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SHOAH

Regia: Claude Lanzmann

Anno: 1985

Durata: 613’

Nazione: Francia

Fotografia: Dominique Chapuis, Jimmy Glasberg, William Lubtchansky

Montaggio: Ziva Postec

Shoah: il fiume e la memoria

In occasione della giornata della memoria, molti sono i film (ottimi, celebri) che potremmo proporre per riflettere sul tema dell’Olocausto. La nostra scelta è caduta su un non-film: Shoah di Claude Lanzmann. Una scelta per certi versi scontata, ma non dettata soltanto dall’importanza storica o dall’attualità di questo monumentale lavoro; ciò che a noi interessa è piuttosto la sua atemporalità: prima di essere un documentario sullo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento, Shoah è infatti una riflessione sulla memoria stessa e, non da ultimo, una riflessione sulle potenzialità del mezzo cinematografico come dispositivo di memoria.

Treblinka 2

La sostanza della storia (pensiamo alla celebre definizione di Bloch) e del cinema (pensiamo a Deleuze) è il tempo. Shoah è una riflessione sulla storia e sul cinema che si pone nella storia e nel cinema, si fa esso stesso documento ed evento storico-cinematografico. In quanto riflessione sulla temporalità e sulla memoria, Shoah si costruisce col tempo, nel tempo: frutto di undici anni di ricerca (cinque solo per montare le trecentocinquanta ore di interviste), non è un film, è un fiume che si sviluppa man mano che raccoglie tracce e detriti, ricordi e miserie dei suoi testimoni. Non è un documentario che sfrutta immagini di repertorio e date oggettive, è un non-film dalla durata bergsoniana e bachelardiana (in cui le date e gli anni hanno poco valore), che per raccontare ha bisogno di suscitare immagini e ricordi. Sintomatica è – come sottolineato perfettamente da Ivelise Perniola in L’immagine spezzata – la scena iniziale: a tredici anni Simon Srebnik doveva attraversare tutti i giorni il villaggio di Chelmno, in compagnia dei suoi compagni incatenati e dei soldati delle SS, che lo obbligavano a cantare in virtù della sua voce melodiosa.

Simon Sbrenik

Lanzmann, a sua volta, lo costringe a ricordare risalendo quello stesso fiume, come faceva allora, inscrivendo la propria voce nel luogo, cioè cantando la stessa canzone che cantava allora: un canto – paradossalmente – sulla nostalgia, sull’impossibilità di ritornare e sull’impossibilità di ricordare: “Una piccola casa bianca / mi resta nella memoria / Di questa piccola casa bianca / sogno ogni notte”. L’affiancamento di questa canzone e dell’immagine del fiume ci evoca una poesia di Borges:

Sono i fiumi

Siamo il tempo. Siamo la famosa
parabola di Eraclito l’Oscuro.
Siamo l’acqua, non il diamante duro,
che si perde, non quella che riposa.
Siamo il fiume e siamo anche quel greco
che si guarda nel fiume. Il suo riflesso
muta nell’acqua del cangiante specchio,
nel cristallo che muta come il fuoco.
Noi siamo il vano fiume prefissato,
dritto al suo mare. L’ombra l’ha accerchiato.
Tutto ci disse addio, tutto svanisce.
La memoria non conia più monete.
E tuttavia qualcosa c’è che resta
e tuttavia qualcosa c’è che geme.

Siamo fatti di questa sostanza mutevole (ossimoro) che si chiama tempo o memoria, sembra suggerire Borges. Ma la memoria non è qualcosa di innocuo, è qualcosa di invadente, che ferisce e fa male. Emblematica in questo senso la scena di Abraham, il parrucchiere di Tel Aviv che, a un certo punto, non riesce più a proseguire nel racconto di un ricordo tragico. Ma la macchina da presa di Lanzmann non stacca e, impietosa, continua a filmare in maniera invasiva il lungo momento di silenzio, finché Abraham non si decide a parlare, non si decide a ricordare. Tale è il ruolo di Lanzmann: anche se quasi sempre fuori campo, non è semplice regista o intervistatore, ma ha il compito di sollecitare la memoria (del testimone) e la com-passione (dello spettatore). Il film è un fiume di immagini e anche un fiume di parole, ma queste non commentano, né pongono quasi mai grandi interrogativi di tipo morale o filosofico (come fa dire allo storico Hilberg intervistato nel film: “Non ho mai cominciato dalle grandi domande perché temevo di ricevere delle risposte piccole”); la Memoria – a differenza della Ragione che cerca cause e risposte – insegue particolari secondari (“i treni a Treblinka spingevano o tiravano i vagoni dei deportati?”), perché di dettagli si nutre la memoria. Shoah è un non-film, è un evento che richiede la completa disposizione del testimone e una completa immersione da parte dello spettatore: lo spettatore che, ignaro, crede di assistere semplicemente un documentario, sta invece partecipando a un’esperienza di senso. Si sta immergendo in un fiume apparentemente innocuo, ma che lentamente lo avvolge, travolge e inghiotte; ne riemergerà ma, come insegna Eraclito, non sarà più se stesso.

fiume

Il lavoro di Lanzmann rappresenta un intenso sforzo di recupero della dimensione autentica della memoria, quella invasiva, pervasiva, immersiva, che suscita compassione e dolore. Sollecitare questa memoria – individuale e collettiva – è necessario, per evitare che la Shoah diventi soltanto una nozione storica astratta, distante, innocua, che non ha nulla a che vedere con noi e con il nostro presente; come se Auschwitz – simbolo dell’indifferenza dell’Europa di ieri – non si riflettesse nelle acque dell’attualità – quel Mediterraneo ormai simbolo delle miserie e dell’indifferenza dell’Europa di oggi.

Voto: 9

Patrick Martinotta

DAUNBAILO’

Titolo originale: Down by Low

Regia: Jim Jarmusch

Sceneggiatura: Jim Jarmusch

Anno: 1986

Durata: 107’

Nazione: USA, Germania

Fotografia: Robby Muller

Montaggio: Melody London

Scenografia: Janet Densmore

Costumi: Carol Wood

Musica: John Lurie

Interpreti: Roberto Benigni, Tom Waits, John Lurie, Nicoletta Braschi, Ellen Barkin

TRAMA

Un disc jockey in crisi d’identità, un protettore di prostitute e un bizzarro italiano si ritrovano compagni di galera nella stessa cella. Evasi dal carcere, lo strampalato trio inizia sgangherata fuga tra le paludi di New Orleans, fino alla definitiva separazione.

RECENSIONE

“Daunbailò” – trasposizione italianizzata dell’originale “Down by law”, è un film decisamente borderline in quanto difficilmente collocabile in un solo genere – road movie, commedia, film-noir, comico. L’intellettuale Jarmusch riesce a rendere credibile l’impensabile accostamento recitativo del comico Roberto Benigni con artisti ‘maledetti’ del calibro di Tom Waits e John Lurie, i cui personaggi hanno ben poco in comune se non il fatto di vivere ai margini della comunità. Uno degli aspetti più interessanti e forti del film è proprio la grande prova interpretativa degli attori.

Il regista smonta il mito del classico ‘sogno americano’, e lo fa con sguardo disincantato, utilizzando  identità che si aggirano in una società corrotta, dove squallide periferie, prive di colori, appaiono tutte uguali. La scelta del bianco e nero che ammicca al neo realismo rafforza l’idea di realtà parallela nella quale si muovono Zack/Waits e Jack/Lurie. Una deriva esistenziale dove il buio è rotto solo da qualche fanale nella notte, tutto intorno lo squallore quotidiano.

I luoghi, messi in risalto dalla nitida fotografia di Robby Mueller, sono un pretesto per consegnare allo spettatore uno spaccato della società nella sua visione più cupa e surreale, ne è un esempio la scena iniziale con un lungo piano sequenza sulle case di New Orleans, che più che abitazioni appaiono contenitori di esistenze simili a prigioni. Scene scarne e dilatate, tempi lunghi a camera fissa spesso privi di dialogo, che servono proprio a mettere a fuoco la faccia dell’America del periodo reaganiano e a dare voce al tormento interiore così ben rappresentato da Waits e Lurie.

Tom Waits, cantore degli oppressi, autore dalla voce rugginosa di capolavori come “Rain Dogs”, “Swordfishtrombone” e “Invitation to the blues”, ricalca se stesso dando in prestito  al personaggio di  Zack la stessa aria arruffata e malsana di chi beve bourbon a colazione (guarda caso “Jockey full of bourbon” è il titolo di una delle canzoni di Waits che compaiono nella colonna sonora). Memorabile la scena nella quale Waits, dopo un litigio con la fidanzata, passa in rassegna le sue cose lanciate sul marciapiede e porta con sé sono le sue scarpe di coccodrillo: “Preferisco un fallimento alle mie condizioni, che il successo alle condizioni degli altri”, dichiarava anni fa parlando di se stesso, ma potrebbe essere una frase dello stesso Zack; perché la vita è uno schifo ma in fondo chi se ne frega.

“Se devo dire di avere mai incontrato un genio, quello è Roberto. E’ incredibilmente coraggioso e se qualcuno sembrava capace o meritevole di un Oscar, beh, quello era lui”. E’ una dichiarazione di John Lurie all’amico Benigni all’indomani dell’Oscar del 1999 per “La vita è bella”. Lurie, nella vita leader dei Lounge Lizards e pittore affermato, è perfetto nella parte di Jack con quell’aria snob sulla sagoma dinoccolata,  le mani in tasca, il carattere scontroso e quella faccia che cattura lo schermo. Il personaggio interpretato mostra la stessa strafottenza  di Lurie, basterebbe ricordare la sua abitudine a concedere interviste – rarissime – senza alzarsi dal letto.

E’ a un terzo dal film che fa la sua comparsa il terzo protagonista, un giovane ma già riconoscibilissimo Roberto Benigni che mette in scena tutta la sua indomabile verve tra il serio e il clownesco in uno stentato inglese. “I scream, you scream, we all scream for ice cream” diventa una divertente gag all’interno della cella, dove Roberto gioca con l’assonanza inglese tra le parole  “gridare” e “gelato”. Divertente e surreale la scena nel bosco dove, mentre Benigni cucina un coniglio ricordando la sua famiglia, gli altri due vagano nella notte come due psicopatici con musica di sfondo da psyco thriller: geniale!

Zack e Jack potrebbero essere le due facce della stessa medaglia, il ritratto di chi vive di espedienti ai margini della comunità, dove l’emarginazione con consente vie di uscita. Non vi è redenzione per chi viene dal ghetto, incastrato dalla legge essa stessa corrotta (esplicita la scena del poliziotto con la minorenne), che condanna a priori per quello che si è più che per quello che si fa. A pensarci bene, mentre Zack e Jack vengono arrestati ingiustamente, Roberto è finito in prigione per aver ucciso un uomo (non si capisce se per sbaglio o intenzionalmente), in un contorto gioco delle parti. Nonostante ciò Roberto è il personaggio positivo che, con la sua ingenuità unita ad  una buona dose di ingegno, riesce a barcamenarsi nelle situazioni difficili sino a diventare il collante che tiene unito il gruppo.  E sarà proprio questo suo atteggiamento aperto alla vita che ne consentirà il riscatto, permettendogli di trovare la felicità in un ambiente desolato e apparentemente privo di speranza, con una donna amorevole e diversa dalle donne facili sinora rappresentate da Jarmusch. Se per Roberto il finale è quello da favola moderna, non lo è altrettanto per Zack e Jack.

La scena conclusiva mette i due di fronte ad un bivio, dove la scelta è tra due strade identiche e senza fine, metafora delle loro esistenze, così simili e complementari. Qui Jarmusch lascia intendere un ritorno ai perversi meccanismi della società dalla quale essi sono venuti, ognuno destinato alla propria solitudine. Ma ugualmente, a modo loro, liberi di scegliere.

Voto: 9

Agatha Orrico

AMORE, CUCINA E HELEN MIRREN

Titolo: Amore, cucina e curry

Regia: Lasse Hallstrom

Sceneggiatura: Steven Knight

Anno: 2014

Durata: 122’

Nazione: USA, India

Musiche: A. R. Rahman

Interpreti: Helen Mirren, Om Puri

 

Titolo: Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante

Titolo originale: The Cook, the Thief, His Wife & Her Lover

Regia: Peter Greenaway

Sceneggiatura: Peter Greenaway

Anno: 1989

Durata: 124’

Nazione: Gran Bretagna, Francia

Montaggio: John Wilson

Fotografia: Sacha Vierny

Interpreti: Helen Mirren, Richard Bohringer, Michael Gambon

 

Una creatura inglese sublime, “scoperta” tardi dal pubblico mainstream, Helen Mirren (classe 1945), si fa portavoce della creatività culinaria nell’ultima fatica di Lasse Hallström Amore, cucina e curry, titolo sempliciotto che non rende giustizia a quello originale, ben più poetico: The Hundred-Foot Journey.

Cento passi separano il raffinato ristorante stellato di Madame Mallory da quello più ruspante della famiglia Kadam, emigrata dall’India versa l’Europa in cerca di riscatto (sia professionale che personale). Hassan, uno dei figli della sconquassata famigliola indi ha talento da vendere in cucina, il cibo è la sua forza, la madre scomparsa il suo guru spirituale. Attraverso l’aiuto di Marguerite (una giovane aspirante chef della cricca Mallory) e dei libri sulla cucina francese che gli ha regalato, Hassan inizierà un cammino introspettivo verso l’arte gastronomica più raffinata: dalle salse basiche come la besciamella a piatti più ricercati come il piccione con tartufi. Ma sarà un’omelette a far capire il suo potenziale genio alla (inizialmente) scettica Madame Mallory, la quale lo prenderà sotto la sua ala protettrice riuscendo così a fargli toccare le vette più alte del prestigio.

Un film che molti hanno definito “semplice”, ed è proprio per questo che l’ho trovato interessante: gustoso, leggero, raffinato e melenso al punto giusto (co-producono Steven Spielberg e Oprah Winfrey). Un’ottima cena che dall’antipasto (l’arrivo nel paesino francese della famigliola indiana) al dolce (Hassan sceglie quello che ritiene giusto fare e quindi preferisce rimanere accanto ai propri cari, Marguerite compresa) non stona quasi mai. Il saccarosio aumenta durante i dialoghi tra il giovane chef e la bella Marguerite ma viene ben stemperato dai divertenti duetti acidi tra Madame Mallory alias Helen Mirren e il patriarca dei Kadam (il bollywoodiano Om Puri). Non è il filmone impegnato da intellettuale carico di significati intrinseci, anche se una chiave di lettura interessante la si trova sempre: dall’evidente diversificazione dell culture ed etnie che compongono la storia, alla più sottile liaison tra l’arte culinaria e il rapporto con la società odierna fatta di innovazioni gastronomiche e tecnologiche.

Dopo la visione del film di Hallström, ho trovato interessante creare un collegamento con Peter Greenaway e il suo Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989), dove la moglie del titolo è interpretata sempre da Helen Mirren, figura emblematica per entrambe le opere.

Nel film di Hallström vediamo una Mirren in cucina, ottima maîtresse tutta d’un pezzo, vedova, inflessibile e pure un po’ stronza (nella prima metà del film). Nel film di Greenaway invece, abbiamo una Mirren che si dipana tra sala e cucina, moglie frustrata e amante insoddisfatta di uno psicopatico criminale ingordo e violento, infelice a tal punto da tradirlo proprio nei bagni del ristorante (di proprietà del marito) dove si svolge la maggior parte della vicenda.

In Hallström, il personaggio di Madame Mallory parte come antagonista e si evolve positivamente nel corso della storia riuscendo a creare un proprio percorso emozionale che culminerà nel finale un po’ sdolcinato, come si è detto sopra. Pure in Greenaway si nota un’evoluzione del personaggio della moglie (Georgina): da una partenza apatica scalfita solo dall’attrazione fedifraga che nutre nei confronti del libraio Michael (l’amante del titolo), al tremendo – e geniale – finale vendicativo che riserverà all’abominevole marito: gli farà mangiare il cadavere di Michael ucciso proprio da lui.

Se in Greenaway, quindi, vediamo un’evoluzione sarcastica del personaggio femminile, dove dalla statica apatia si arriva a una catarsi violenta (ed efficacissima), in Hallström l’evoluzione rimane più canonica ma comunque ben scandita dalla sequenzialità degli eventi.

Due ottime prove recitative per un’attrice formidabile, fascinosa e di classe: Helen Mirren. Una garanzia. Sempre.

 

Voto per Hallström: 7,5

Voto per Greenaway: 9,5

Voto per Mirren: 10

Francesco Foschini

HARRY TI PRESENTO SALLY

Titolo originale: When Harry met Sally….

Anno: 1989

Durata: 94′

Regia: Rob Reiner

Soggetto: Nora Ephron

Sceneggiatura: Nora Ephron

Nazione: USA

Fotografia: Barry Sonnenfeld

Montaggio: Robert Leighton

Scenografia: Jane Musky

Colonna sonora: Marc Shaiman

Interpreti: Meg Ryan, Billy Crystal, Bruno Kirby, Carrie Fisher

TRAMA

Presentati da un’amica comune, Harry Burns e Sally Albright partono insieme da Chicago in automobile con destinazione New York. Durante il viaggio nasce un’attrazione reciproca.

RECENSIONE

Harry e Sally si conoscono all’università  durante un viaggio in macchina per New York. Lui,  classico maschio alfa, schietto e diretto; lei, nevrotica e sensibile, sa sempre cosa vuole:  tra i due ovviamente non c’è un grande feeling e si perdono quindi di vista. Dopo cinque anni Harry e Sally si incontrano in aereo e affrontano insieme un secondo lungo viaggio, ma ancora una volta non scatta la scintilla. Ci vorranno altri sei anni prima che i due si rivedano e diventino finalmente amici: ma cosa succede quando il sesso si mette di mezzo?

Più che un film di soggetto, Harry ti presento Sally è un film di sceneggiatura, la cui trama non è particolarmente originale:  la classica commedia romantica che vede protagonisti la “solita” coppia di amici che un po’ si amano e un po’ si odiano. Il  vero punto di forza è la struttura: il film si snoda tra le testimonianze di coppie di anziani, ormai ben collaudate, che raccontano come sia sbocciato il loro amore in età giovanile. Queste interviste hanno una doppia funzione: da una parte servono ad ironizzare sulla vicenda, costruendoci attorno una cornice documentaristica, dall’altra fungono da filo conduttore all’interno della narrazione, poiché “commentano” in maniera inconsapevole le vicissitudini dei due protagonisti. Meg Ryan e Billy Crystal, credibili e simpatici anche nelle loro eccessività caratteriali, hanno un’ottima alchimia e regalano dialoghi divertenti e intelligenti. Rob Reiner riesce a mantenere un ritmo sostenuto per tutta la durata del film, anche nella parte centrale che troppo spesso viene sottovalutata  in fase di sceneggiatura.

Del buon smooth jazz (Ella Fitzgerald e Louis Armstrong, Bing Crosby, Frank Sinatra…) fa da sottofondo ai battibecchi dei due protagonisti, ricordando in un certo qual modo le commedie di Woody Allen (a partire dai titoli di testa:  scritte bianche, fondo nero, il tutto sulle note di It had to be you ). In conclusione non può mancare un elogio della celeberrima scena ambientata nel bar, dove una Sally sempre più spontanea finge un orgasmo davanti a tutti presenti, dimostrando adun attonito Harry che in fondo le donne non sono le vittime inconsapevoli delle doti amatoriali maschili; in questo snodo narrativo in particolare si sente il tocco femminile (e anche un po’ femminista) della sceneggiatrice Nora Ephron. E’ solo una delle piccole perle di comicità di un grande cult cinematografico.

Voto: 7,5

Flavia Chinnì

GENTE COMUNE

Titolo originale: Ordinary People

Regia: Robert Redford

Sceneggiatura: Alvin Sargent

Anno: 1980

Durata: 124′

Produzione: USA

Fotografia: John Bailey

Montaggio: Jeff Kanew

Scenografia: Philip Bennet, J. Michael Riva.

Costumi: Bernie Pollack

Colonna sonora: Marvin Hamlisch, Johann Pachelbel

Interpreti: Donald Sutherland, Mary Tyler Moore, Timothy Hutton, Judd Hirsch.

TRAMA

Sconvolto dalla morte accidentale del fratello Buck, il giovane Conrad Jerrett tenta il suicidio. Dopo il ricovero in un ospedale psichiatrico, il ragazzo continua a sentirsi responsabile per la tragedia e non riesce a reintegrarsi nella vita quotidiana. Il padre Calvin cerca di aiutarlo, mentre la madre Beth non è in grado di fornirgli l’affetto di cui ha bisogno. Cruciale sarà il ruolo del dottor Berger, lo psichiatra che lo prenderà in cura.

RECENSIONE

duzzo 1

Redford, al suo esordio come regista, imbandisce la tavola cinematografica con un piatto senza troppe pretese, casereccio (nel senso più intimo e familiare del termine), ma genuino nella sua semplicità. Quello che ci propone non è niente di straordinario, è, anzi, qualcosa di “ordinario”, già dal titolo. E’ proprio questa l’intenzione di fondo: mettere a nudo una realtà, quella psicologica, che permea silenziosamente ma radicalmente anche la nostra vita quotidiana, facendolo nel modo più fresco e meno presuntuoso possibile.

Che ci sia riuscito pienamente rimane comunque opinabile, ma il regista è davvero in grado di accostare garbatamente una serie di quadri sintomatologici coerenti ed accurati con il profondo senso di tenerezza che riempe tutto il film.

duzzo 2

La trama è semplicissima, lineare, e l’intera pellicola è essenzialmente riassumibile come la vicenda psicologica di una famiglia, parallela al decorso della patologia psichiatrica del figlio. E’ sul meccanismo emotivo sottostante a questa storia che Redford interloquisce con lo spettatore e i suoi sentimenti, mostrandogli tutti quanti gli ingranaggi-personaggi coinvolti. Noi infatti vediamo -e sentiamo- tutto il disagio di Conrad; ci viene mostrata la patologia depressiva e post-traumatica manifestarsi anche e soprattutto nelle relazioni con gli altri e non possiamo fare a meno di assecondare questa immersione nella sensibilità del ragazzo, prima, e di tutti gli altri personaggi, poi.

Il padre Calvin, capace di mettersi totalmente in discussione per amore del figlio, è davvero riuscitissimo ed è reso perfettamente da Sutherland, forse il più capace fra tutti gli attori sullo schermo. Il confronto con la madre, poi, anaffettiva, al limite dell’alessitimia nel suo rapporto col figlio superstite, è drammaticamente autentico.

duzzo 3

Il giro sull’ottovolante empatico, tuttavia, dura poco e il dottor Berger rappresenta molto più un provvidenziale deus ex machina, funzionale a salvare una narrazione altrimenti vuota, piuttosto che un personaggio davvero credibile. Le sedute servono a scandire il progredire della storia ma non riescono a mostrarci una vera e propria maturazione di Conrad, condite da uno psicologismo spiccio, non banale, ma nemmeno profondo quanto vorremmo.

Riusciamo comunque a toccare la sensibilità di tutti gli attori, ma non arriviamo mai a farla totalmente nostra. Quando il film finisce, però, la sensazione è quella di aver partecipato a qualcosa di innocentemente bello. Forse è proprio questo che ha voluto Redford: non mostrare una storia incredibile, ma mostrare la forza di una storia comune nella sua dignitosa autenticità.

Voto: 7

Davide “Duzzo” Fedeli

LO ZOO DI VENERE

Titolo originale: A Zed & Two Noughts

Regia: Peter Greenaway

Sceneggiatura: Peter Greenaway

Anno: 1985

Durata: 115’

Produzione: Kess Kasander, Peter Sainsbury

Paese di produzione: Gran Bretagna, Olanda

Fotografia: Sacha Vierny

Montaggio: John Wilson

Scenografia: Ben van Os, Jan Roelfs

Costumi: Patricia Lim

Musica: Michael Nyman

Interpreti: Andréa Ferréol (Alba Bewick) Brian Deacon (Oswald Deuce) Eric Deacon (Oliver Deuce) Frances Barber (Venus de Milo)

TRAMA

Due fratelli gemelli siamesi (separati) etologi perdono entrambe le mogli in un assurdo incidente stradale con un cigno e questo aggrava la loro ossessione per la decomposizione animale.

RECENSIONE

“Sono stato affascinato dallo zoo come metafora, l’Arca come depositario della vita animale, come catalogo di tutte le specie riunite in un solo luogo”. [Peter Greenaway]

Lo Z.O.O (come preferisce Greenaway denominarlo) è un film complesso a partire dal  titolo: “Zoo: A Zed and Two Noughts”, una zeta e due zeri, è la parola “zoo” la sua scomposizione alfabetica. Le due “O” sono anche le iniziali dei gemelli protagonisti del film, ma due “O”, cioè due lettere ovali, simboleggiano anche due uova, e l’uovo porta la vita: i due etologi saranno anche padri nel corso del film. Così la “Z” è anche radice del verbo greco “zào”, vivere. Ma in primo luogo il titolo fa da riferimento al luogo di ambientazione, appunto: lo Zoo di Rotterdam, da qui nasce un rapporto privilegiato tra Greenaway e l’Olanda. È infatti alla pittura olandese, in particolare a Veermer, che PG attingerà per la costruzione scenica e spaziale e luministica del film: “Ho cercato di illuminare la maggior parte delle inquadrature da sinistra, come faceva lui nei suoi quadri, e di riprendere a circa un metro dal suolo, il che non era facile dato che spesso dovevo lavorare con animali dello zoo, non sempre prevedibili nei loro spostamenti”.

Zoo 5

La maggior parte delle immagini sono simmetriche, i personaggi sembrano cercare ossessivamente la specularità. Ma tutti gli sforzi vengono vanificati dall’informe che invade i tentativi di dare ordine al caos della vita. La simmetria come perfezione. L’asimmetria come sintomo di morte che si avvicina. Questo sarà il punto principale nell’analisi delle sequenze tematiche che ora andrò a svolgere.

Swan Crash: Two Die

I primi fotogrammi del film mostrano un gorilla con una gamba sola dietro delle sbarre, e una tigre in una gabbia, di cui Oliver sta contando i passi. Appena l’apparecchio segna 676 ( che non è altro che il quadrato di 26, numero ricorrente in tutto il film) si sente lo schianto di un incidente. La cinepresa si sposta ad inquadrare dall’alto il luogo del sinistro evento. In questa ripresa, l’immagine nella sua globalità, possiede una densità spasmodica, una  pregnanza polifonica, nel senso di quantità di informazioni che riesce a contenere e trasmettere.

Ci sono innumerevoli relazioni da evidenziare fra le inquadrature e la storia dell’immaginario, dell’arte, della mitologia, della scienza naturale, della storiografia. Swan Crash: Two Die, recita il titolo di una pagina di giornale, mentre una voce fuori campo ci informa che il cigno che ha causato lo schianto è un esemplare femmina (aveva in grembo due uova) e che il disastro ha avuto luogo in Swan’s Way: un’allusione alla proustina “Strada di Swann”. Ma il cigno è anche un emblema alchemico, simbolo del mercurio. Non a caso la macchina dell’incidente è una Ford Mercury, targata NID. 26. B/W, in cui le due lettere finali si riferiscono a Black and White: bianco e nero, colori essenziali nella logica del film a partire dal manto della zebra. L’enunciazione di questi simbolismi è fondamentali per capire la poetica di un regista quale Greenaway, il cui cinema è intriso di allegorie e trabocchetti, di cui egli spesso ne è l’unico referente: “Voglio propagandare un cinema delle idee senza necessariamente sostenere un’idea in particolare. Non sono un vero e proprio regista politico anche se credo che nella mia posizione ci sia una forte motivazione in questo senso: perché io discuto di cinema per amor suo“.

Il cinema nel cinema

 “Il cinema non è una finestra sul mondo. È un vasto territorio su cui dispiegare le idee”.

 “Amo narrare, ma credo che scrivere storie sia troppo facile… Non posso accettare che il film sia basato solo sulla struttura narrativa, dev’esserci qualcos’altro che organizzi il materiale”.

Uno spazio importante nel film è tautologicamente lo “spazio filmico”, rappresentato dal documentario di otto parti sull’evoluzione della specie di Darwin che fa da scansione ritmica e importante sottotesto narrativo. Greenaway tiene molto a rendere gli spettatori consapevoli del contesto filmico, molti infatti sono gli elementi riferiti alla necessità di intervenire sul contenuto per adeguarlo all’apparato visivo, come se il fatto che quanto vediamo sia un film, finisca col condizionare i comportamenti stessi dei suoi personaggi. Esemplare in questo senso è la battuta di Alba: «qui giace un corpo mutilato per poter entrare nell’inquadratura».

Zoo 3

Ricorrente è la presenza di schermi, proiettori, apparecchi adibiti alla trasmissione, ma che in qualche modo la rimandano assente o interrotta, come lo schermo televisivo in camera di Oliver che non manda segnale, o il telo di proiezione bianco davanti a cui i gemelli guardano sé stessi, come prevedendo la propria fine.

L’atto del fotografare la realtà è determinante: il film si apre con gli scatti dei giornalisti sul luogo dell’incidente e il rumore delle macchine fotografiche sarà una specie di sound-track nel documentare il progressivo disfacimento degli animali nelle teche.  Fino alla scena finale in cui c’è l’ultimo tentativo da parte dei gemelli di fotografare sé stessi nel momento fatale della morte, sperando ,come il fotografo di Antonioni in Blow-up, che la macchina possa rivelare quello che l’occhio non vede. Come lui si troveranno davanti a una sconfitta. I due gemelli-registi sperano che lasciando come testamento finale al pubblico il loro sacrificio, questo possa comprendere ciò che loro in vita non avevano capito. Ma il film-sacrificio al pubblico non arriverà mai.

 Filosofia nel boudoir

 “Le atrocità, gli orrori, i crimini più odiosi, non devono più meravigliarti Eugénie; le cose più immonde, più infami e più proibite sono quelle che più eccitano la mente” (De Sade, La filosofia nel boudoir)

Citazione dovuta a De Sade nella premessa;  filosofo libertino di cui Greenaway ne fa un riferimento sotteso nel suo Z.O.O, quasi una sorta di antologia del vizio, a cui rimanda anche la figura di Milo, con i suoi racconti erotici e fantasie zoofile. De Sade teorizza inoltre una poetica ossessionata dalla putredine dei corpi e dall’enumerazione di questi, entrambe tematiche care al regista. Vado a presentare ora, in diretta continuità con quanto scritto, uno spazio particolarmente congeniale allo sviluppo narrativo: le camere da letto. Qui cui avviene una vera e propria educazione estetica dei personaggi. Molto diverse appaiono le camere dei gemelli a sottolineare inizialmente le loro differenze: austera, quasi spoglia nei colori predominanti freddi quella di Oswald, mentre calda, ed estremamente barocca con il letto disfatto, i fogli di giornale sparsi, e le lumache, la camera del gemello Oliver. La camera da letto di Alba ha come colore dominante il bianco, e si presenta in tutte le sequenze inquadrata in modo simmetrico, frontale. Posti sui comodini ,vengono inquadrati in primo piano delle mele e una zebra peluche, si tratta di un altro gioco linguistico in cui A sta per apple, prima lettera dell’alfabeto , rimando al peccato originale, e Z sta per zebra. Animale omega nell’abbecedario filmico. Il concepimento di uno spazio scenico assolutamente teatrale, e statico, è una caratteristica nello stile di Greenaway, una sfida al cinema americano la scelta lunghi campi di matrice squisitamente pittorica:”Sono convinto che tutto ciò che ha a che fare con l’immagine – l’avanguardia, il meglio dell’espressione dell’arte visiva contemporanea – è sempre in ogni modo pittura”.

La donna alla spinetta

Vermeer

Nei quadri di Vermeer non si vedono mai le gambe delle figure, per questo motivo il chirurgo- falsario van Meergeren amputerà la seconda gamba di Alba, per renderla adatta a ricostruire il quadro della Signora alla spinetta. Altro dipinto che van Meegeren tenta di riprodurre con la sua amante-modella è L’Atelier (noto anche come Il pittore al lavoro)  a cui corrisponde  un rovesciamento ironico dell’immagine dove la donna si presenta nuda, in piedi. Infine, lo stesso modo di inquadrare le immagini, delimitando le figure al centro e “bloccando” l’immagine ai lati per mezzo delle pareti, ricorda lo stile vermeeriano. Per la prima volta la fotografia è firmata da Sacha Vierny, dove in una scena si possono notare le sue iniziale incise sulla parete (nel fotogramma in basso, le iniziali sono incise alla destra del quadro).

 Di che colore porta le mutandine?

Zoo 6

Lo Z.O.O è essenzialmente un film di domande (Greenaway sostiene che ce ne siano 5000!) , e i suoi dialoghi e luoghi sono costruiti intorno a queste. La sequenza del ristorante vede protagonista con un sottile e irreverente humor, Catarina Bolnes, l’assistente di van Meegeren e la curiosità dei gemelli a fini “educativi” sul colore delle sue mutandine, che poi si scoprirà non portarle affatto.  Domande a cui è impossibile trovare risposta, se non sotto il segno dell’ironia o della contemplazione, che diventa vista vagamente necrofila nella visione della decomposizione accelerata dei corpi degli animali seguendo il percorso dell’evoluzione della specie, fino alla zebra, e poi all’uomo. Ma la questione rimane aperta, con inquietanti e affascinanti punti di domanda.

Il recinto degli animali osceni

Il recinto degli animali osceni, è una sorta di luogo fantastico nominato dal personaggio di Venere, in uno dei suoi racconti erotici, e sarebbe il titolo di un racconto dallo stesso Greenaway, ove si narra di un padiglione clandestino dello zoo di Regent’s Park , delle sue misteriose specie di anfibi fornicatori, e di uno zoologo vittoriano morto suicida perché sorpreso in intimità con una conturbante scimmia glabra di specie sconosciuta. Le fantasie di cui il film è intriso appartengono a una precisa tradizione letteraria, ampiamente visitata da Borges (autore amato da Greenaway) quella della zoologia fantastica. L’ibrido come enigma non può non rimandare alla Sfinge, che viene citata in un racconto di Milo, e lei stessa darà vita alla fantasia del centauro accoppiandosi idealmente con le zebre. Per entrare nel recinto delle zebre si toglierà le scarpe, che vengono lanciate con un gesto eplicito da van Hoyten, questo particolare trovo sia un chiaro rimando alla simbologia della pittura fiamminga, in cui una donna se non portava le scarpe significava che era una donna “perduta”. Come riporta lo stesso Greenaway: “C’era un’epoca in cui l’arte fu capita dalla maggioranza delle persone, nei suoi livelli sia letterale che allegorico. Una donna che tiene un mandolino con tre corde rotte probabilmente significava che aveva subito tre aborti. Se non portava le scarpe significava che era una donna perduta“.

Sarcofaghi, gabbie / simmetrie spaventose

A) La progressione alfabetica in chiave zoologica, pronunciata da Beta, trova un’eccezione nella lettera “S” come “Sarcofago”, questo è un piccolo indizio per analizzare un luogo simbolico e metaforico del film: quello della teca-sarcofago, destinata a conservare il corpo nella sua inevitabile dissoluzione nel tempo. Il tempo come fattore erosivo e ricettivo da parte di chi osserva. L’osservatore al di là di una gabbia, o cornice, atta a isolare una porzione di mondo, come il disegnatore del film precedente (I misteri del giardino di Compton House), qui troviamo invece le sbarre della gabbia a fare da palinsesto ideale attraverso cui filtrare la natura, classificarla, come in bizzarro museo a cielo aperto, quello dello Zoo, di Venere, in quanto Pantheon. Gli stessi gemelli sono Castore e Polluce. Dimensione divina e blasfema, così come è presentato l’enigmatico personaggio di Felipe Arc-en-Ciel. Arcobaleno: ponte teso a collegare simbolicamente terra e cielo, uomo, animale e divino. In una parabola di grottesca destrezza ed entropia. Come nelle sequenze in cui vengono liberati gli animali dello zoo, in particolare quella dei due fratelli nella gabbia della tigre. Animale simbolico in quanto provvederà a stabilire una simmetria tra i due ferendoli specularmente. La tigre stessa è un animale simmetrico, Greenaway non può non aver pensato ai versi di una poesia del poeta inglese William Blake:

TIGER, tiger, burning bright

In the forest of the night,

What immortal hand or eye

Could frame thy fearful simmetry?

Spaventosa simmetria della tigre e dei gemelli nella loro costitutiva natura di “freaks” separati alla nascita da un taglio che vogliono ricucire, mentre sarà Milo a cucire per loro un vestito che gli “unifichi”. Quindi troviamo l’arte affabulatrice  sposarsi alla tessitura-montatura di un testo ,come di un abito, o di un film… Nella foresta di simboli e corrispondenze in cui Greenaway ci conduce, lo Z.O.O diventa un luogo di labirintiche memorie, la sua insegna al neon azzurro campeggia brillante nel prato creando suggestioni raffinatissime quanto surreali.

Bacon

B). Il vero luogo – spazio, su cui vorrei concentrare la mia attenzione è forse proprio in quelle sequenze che più destabilizzano lo spettatore: ovvero la ripresa all’interno delle teche della decomposizione accelerata dei corpi degli animali. Innanzitutto da sottolineare la griglia quadrettata delle teche. La griglia è un modo di rappresentare lo spazio caro al regista, in quanto le diagonali conducono verso l’esterno fuorviando, mentre solo la griglia permette di entrare nel vivo dell’immagine. (come già operato nel Mistero di Compton House). C’è una citazione anche a Muybridge e al suo apparecchio inventato nel 1884 per animare le sequenze fotografiche, dal nome appunto di: “zooprassinoscopio”. Greenaway ha espresso più volte ammirazione per questo precursore, che paragona addirittura a Vermeer nella capacità di fissare l’attimo infinitesimale, e a cui attribuisce una grande influenza su tutta la pittura moderna, a cominciare da Francis Bacon, la cui impronta visuale si ritrova nella manipolazione dei corpi messa in atto da Greenaway nelle morbose, quanto raffinate, sequenze del suo Z.O.O.

L’Escargot

L’Escargot è il luogo di residenza d’infanzia di Alba, una sorta di paradiso perduto in cui le lumache imperversano. Ella dice che basta lasciare la bicicletta fuori dall’ingresso per ritrovarla subito dopo col sellino ricoperto di lumache che “leccano il tuo sudore”. Alba e i due fratelli lì avranno modo di instaurare un rapporto più intenso l’uno con l’altro. Le differenze fra Oliver ed Oswald vanno progressivamente scomparendo, e lì tra i fasti della magione si orchestrerà un ménage à trois che porterà al concepimento gemellare di Alba, (oltre che alla sua morte). L’escargot, dunque: le lumache come foriere di vita e putrefazione. Imperniato sui due concetti di decomposizione e riproduzione, Z.O.O coniuga morte e vita. Vita in morte.  Le fasi dell’evoluzione animale e quelle della decomposizione scandiscono i tempi del film, e lo spettatore arriva a sentire come inevitabile che in questa catena di necessità – evolversi come specie, nascere come individuo, ci sia anche lui.

Zoo 4

 Lo scacco finale

 Scacco finale perché la partita o meglio – la morte – si gioca ancora una volta su una griglia quadrettata. Come gli scacchi ,bianchi / neri, così questa duplicità cromatica e simbolica -che tanto ricorre nel film-, si compie nel piano funesto dei  due gemelli: essi si stendono affianco dopo essersi iniettati una dose di mercurio – Virtuosistiche le inquadrature che riecheggiano la prospettiva del Cristo del Mantegna. Nella sua logica l’avamposto di morte è perfetto: è come se il telo bianco dove prima avevano visto la proiezione della zebra decomposta, e in cui poi si erano entrambi ri-specchiati, diventasse qui la tavola operatoria, sarcofago a cielo aperto, a cui consegnare il proprio sincrono disgregarsi. Una morte all’unisono come nella nascita gli aveva visti uniti-siamesi. Potente metafora dello schermo cinematografico che rovesciato orizzontalmente diventa il supporto ideale a cui consegnare la propria spoglia, ma è una consegna impossibile da attuare a causa, o proprio grazie, a quegli esseri che tanto fascino avevano avuto in vita per Oliver: les escargots, le  lumache, paladine discrete ed incontrastate del processo di morte, che qui in una serie di primi piani ed inquadrature nella loro indecenza sublimi , invadono letteralmente lo spazio, strisciando sulle attrezzature fondendole, ricoprendo ammassandosi, i corpi dei due fratelli, come un sarcastico sudario che ammette lo spettatore nel suo inesorabile giogo: a corrompere.

 Analisi di una sottosequenza:

 Interno del laboratorio dello zoo, SEQ 7, INQUADRATURA UNICA

 35”

Camera fissa. Piano medio frontale che inquadra nel centro la figura di van Hoyten che parla con Oliver e Oswald ai lati. Bambina in posizione avanzata. Dietro scorcio della carcassa del Dalmata. Su una lavagna posta sullo sfondo si può leggere la scritta SYMMETRIA OMNIA EST”.

 19” e 22”

Van Hoyten esce di campo, un bambino si avvicina da sinistra verso il corpo dell’animale, ne cerca il collare per cercare di leggervi il nome. Oswald prende una sedia, inizio di carrellata all’indietro mentre egli parla. Inizio musica di sottofondo, appena percepibile durante il parlato: “Mi piace stare seduto qui per ore. È come stare fra tanti fari sulla scogliera ognuno ti da uno sprazzo di luce negli spazi perduti del tempo. Ho scattato decine di migliaia di fotografie qua dentro e con infinita pazienza perché la decomposizione può essere molto lenta. Nove mesi, per un corpo umano“.

56”

La carrellata procede lentamente ad esplorare la stanza, (uno dei rari movimenti della cinepresa nel film) la musica cresce d’intensità, si va a creare una sincopata rapsodia di luci e flash, in una sinfonia terribile e singhiozzante, dove nell’oscurità il sonno mortale degli animali viene turbato dai lampi delle fotocamere, ognuna focalizzata su un animale, ognuna sincronizzata su un ritmo proprio, che si intreccia con quello delle altre: e nel buio i lampi lasciano intravedere, in grandi teche trasparenti, la processione di questi corpi in disfacimento. La simmetria come perfezione, l’asimmetria come sintomo della morte che si avvicina, lentamente, con infinita pazienza…

Commento della sequenza

Ho scelto di focalizzarmi su questa sequenza per una ragione sia estetica che epistemica nella logica di Z.O.O. La ragione estetica è limpida nel suo presentarsi alla vista dello spettatore, il quale viene immediatamente gratificato dalla bellezza del gioco di luci: assimilati a “fari su una scogliera che aprono squarci nello spazio infinito del tempo” – In questa frase si può riassumere (ma ogni riassunto è abortivo nel percorso di Greenaway) la disperata ricerca di un senso  in questa ossessione esiziale dei gemelli. All’inizio della scena è in campo l’antagonista della situazione: van Hoyten, figura negativa e gretta, che ha in odio gli animali, in particolare quelli bianchi e neri. Da dove deriva quest’odio? «Da niente», egli risponde (come a significare che il male non si può spiegare razionalmente) e accusa i fratelli di abusare delle attrezzature dello zoo. A lui è contrapposta la coppia di bambini che all’inizio del film portavano a guinzaglio il cane, come per trascinarlo all’interno dello zoo, e nella sequenza precedente l’osservavano steso riverso sulle strisce pedonali (zebra crossing, gioco linguistico che nella traduzione evapora).

Zoo 7

Sembra difficile tenere le redini alla narrazione di Z.O.O proseguente a zig zag, per vie  imbizzarrite, che il pubblico e la critica hanno contestato. Nonostante ciò resta l’opera preferita del regista, che afferma infatti: “Credo che il mio film preferito, quello che mi piacerebbe rifare, e che resta il mio film più incomprensibile, sia Lo Zoo di Venere. È un film enormemente ambizioso, ci sono dentro praticamente tre film tutti collegati a vicenda. Sotto vari punti di vista è un film zoppicante, profondamente sbilanciato; ma ci si affeziona di più all’opera meno riuscita”.

Recensire questo film è accettare il rischio di maneggiare un dispositivo complesso, sfuggente, perché tale è la funzione della critica: porsi come linguaggio eversivo rispetto al luogo comune delimitante, apertura all’altro-luogo, per provare non a giustificarlo né incriminarlo, ma semplicemente accettandolo come esperienza unica, quale vuole offrirsi quella proposta. Un’esperienza ampia, complessa, che Z.O.O ci mette a disposizione per stupirci, e forse un po’ prenderci in giro, con i suoi animali peluches, il suo humor nero così british, e uomini ossessionati dalla ricerca di un senso nel proprio destino, duale e manchevole, vivente e mortale, assurdamente, e fatalmente mortale.

 “In qualsiasi modo cerchiamo di comprendere la tragica situazione umana, possiamo star certi che i fati interverranno e distruggeranno le nostre intenzioni”. [PG]

Voto: 9

Claudia Porta

DECALOGO II

Titolo originale: Dekalog, dwa

Regia: Krzystof Kieslowski

Sceneggiatura: Krzystof Kieslowski, Krzystof Piesiewicz

Anno: 1988

Durata: 55’

Produzione: Polonia

Fotografia: Edward Klosinski

Montaggio: Ewa Smal

Scenografia: Halina Dobrowolska

Costumi: Hanna Cwiklo, Malgorzata Obloza

Colonna sonora: Zbigniew Preisner

Interpreti: Krystyna Janda, Aleksander Bardini, Artur Barcis

COMANDAMENTO

“Non nominare il nome di Dio invano”

RECENSIONE

Una vita e una morte sembrano indissolubilmente congiunte e solo un falso giuramento – in questo senso la trasgressione indiretta al secondo comandamento del titolo – riesce a sciogliere il legame e a far trionfare la vita in un lieto fine inaspettato. Ma i toni sono fortemente drammatici, nelle atmosfere come nei dialoghi e nella predominanza del silenzio, di tanto in tanto prepotentemente rotto da musiche malinconiche o da invadenti suoni di telefoni o campanelli. Il silenzio serve forse a sottolineare un’alterità, a porre una distanza critica rispetto agli eventi: questo è anche un possibile significato del famoso “testimone silenzioso” che compare misteriosamente in tutto il Decalogo (in questo caso nel ruolo di infermiere); noto anche come “angelo”, appellativo appropriato nella misura in cui rappresenterebbe una figura mediatrice, capace di inserire un’alterità all’interno della trama degli eventi; l’angelo e il silenzio sono inseparabili.

Alcune scene molto esplicite hanno una grande potenza simbolica e sono capaci di riassumere in sé i principali elementi del film. Non stupisce la ricorrenza del tema del liquido (non certo una prerogativa di Kieślowski, basti pensare a Tarkovskij), che può ergersi a simbolo di vita o di morte, valorizzando di volta in volta il silenzio o il fracasso, la memoria o l’oblio, l’immobilità o lo scorrere del tempo. Se nel Decalogo 1 l’improvviso spargersi dell’inchiostro aveva annunciato l’inaspettata tragedia, qui lo sgocciolare dell’acqua (come sangue) da un soffitto in rovina enfatizza il dolore della malattia, la vita che se ne va, salvo poi improvvisamente risorgere; il capovolgimento finale è stavolta preannunciato dall’efficace scena della vespa invischiata nello sciroppo dal quale riesce faticosamente e insperatamente a uscire.

Il contrasto fra vita e morte è già implicito nella contrapposizione fra la cura per le piante del medico e l’azione disperata e distruttiva di Dorota, che ne strappa a una a una le foglie per poi piegarne il gambo – scena bellissima, mi ha colpito molto. Il medico è il passato, che non sa far altro che rifugiarsi nella memoria; Dorota è nevroticamente dispersa nel presente tanto da non sapersi promessa di futuro (il figlio che ha in grembo e che sta per distruggere). Il futuro forse redimerà il passato, ma è il passato a salvare il futuro – dandosi però, come sempre, nella forma dell’illusione e dell’inganno.

 

Voto: 8

Patrick Martinotta

DECALOGO I

Titolo originale: Dekalog, jeden

Regia: Krzystof Kieslowski

Sceneggiatura: Krzystof Kieslowski, Ekrzysztof Piesiewicz

Anno: 1988

Durata: 55’

Paese di produzione: Polonia

Fotografia: Wieslaw Zdort

Montaggio: Ewa Smal

Scenografia: Halina Dobrowolska

Costumi: Hanna Cwiklo, Malgorzata Obloza

Colonna sonora: Zbigniew Preisner

Interpreti: Henryk Baranowski, Wojciech Klata, Artur Barcis

COMANDAMENTO

“Io sono il Signore tuo Dio. Non avrai altro dio all’infuori di me”.

RECENSIONE

Una perfetta tragedia contemporanea, pregevole dal punto di vista estetico (riprese, atmosfera, colori, musiche) ed efficace nel coinvolgerci nel rapporto padre-figlio quanto nel farci affezionare al bambino: il suo nome è Pavel, subito impariamo ad amare i suoi occhi, la sua voce, la sensibilità della sua intelligenza; ci inorridisce a un certo punto vederlo scomparire (letteralmente) e rivelare la sua vera identità: quella d’essere, nei meccanismi della vita e in quelli della tragedia, nient’altro che un archetipo – il Figlio – che serve ad attivare il meccanismo di colpa del Padre e il dissidio che innesca.

dekalog 1

Il motore propulsivo della tragedia è la scena – forse la più bella del film – della boccetta di inchiostro (nero, come la morte e la colpa) che si rovescia inspiegabilmente sulle carte e i libri bianchi (che restano inerti, non sanno spiegare), quindi sulle mani di Krzysztof, diventando simbolo della sua imminente sconfitta in quanto professore e in quanto padre. Da una parte la scena evoca una rottura nella trama degli eventi consequenziali (di cui la ragione si vanta di conoscere la chiave), dall’altra la colpa della quale cercare invano di lavarsi le mani; il nero ha ormai invaso l’innocenza del bianco e la tragedia è compiuta.

dekalog 2

Attenzione: si tratta di tragedia perché attraverso la morte Pavel la sconfitta dell’essere umano è totale; l’uomo è sconfitto in quanto Padre e in quanto Figlio, non possono salvarlo né la fede né la ragione in quanto sono due forme diverse di hybris. Certo la ragione è la vittima più esplicita: è l’idolo che vuole donare sicurezza (il determinismo atmosferico), felicità (la vittoria a scacchi), ma anche delusione (l’esperienza di un limite: il pc deduce che la mamma sta dormendo ma non sa cosa sta sognando) e paura (il pc che si accende da solo, sussurrando in modo minaccioso o beffardo “I am ready”). Ma se il film testimoniasse semplicemente la sconfitta della ragione, non si tratterebbe di una tragedia, perché nella fede ci sarebbe salvezza e senso; questo sarebbe stato il messaggio del film se la vittima fosse stata il padre. Ma a morire è Pavel, ossia il figlio che, per antonomasia, rappresenta l’innocenza. Con lui sono l’essere umano e la vita stessa a essere sconfitti. A morire è l’unico personaggio che aveva saputo aprirsi alla dimensione della fede quanto a quella della ragione; era l’unico personaggio vivo, espresso narrativamente dall’essere sempre in movimento: domanda, osserva con curiosità, corre, pattina. Ha davanti a sé il mistero della vita e tutto lo entusiasma e interessa (l’esperienza del limite attraverso l’incontro con un cane morto). Si tratta di tragedia perché la vittima è l’innocenza e a restare vivi sono il padre e la zia, ossia le due figure immobili e quindi già morte (il padre resta fermo in piedi, incredulo del tradimento della ragione; la zia si inginocchia rimanendo ferma nell’apparenza della fede). Il grigio del lago ghiacciato (doveva essere speranza di un gioco, diventano una trappola: questa è la vita) e il grigio del cielo si rispecchiano a vicenda e schiacciano l’uomo in una morsa inesorabile.

Voto: 8

Patrick Martinotta