente cantanti noti come Myles Kennedy degli Alter Bridge, Ralph Saenz degli Steel Panther e l’ex chitarrista di Ozzy Osbourne Zakk Wylde; e un figlio d’arte: Jason Bonham, figlio di John dei Led Zeppelin. Interessante anche notare diverse analogie sia fisiche che caratteriali tra il personaggio di Cuddy, leader della band degli Steel Drangon, con Gene Simmons dei Kiss.

Contenuti musicali importanti fanno da sfondo alla trama regalando all’ascoltatore una variegata colonna sonora di brani metal e rock che hanno caratterizzato gli anni ’80 (Motley Crue, Kiss, Bon Jovi, Def Leppard). Dietro al microfono dell’attore Mark Wahlberg si cela Michael Matijevic, cantante di origini croate degli Steelheart, probabilmente una delle voci più promettenti ed intense del panorama heavy metal degli anni ’90. Nella colonna sonora è incluso tra gli altri l’ottimo brano “We all die young” composto anni prima dallo stesso Matijevic. Il film si conclude con Chris/Wahlberg che si esibisce in un pub sfoggiando un look che ricorda quello di Kurt Cobain. Come a dire: heavy metal fatti da parte, è in arrivo il grunge.

E’ singolare la serie di curiose coincidenze che mescolano finzione  e realtà. Una delle scene clou del film vede Chris/Wahlberg cadere  dal palco ferendosi ad un occhio, rialzarsi e continuare a cantare. L’episodio è liberamente ispirato al concerto degli Iron Maiden del 1985. La band si trovava a Rio, e durante l’esibizione il cantante Bruce Dickinson cadde rovinosamente dal palco, si rialzò e continuò a cantare col volto insanguinato, scatenando l’ovazione  dei fans. Particolare ancora più sconcertante è che un episodio analogo coinvolse anche lo stesso  Matijevic,  in occasione di un concerto del 1992. Era la notte di Hallowen e gli Steelheart erano stati invitati a chiudere il loro tour all’Arena di Denver. Durante l’esibizione del brano “Dancing in the fire” Matijevic, infastidito da un faro puntato in faccia, decise di rimediare da solo. Forse anche per darsi un tono da rocker-maledetto si arrampicò rapidamente sulla torretta per sistemare il faro, ma scendendo questo si staccò travolgendolo sul palco. Nell’urto il povero Matijevic riportò una lesione alla spina dorsale, la frattura del naso e della mascella; trovò la forza di rialzarsi ed allontanarsi dal palco per essere poi ricoverato d’urgenza. Purtroppo l’incidente pose fine alla carriera della band accellerandone lo scioglimento della band.

Pur non avendo ottenuto il successo sperato –  incassò solo la metà di quanto era stato investito per la produzione – “Rock star” resta comunque un piccolo gioiello per estimatori di musica ed un lucido primo piano sulla parabola autolesionista dei musicisti che fanno dell’eccesso uno stile di vita.

Voto: 8

Agatha Orrico