DAUNBAILO’

Titolo originale: Down by Low

Regia: Jim Jarmusch

Sceneggiatura: Jim Jarmusch

Anno: 1986

Durata: 107’

Nazione: USA, Germania

Fotografia: Robby Muller

Montaggio: Melody London

Scenografia: Janet Densmore

Costumi: Carol Wood

Musica: John Lurie

Interpreti: Roberto Benigni, Tom Waits, John Lurie, Nicoletta Braschi, Ellen Barkin

TRAMA

Un disc jockey in crisi d’identità, un protettore di prostitute e un bizzarro italiano si ritrovano compagni di galera nella stessa cella. Evasi dal carcere, lo strampalato trio inizia sgangherata fuga tra le paludi di New Orleans, fino alla definitiva separazione.

RECENSIONE

“Daunbailò” – trasposizione italianizzata dell’originale “Down by law”, è un film decisamente borderline in quanto difficilmente collocabile in un solo genere – road movie, commedia, film-noir, comico. L’intellettuale Jarmusch riesce a rendere credibile l’impensabile accostamento recitativo del comico Roberto Benigni con artisti ‘maledetti’ del calibro di Tom Waits e John Lurie, i cui personaggi hanno ben poco in comune se non il fatto di vivere ai margini della comunità. Uno degli aspetti più interessanti e forti del film è proprio la grande prova interpretativa degli attori.

Il regista smonta il mito del classico ‘sogno americano’, e lo fa con sguardo disincantato, utilizzando  identità che si aggirano in una società corrotta, dove squallide periferie, prive di colori, appaiono tutte uguali. La scelta del bianco e nero che ammicca al neo realismo rafforza l’idea di realtà parallela nella quale si muovono Zack/Waits e Jack/Lurie. Una deriva esistenziale dove il buio è rotto solo da qualche fanale nella notte, tutto intorno lo squallore quotidiano.

I luoghi, messi in risalto dalla nitida fotografia di Robby Mueller, sono un pretesto per consegnare allo spettatore uno spaccato della società nella sua visione più cupa e surreale, ne è un esempio la scena iniziale con un lungo piano sequenza sulle case di New Orleans, che più che abitazioni appaiono contenitori di esistenze simili a prigioni. Scene scarne e dilatate, tempi lunghi a camera fissa spesso privi di dialogo, che servono proprio a mettere a fuoco la faccia dell’America del periodo reaganiano e a dare voce al tormento interiore così ben rappresentato da Waits e Lurie.

Tom Waits, cantore degli oppressi, autore dalla voce rugginosa di capolavori come “Rain Dogs”, “Swordfishtrombone” e “Invitation to the blues”, ricalca se stesso dando in prestito  al personaggio di  Zack la stessa aria arruffata e malsana di chi beve bourbon a colazione (guarda caso “Jockey full of bourbon” è il titolo di una delle canzoni di Waits che compaiono nella colonna sonora). Memorabile la scena nella quale Waits, dopo un litigio con la fidanzata, passa in rassegna le sue cose lanciate sul marciapiede e porta con sé sono le sue scarpe di coccodrillo: “Preferisco un fallimento alle mie condizioni, che il successo alle condizioni degli altri”, dichiarava anni fa parlando di se stesso, ma potrebbe essere una frase dello stesso Zack; perché la vita è uno schifo ma in fondo chi se ne frega.

“Se devo dire di avere mai incontrato un genio, quello è Roberto. E’ incredibilmente coraggioso e se qualcuno sembrava capace o meritevole di un Oscar, beh, quello era lui”. E’ una dichiarazione di John Lurie all’amico Benigni all’indomani dell’Oscar del 1999 per “La vita è bella”. Lurie, nella vita leader dei Lounge Lizards e pittore affermato, è perfetto nella parte di Jack con quell’aria snob sulla sagoma dinoccolata,  le mani in tasca, il carattere scontroso e quella faccia che cattura lo schermo. Il personaggio interpretato mostra la stessa strafottenza  di Lurie, basterebbe ricordare la sua abitudine a concedere interviste – rarissime – senza alzarsi dal letto.

E’ a un terzo dal film che fa la sua comparsa il terzo protagonista, un giovane ma già riconoscibilissimo Roberto Benigni che mette in scena tutta la sua indomabile verve tra il serio e il clownesco in uno stentato inglese. “I scream, you scream, we all scream for ice cream” diventa una divertente gag all’interno della cella, dove Roberto gioca con l’assonanza inglese tra le parole  “gridare” e “gelato”. Divertente e surreale la scena nel bosco dove, mentre Benigni cucina un coniglio ricordando la sua famiglia, gli altri due vagano nella notte come due psicopatici con musica di sfondo da psyco thriller: geniale!

Zack e Jack potrebbero essere le due facce della stessa medaglia, il ritratto di chi vive di espedienti ai margini della comunità, dove l’emarginazione con consente vie di uscita. Non vi è redenzione per chi viene dal ghetto, incastrato dalla legge essa stessa corrotta (esplicita la scena del poliziotto con la minorenne), che condanna a priori per quello che si è più che per quello che si fa. A pensarci bene, mentre Zack e Jack vengono arrestati ingiustamente, Roberto è finito in prigione per aver ucciso un uomo (non si capisce se per sbaglio o intenzionalmente), in un contorto gioco delle parti. Nonostante ciò Roberto è il personaggio positivo che, con la sua ingenuità unita ad  una buona dose di ingegno, riesce a barcamenarsi nelle situazioni difficili sino a diventare il collante che tiene unito il gruppo.  E sarà proprio questo suo atteggiamento aperto alla vita che ne consentirà il riscatto, permettendogli di trovare la felicità in un ambiente desolato e apparentemente privo di speranza, con una donna amorevole e diversa dalle donne facili sinora rappresentate da Jarmusch. Se per Roberto il finale è quello da favola moderna, non lo è altrettanto per Zack e Jack.

La scena conclusiva mette i due di fronte ad un bivio, dove la scelta è tra due strade identiche e senza fine, metafora delle loro esistenze, così simili e complementari. Qui Jarmusch lascia intendere un ritorno ai perversi meccanismi della società dalla quale essi sono venuti, ognuno destinato alla propria solitudine. Ma ugualmente, a modo loro, liberi di scegliere.

Voto: 9

Agatha Orrico

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