LA MIGLIORE OFFERTA

Regia: Giuseppe Tornatore

Sceneggiatura: Giuseppe Tornatore

Anno: 2013

Durata: 124’

Produzione: Italia

Fotografia: Fabio Zamarion

Montaggio: Massimo Quaglia

Scenografia: Maurizio Sabatini

Costumi: Maurizio Millenotti

Colonna sonora: Ennio Morricone

Interpreti: Goffrey Rush, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks, Donald Sutherland

 

TRAMA

Virgil Oldman è un battitore d’aste ed esperto d’arte che viene contattato da una donna misteriosa e incaricato di stimare il contenuto di una vecchia villa in rovina.

 RECENSIONE

L’intento di Tornatore è costruire un puzzle complesso che celi la figura di fondo; un labirinto la cui apparente via d’uscita (il rapporto amoroso fra i due protagonisti) si rivela una trappola, il mostro pronto ad annientare ogni speranza. Ma il capovolgimento finale anziché stupire appare scontato e puzza d’imbroglio: col procedere della trama gli ingranaggi del film cigolano e il meccanismo s’inceppa, rivelando impietosamente – dietro l’ottima regia – le debolezze di una sceneggiatura eccessiva e pretenziosa, che si contorce (cercando invano una profondità e compiutezza di senso) all’interno di una dialettica verità/finzione ripetuta sino al rigurgito.

La migliore offerta 2

La trama si rivela poco convincente e ingestibile, finendo col dilatarsi oltre il necessario e risultare fastidiosa in alcuni punti troppo espliciti (l’automa) o posticci (la nanetta che si ricorda tutto!, il nome del protagonista, Virgil-“virgin” Oldman). Né i (pochissimi) personaggi né le loro relazioni sono descritti in maniera credibile: se la figura di Billy è evanescente, il rapporto d’amicizia fra Virgil e il meccanico Robert (personaggio la cui ambiguità è peraltro introdotta in maniera sempliciotta) appare non meno improvviso e ingiustificato di quello amoroso fra Virgil e Claire (il cui apice è rappresentato col montaggio ripetuto di alcune pacchiane scene di passione).

La migliore offerta 1

Tornatore mi sembra l’esempio più lampante della deformazione del cinema italiano, nel suo innaturale tentativo di aprirsi al modello americano. Probabilmente le vie per far tornare grande il cinema italiano si nascondono altrove.

 Voto: 5,5

Patrick Martinotta

MIRACOLO A LE HAVRE

Titolo originale: Le Havre

Regia: Aki Kaurismaki

Sceneggiatura:Aki Kaurismaki

Anno: 2011

Durata: 93’

Produzione: Finlandia, Francia, Germania

Fotografia: Timo Salminen

Montaggio: Timo Linnasalo

Scenografia: Wouter Zoon

Costumi: Frédéric Cambier

Colonna sonora: The Renegades

Interpreti: André Wilms, Kati Outinen, Jean-Pierre Darroussin

TRAMA

Marcel Marx, ex scrittore, vive a Le Havre insieme alla moglie, frequenta il bar del quartiere e lavora come lustrascarpe. Un giorno scopre che la moglie è gravemente malata e conosce un ragazzino africano immigrato illegalmente dall’Africa.

RECENSIONE

Con uno stile personalissimo, essenzialista nella forma e nei contenuti, quasi à la Tatì, Kaurismäki rievoca De Sica con brio; ma se Milano è la città dove veramente i miracoli non potevano accadere, se non nel volo della fantasia di orfani e barboni in bicicletta fra le nubi, a Le Havre ci sono Clochard (ex bohemien) e profughi, ci sono ancora le buone maniere e dei buongiorno che (naturalmente) “vogliono davvero dire buongiorno”. Soprattutto, là c’era il cielo come unico (e indisponibile) orizzonte; qua c’è il mare, aperto verso un paradiso a portata di mano (l’Inghilterra e l’abbraccio materno) e puntualizzato con l’immagine finale – la più essenziale e semplice che ci sia – del ciliegio in fiore.

Le Havre 1

Uno stile che deve pagare pegno: la cura accogliente dei particolari, nelle immagini, nella musica, nelle parole e in volti straordinari, costa al film una formalità che produce un effetto paradossale: quasi che – di contro alla concretezza del film di De Sica che si rifugiava nel sogno – quella di Le Havre fosse una dimensione totalmente onirica.

Le Havre 2

Un ex clochard e un profugo hanno poi lo stesso sogno: una casa e un abbraccio.

Voto: 7

Patrick Martinotta

LEI

Titolo Originale: Her

Regia: Spike Jonze

Soggetto: Spike Jonze

Sceneggiatura: Spike Jonze

Anno: 2013

Durata: 126’

Produzione: Spike Jonze

Paese di produzione: Stati Uniti

Fotografia: Hoyte Van Hoytema

Montaggio: Jeff Buchanan, Eric Zumbrunnen

Scenografia: Austin Gorg

Costumi: Casey Storm

Colonna sonora: Arcade Fire

Interpreti: Joaquin Phoenix, Amy Adams, Scarlett Johansson (voce)

TRAMA

Nella Los Angeles di un futuro non lontano, Theodore lavora in un’agenzia scrivendo lettere personali per conto di altre persone; lasciato dalla moglie, non riesce a rifarsi una vita, finché non inizia una relazione sentimentale con un sistema informatico di nuova generazione.

RECENSIONE

Achille e la tartaruga

È storia recente la notizia del (presunto) superamento del famoso test di Turing, accolto con vertigine ed entusiasmo dal pubblico – non solo accademico e scientifico – di un’umanità alla continua e confusa ricerca di tracce che lo proiettino in un futuro (prossimo) in cui reinventare se stessi. Molto e troppo si potrebbe discutere dell’assottigliamento di quella distanza fra umano e artificiale che potrebbe rimanere sempre infinita quanto uno dei passi della tartaruga di Zenone. Troppo potremmo filosofeggiare sull’esigenza dei sogni umani di confrontarsi con un limite da superare, in rapporto a un altro da sé, un’alterità, un altrove. Her ci salva da questo rischio, perché la questione dell’artificiale non rappresenta il nucleo del film di Spike Jonze, ma è solo lo strumento concettuale attraverso il quale discutere, ancora una volta, dell’amore e della solitudine umana. Con sollievo possiamo riporre nel cassetto il nostro voluminoso Hofstadter o i confronti con i vari Electric Dreams (1984) o Be Right Back della serie Black Mirror. Pur trattando dell’”amore ai tempi del virtuale”, la dimensione autentica di Her non è quella della fantascienza. Il futuro disegnato da Spike Jonze attraverso i suoi colori pastello non tende al surreale ma all’iper-reale, non a una sovversione del presente ma a una sua saturazione. Il primato della tecnologia non viene urlato o esagerato ma è lo sfondo che, emergendo nei dettagli, conferisce originalità a quella che ha la struttura di una normale storia d’amore.

Her 3

 A Love Story?

Her comincia come una favola dal sapore dolceamaro in cui tutti gli elementi concorrono a far immergere e immedesimare nella storia: la fluidità della narrazione, le musiche avvolgenti, la raffinatezza della regia, la voce di Scarlett Johansson (talmente vivida da rappresentare essa stessa una presenza concreta) e gli occhioni azzurri di Theodore (magnificamente interpretato da un Joaquin Phoenix in grado di reggere da solo la scena per 120 minuti). Il protagonista e l’ambiente che lo circonda sembrano inizialmente rappresentati in reciproca opposizione. Nell’epoca delle macchine umane troppo umane è stato sottratto all’uomo il tempo della comunicazione, quel tempo che lo ha fatto entrare nella storia creando la storia stessa: più che l’avvicinamento dell’artificiale all’umano è accaduto il contrario. Theodore, abbandonato dalla moglie, dedica interamente le sue giornate a un’occupazione d’ufficio paradossale, che consiste nello scrivere lettere personali o intime per conto di altre persone; attraverso il suo lavoro sembra l’unico capace di donare autenticità alle relazioni umane ormai anestetizzate. Quando conosce Samantha, però, la figura stessa di Theodore rivela progressivamente la sua ambiguità, facendo emergere alcuni lati del suo carattere legati all’incapacità di affrontare la realtà, nella sua quotidianità e consistenza. Proprio nel momento in cui Lei cerca un corpo e una carne come medium alla propria virtualità, la relazione rivela la propria natura: per Theodore Samantha non rappresenta altro che uno strumento perfettamente controllabile (in apparenza) al punto da generare dipendenza. Presentato come favola romantica che tenta di dare sostanza all’amore togliendogli carne e materia – la locandina sottotitola “A Spike Jonze Love Story” –, Her si rovescia nel suo opposto, ossia in una rappresentazione drammatica dello svuotamento dei rapporti umani, che diventano riflesso o estensione di sé sfociando nella massima solitudine. L’amore come simulacro.

Her 2

Voto: 8

Patrick Martinotta