ALICE ATTRAVERSO LO SPECCHIO

Regia: James Bobin

Sceneggiatura: Linda Woolverton

Anno: 2016

Durata: 113’

Nazione: USA

Fotografia: Stuart Dryburgh

Montaggio: Andrew Weisblum

Scenografia: Dah Hennah

Costumi: Colleen Atwood

Colonna sonora: Danny Elfman

Interpreti: Mia Wasikowska, Johnny Depp, Anne Hathaway, Sacha Baron Cohen

RECENSIONE

Il giorno dell’anteprima di Alice attraverso lo specchio confesso che ero molto preoccupata. Ero preoccupata perché non sapevo cosa aspettarmi, o meglio sapevo di dovermi aspettare qualcosa di male, ma fino a che punto male? Sono passati sei anni dall’uscita del primo Alice in Wonderland diretto da Tim Burton, ma il trauma è ancora fresco. Uno dei miei registi preferiti aveva appena distrutto uno dei miei libri preferiti. Tutti i punti di riferimento della mia adolescenza erano stati appena rasi al suolo dal grande carrozzone hollywoodiano. Cosa mi resta ormai da perdere? Infilo i miei occhialini 3D e faccio un bel respiro: “Sono pronta Disney, fai di me ciò che vuoi”.

Le prime scene si aprono con un vascello in un mare in tempesta. Il capitano della nave è la nostra ritrovata Wasikowska che interpreta una Alice ribelle alle convenzioni dell’epoca vittoriana. Tornata a Londra dalle sue avventure intorno al mondo, entra in conflitto con la madre sulla possibilità di vendere la nave “Wonder” allo spocchioso Lord Ascot (Leo Bill). Durante un party a casa degli Ascot Alice vede una farfalla, il Brucaliffo (con la voce del compianto Alan Rickman, a cui il film è stato dedicato) seguendolo attraverso uno specchio tornerà nel Sottomondo, dove ad attenderla ci saranno i suoi vecchi amici con una brutta notizia: il Cappellaio Matto è depresso. Tocca ad Alice cercare di aiutarlo a capire che fine ha fatto la sua famiglia, ma per questo ha bisogno di tornare nel passato, servendosi della Cronosfera posseduta dal Tempo. Il Tempo, impersonato da Sacha Baron Cohen, è forse il personaggio meglio riuscito del film, con grandi baffi e un accento teutonico (perso nella versione italiana) che strizza l’occhio a Christoph Waltz. Deprimente è invece la figura del Cappellaio Matto, dove sotto vari strati di trucco troviamo un Jhonny Depp al tramonto.

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Non si capisce affatto il motivo della crisi esistenziale, e in fondo a noi spettatori cosa dovrebbe importarcene del suo irrisolto conflitto Edipico? O ancora, c’è davvero qualcuno che sentiva il bisogno di sapere a tutti i costi perché la Regina di Cuori avesse la testa così grossa, o perché l’orologio del Cappellaio fosse sempre fermo alla stessa ora? Eppure questi retroscena sono le fondamenta su cui si regge la sceneggiatura di Linda Woolverton (già screenwriter in Maleficent).

Un po’ di follia e tanta tantissima noia. Il lato rimosso di Alice “schizo”

Non temete, non c’è pericolo che vi faccia alcuno spoiler perché raccontare la trama mi annoia sempre tantissimo, vi dirò solo che il film ha una fine (consolante!) in linea con le tendenze femministe che attualmente piacciono tanto ai Millenials, e che la Disney è stata pronta a cogliere al volo. Vedesi altre protagoniste di cartoni recenti, come Merida di Brave o la principessa Elsa in Frozen, il cui destino non è legato a nessun principe azzurro. Alice non fa eccezione, e con i suoi abiti eccentrici e il suo rifiuto di un lavoro impiegatizio, sembra  incarnare alla perfezione lo spirito del tempo, il cui motto (“Stay hungry, stay foolish”) ispira milioni di giovani a lasciare tutto per seguire i propri sogni. Il film però non intende essere così radicale, quindi c’è ancora ampio spazio per i buoni vecchi valori della famiglia, amicizia, e accettazione del passato, data l’impossibilità a cambiarlo. Il Tempo non è cattivo, a dire il vero non ci sono cattivi qui, solo personaggi noiosi.

Da notare la curiosa parentesi in cui Alice scappa da un manicomio – un possibile riferimento a “Return To Oz”, in italiano Nel Fantastico Mondo di Oz, (1985) o al videogioco American McGee’s Alice (2000) – dove secondo il costume dell’epoca venivano internate molte donne con la diagnosi di “isteria”, mentre si trattava quasi sempre di persone insofferenti alle convenzioni della società vittoriana. Nelle varie interpretazioni del libro è emerso spesso un lato oscuro di Alice,  un lato “schizo” come direbbe Deleuze, che l’industria dell’intrattenimento non è mai riuscita a rimuovere fino in fondo, perché questo lato oscuro è condizione ineliminabile dell’infanzia e a partire da questo si intrattiene una lotta con il proprio io.

Alice come novella Proserpina – la fanciulla sposa degli inferi, che ogni sei mesi deve tornare nel sottosuolo per adempiere al suo destino e assicurare l’ordine cosmico – deve tornare nel Sottomondo per trovare sé stessa, per cercare la verità degli eventi, e sperimentare l’estraneità del proprio io corporeo. È importante sottolineare come questa osservazione vada letta alla luce delle riflessioni di Deleuze intorno ad Alice e Spinoza per comprendere quanto sia dirompente l’opera di Lewis Carroll. Nel film Through the Looking Glass Alice continua ad essere considerata dalle persone che le stanno intorno una “ragazzina”, sebbene anagraficamente abbia più di venti anni. Alice non cresce mai, o meglio cresce restando piccola, diviene donna-bambina al medesimo tempo, sfuggendo così alle categorie sessuali e generazionali ogni spettatore può identificarsi in lei. Ogni spettatore desidera sfuggire alla tirannia del Tempo, attraversare lo specchio, per entrare nel mondo dove tutto è possibile, salvo poi scoprire che “possibile” è solo una parola, e le parole sono giocattoli manipolabili.

«Quando uso una parola», Humpty Dumpty disse in tono piuttosto sdegnato, «essa significa esattamente quello che voglio – né di più né di meno.»
«La domanda è», rispose Alice, «se si può fare in modo che le parole abbiano tanti significati diversi.»
«La domanda è,» replicò Humpty Dumpty, «chi è che comanda – tutto qui.»

(Lewis Carroll, Attraverso lo specchio)

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Alice nell’industria dell’intrattenimento

Parafrasando il celebre indovinello che il Cappellaio pone ad Alice (Cos’hanno in comune un corvo e una scrivania?) possiamo chiederci: che somiglianze ci sono tra Alice in Wonderland di Tim Burton e Alice Through the Looking Glass di James Bobin? Ahimé, molte e quasi tutte in negativo. Principalmente condividono l’ingombrante dispiego di mezzi tecnici e computer grafica volti a imbastire un coloratissimo parco giochi che alla lunga non diverte nessuno. Il 3D rispetto a sei anni orsono appare più raffinato e coeso, ma sinceramente non si capisce cosa debba aggiungere allo spettatore, oltre a un biglietto più oneroso.

Questo accanimento sull’aspetto  più “psichedelico” della storia di Carroll si riscontra sin dal primo cartone Disney (1951) e si può giustificare sia da un punto di vista di appeal commerciale, sia dal lato ideologico di un’epoca che ha fatto della fantasia e dell’immaginazione la propria arma rivoluzionaria contro il sistema capitalistico. Il fatto è che lo stesso sistema al posto di soccombere si è impadronito di quell’arma, e l’ha potenziata con la tecnica che gli è propria.

Risuonano più appropriate che mai le parole di Horkheimer e Adorno: “ci si guarda bene dal dire che l’ambiente in cui la tecnica acquista il suo potere sulla società è il potere di coloro che sono economicamente più forti sulla società stessa. La razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio. È il carattere coatto, se così si può dire, della società estraniata a se stessa”. (Dialettica dell’Illuminismo, 1947)

Appare chiaramente che le vicende di Alice, lungi da essere un manifesto del puro divenire, come sono state lette da Deleuze in Logica del senso (1969), sono diventate la materia preferita di quella “fabbrica del consenso” che èl’industria dell’intrattenimento. In che cosa consiste la totalità dell’industria dell’intrattenimento? Ce lo dice ancora Adorno in una parola: “ripetizione”. Dato il progressivo svuotamento di contenuti, ripetuti in forme stereotipate, l’interesse dei consumatori è tutto rivolto alla tecnica. L’adattamento di Alice Through the Looking Glass, non è altro che il deliberato e naturale adeguamento ai bisogni del pubblico, registrati dagli introiti di cassa del film di Tim Burton. La vera ideologia sottostante è l’affare. Il mondo delle meraviglie di Alice è solo un esiguo pretesto che si realizza in una sequenza digitalizzata di azioni prescritte, in cui i personaggi si muovono come automi. Ogni connessione logica che richieda qualche sforzo allo spettatore è scrupolosamente evitata, gli sviluppi della trama devono scaturire necessariamente dalla situazione precedente e non già da qualche idea del tutto. “L’industria culturale defrauda ininterrottamente i suoi spettatori di ciò che ininterrottamente promette[…] La promessa, a cui lo spettacolo, in fin dei conti, si riduce, lascia malignamente capire che non si verrà mai al sodo, e che l’ospite dovrà accontentarsi della lettura del menù.”. (cit. Dialettica dell’illuminismo).

La locandina è il nostro menù, il cast le sue portate piene di promesse. Al nostro occhio attirato da tutte quelle associazioni di nomi e immagini fascinose viene alla fine servita un’improbabile accozzaglia a metà strada tra Ritorno al Futuro, Ritorno a Oz, e una puntata dei Muppets venuta male (di cui Bobin è stato regista del film). Per fortuna mi ero preparata al peggio e quindi questa volta nessun trauma. A differenza dell’epoca in cui scriveva Adorno oggi noi spettatori siamo diventati più disillusi, ma di una cosa sono certa: il libro di Alice non smetterà di essere inesauribile fonte di ispirazione per chiunque cerchi alternative possibili a questa realtà.

Voto: 3

Claudia Porta

ORSON WELLES, AUTOPSIE D’UNE LÉGENDE

Regia: Elisabeth Kapnist

Anno: 2015

Durata: 56′

Nazione: Francia

Fotografia: Thomas Bataille

Montaggio: Dominique Faysse

Orson Welles compie cento anni. Elisabeth Kapnist – con Orson Welles, autopsie d’une légend – rende omaggio a uno dei più grandi cineasti di tutti i tempiregalandoci un documentario inedito sul personaggio, che attraverso Quarto PotereL’orgoglio degli Amberson e L’infernale Quinlan, ha aggiunto un tassello fondamentale al linguaggio cinematografico del Novecento.

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Kapnist, attraverso sequenze di repertorio (alcune inedite) e interventi di colleghi ed esperti che hanno avuto occasione di lavorare con Welles (Jeanne Moreau, Charlton Eston, Roman Polanski, Joseph McBride e Francis Ford Coppola), ha realizzato un documentario che ripercorre tutte le tappe fondamentali della sua vita. Dall’epocale annuncio via radio su un’invasione aliena che scatenò il panico tra gli ascoltatori, alla scena degli specchi de La signora di Shangai (divenuta nel tempo una delle più iconiche sequenze della storia del cinema) fino al minore successo ricevuto in America e alla maggior comprensione artistica in Europa, sancita dall’ovazione per il suo Falstaff al Festival di Cannes 1966. Una vita intensa che Kapnist ha descritto fedelmente: la cultura, l’ironia, la filosofia e soprattutto l’arte di Welles non vengono mai tradite.

Voto: 6,5

Francesco Foschini