Archivi categoria: 1970-1979

CALIGOLA

Regia: Tinto Brass, Bob Guccione (non accreditato), Giancarlo Lui (non accreditato)

Sceneggiatura: Gore Vidal, Bob Guccione, Giancarlo Lui

Anno: 1979

Durata: 154′

Nazione: Italia, USA

Fotografia: Silvano Ippoliti

Montaggio: Nino Baragli

Scenografia: Danilo Donati

Costumi: Danilo Donati

Colonna sonora: Paul Clemente

Interpreti: Malcolm McDowell, Teresa Ann Savoy, Hellen Mirren

TRAMA

Il regno dell’imperatore romano Gaio Cesare Germanico, detto Caligola. Decisamente poco storico, molto pornografico!

RECENSIONE

“Attraverso Caligola, per la prima volta nella storia, la poesia provoca l’azione e il sogno la realizza. Lui fa ciò che sogna di fare. Lui trasforma la sua filosofia in cadaveri. Voi dite che è un anarchico. Lui crede di essere un artista. […] Finché Caligola è vivo, io sono alla completa mercé del caso e dell’assurdo, cioè della poesia.” (Albert Camus, Caligola, 1941)

Nonostante la produzione risalga a fine anni settanta e l’ambientazione al 40 d.C, Caligola si presenta come un film atemporale, universale, profetico e perciò sempre attuale. Dal ritratto truce della corte romana dai costumi dissoluti e sfrenati, appare l’esasperata caricatura del potere. Una satira politica ante tempore, dove la fame di dominio e il conseguente delirio di onnipotenza sono brutalmente, ma efficacemente, rappresentati. La brama di assoluto diventa presto, una volta raggiunto, un bisogno insaziabile, un’esigenza. Caligola si presenta inizialmente come un giovanotto, sì un po’ bizzarro, eccentrico, ma tutto sommato innocuo, con il solo vizio di amare – e non soltanto “spiritualmente”– la bella sorella Drusilla. Ma una volta al vertice, iniziano i guai.

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È pura follia quella che balena negli occhi del protagonista, Malcom Mc Dowell, lo stesso lampo di delirio che ci accompagna in Arancia meccanica, sintomo della crescente ebrezza del potere assoluto. L’ascesa di Caligola diventa presto un’infinita discesa: più sale in alto e ottiene potere, più tende verso il basso, in preda a una cieca cupidigia dell’abietto. È affamato di sesso, di sangue e insieme ossessionato dalla morte, presenza fantasma che aleggia per tutto il film. La paura è compagna fedele dell’imperatore, che egli cerca di esorcizzare in ogni modo, con buffe danze apotropaiche, orge e rappresentazioni teatrali, senza però riuscire a sfuggirvi.

Tutto il regno di Caligola diventa una farsa, in stampo Satyricon-felliniano – non a caso lo scenografo è il medesimo, Danilo Donati – un incubo beffardo di cui egli è l’autore e il protagonista e gli altri sono solo personaggi-funzioni, apparenze demoniache. Caligola vuole essere un dio e decide di costruirsi il proprio Olimpo, un Olimpo infernale in cui le uniche leggi sono eccesso e amoralità. Nella sua ascesa-discesa verso gli Inferi il re coinvolge tutti i personaggi e lo spettatore. Tra le tante vittime innocenti, uccise per il puro brivido di onnipotenza, egli manderà a morte l’amico più fidato, Macro, e poi Gemello, fanciullo puro e innocente, per la sola colpa di non avere colpa.

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I suoi stravizi sessuali cresceranno in linea con la parabola della sua follia e potere. Incestuoso, non potendo sposare la sorella Drusilla, si accoppia con «la donna più dissoluta di Roma», Cesonia, amante della lussuria e della sfrenatezza. Ma l’unione matrimoniale diventa presto un menage a troi e Caligola “condiviso” tra le due donne.
Il culmine verrà raggiunto in quell’orgia immensa, «distruzione dell’urbe», dove il palcoscenico teatrale si trasforma in un set a luci rosse, che riassume le più fantasiose categorie in voga nella pornografia contemporanea (dalla fellatio e cunnilingus a rapporti lesbo e pratiche BDSM).

Nota: Questa recensione fa riferimento alla versione integrale (154 minuti) di Caligola di Tinto Brass (1979), successivamente rielaborata da Bob Guccione e Giancarlo Lui, con l’aggiunta di scene pornografiche ad hoc. Sono state prodotte varie versioni del film, tra cui Io, Caligola, realizzata nel 1984 da Rossellini, contenete materiale inedito.

Voto: 8,5

Lucciola della Ribalta

UNA GIORNATA PARTICOLARE

Regia: Ettore Scola

Sceneggiatura: Maurizio Costanzo, Ruggero Maccari, Ettore Scola

Anno: 1977

Durata: 110′

Produzione: Italia, Canada

Fotografia: Pasqualino De Santis

Montaggio: Raimondo Crociani

Scenografia: Luciano Ricceri

Costumi: Enrico Sabbatini

Colonna sonora: Armando Trovajoli

Interpreti: Marcello Mastroianni, Sophia Loren

TRAMA

6 maggio 1938, Hitler fa visita ai cittadini romani. Tra i pochi a non prendere parte all’importante parata ci sono Gabriele e Antonietta, dirimpettai. I due si incontrano e cominciano a domandarsi l’uno della vita dell’altra, fin quando Gabriele rifiuta le avance di Antonietta e confessa la sua difficile situazione di giornalista omosessuale oppresso dal rigore fascista.

RECENSIONE

Il film si apre con la sveglia da parte di Antonietta di marito e numerosi figli, tutti da preparare per l’evento della parata. Si evince subito il ruolo di moglie sottomessa e servile di Antonietta, regina della casa e del focolare, ligia ad adempiere il proprio dovere coniugale e a tenere fede al partito fascista, di cui il proprio marito è membro, soffocando e nascondendo le proprie inclinazioni e i propri ideali, vicini al partito solo per osmosi, per accondiscendenza. Dietro i suoi silenzi si nasconde una fitta coltre di solitudine, una triste rassegnazione a quella che è diventata (o è sempre stata?) la sua esistenza di donna. Appena svuotatasi la casa e tutti i palazzi del circondario comincia l’opera, in un gioco di riprese appassionante e ben studiate. Per un caso fortuito, Antonietta scampanella alla porta di Gabriele, fermandolo nel suo tentativo di suicidio. Antonietta pare particolarmente incuriosita dall’atteggiamento di quello strano dirimpettaio, così diverso dall’ideale di uomo dell’epoca e così lontano dagli stereotipi mascolini preimpostati.  La Loren, spinta dall’attrazione verso quella sua nuova e inconsueta compagnia, si spinge in dichiarazioni e tentativi di provocare Gabriele, di ricevere un suo bacio: è ormai un cult la scena del terrazzo, durante la quale, stendendo i panni, violenza, rabbia, frustrazione e verità vengono vomitate fuori, in un parossismo di bellezza cinematografica e di vita vissuta, fino ad arrivare alla confessione brutale, esasperata, della sua omosessualità.

Una giornata particolare 2

Antonietta, la stessa che svenne vedendo passare il Duce a Villa Borghese (episodio autobiografico, in quanto la stessa vicenda capitò a sua madre) decide di stare, comunque, vicino al suo Gabriele, di cui apprezza i gentili modi e la diversità, quasi come se, tale diversità, le desse la sensazione di essere libera, slegata dall’infelice matrimonio con il fascistissimo Emanuele, come se trovasse in quella conoscenza fortuita una possibilità per cambiarsi da dentro. Nel rumore di piatti di un pranzo a due, consumando una frittata (guarda caso, una scena simile, sempre con gli stessi interpreti, si vede anche ne I girasoli di Vittorio De Sica) cascano i fronzoli e le imposizioni strutturali e i due fanno l’amore, lontani da idee politiche e scelte sessuali, vicini solo a livello sentimentale, uniti in quella stretta che li vede uniti, diversi, uguali. La storia di un riscatto, quella di Antonietta, che l’ha vista, anche solo per un giorno, una donna capace di rischiare, di nuotare verso la novità, disinibita e piena di pulsioni sotterrate.

Particolarmente affascinante e astuta la tecnica registica con cui Scola ci permette di spiare – quando dalla finestra di Antonietta, quando dalla finestra di Gabriele – la casa vuota dell’altro, come se da altre prospettive si potesse ben vedere lo scenario in cui si consuma la tristezza mascherata di un complesso vissuto quotidiano.

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Belle scelte registiche, eleganti dialoghi, immense interpretazioni di due personaggi ormai cari al tessuto del cinema d’autore e particolari studiati con attenzione (dai quadri futuristi in casa di Gabriele alle inquadrature sulle scale): un film bellissimo, da cui ha preso spunto Ferzan Ozpetek nel suo la finestra di fronte. Scola si conferma un maestro e il suo lavoro un cumulo di emozioni al dettaglio.

Voto: 9

Alessandra Buttiglieri

NON SI SEVIZIA UN PAPERINO

Regia: Lucio Fulci

Soggetto: Lucio Fulci, Roberto Gianviti

Sceneggiatura: Lucio Fulci, Roberto Gianviti, Gianfranco Clerici

Anno: 1972

Durata: 102′

Produzione: Italia

Fotografia: Sergio D’Offizi

Montaggio: Ornella Micheli

Scenografia: Pier Luigi Basile

Costumi: Marisa Crimi

Colonna sonora: Riz Ortolani

Interpreti: Tomas Milian, Barbara Bouchet, Florinda Bolkan, Irene Papas, Marc Porel, Ugo D’Alessio, George Wilson

TRAMA

Un giornalista indaga su una serie di delitti di bambini in un paese del Sud Italia, fra la superstizione e la diffidenza degli abitanti.

RECENSIONI

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Fulci amava definirsi un “terrorista dei generi”, che assume non come statici contenitori, ma in quanto strumenti espressivi da scardinare per sfruttarne sino in fondo le potenzialità linguistiche. In Non si sevizia un paperino si raggiunge la massima fluidità di ibridazione, volta a generare una sovrapposizione fra i diversi filtri e ritmi narrativi. Ogni elemento – compresa la nota peculiarità dell’ambientazione diurna e provinciale – non va considerato autonomamente, ma dev’essere inquadrato all’interno di una logica tragica, tesa a valorizzare i contrasti insanabili che attraversano in senso dialettico l’intera narrazione: vita/morte, eros/thanatos, ragione/follia-magia, diurno/notturno, esterno/interno, campagna/città, sud/nord, sacro/profano, violenza/gioco, sessualità/repressione, colpevole/vittima, ecc.

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La prima inquadratura già propone il contrasto fra realtà provinciale (boschi, campagna) e quella moderna (cavalcavia, autostrada), finché il canto ancestrale, di sottofondo, viene bruscamente interrotto da una musica inquietante: delle mani scavano con disperazione nella terra, quasi a cercare una verità scomoda e sommersa. Il successivo spostamento d’ambientazione, dalla campagna al centro abitato, dagli esterni (abbaglianti) agli interni (oscuri), precipita lo spettatore nelle oppressioni e chiusure mentali della realtà paesana.

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Ai primi omicidi le angosce della gente si riverseranno contro gli estranei, gli alieni: lo scemo vittima della sua semplicità, la “maciara” colpevole d’incesto, la bella Barbara tanto minacciosa nelle sue curve provocanti quanto nella sua eccentricità cittadina, assumono, di volta in volta, il ruolo di capri espiatori. Non c’è un protagonista, ma una serie di personaggi che di volta in volta emergono per recitare il proprio ruolo e poi tornare sullo sfondo. In questo senso merita un discorso a parte la polizia, le cui accurate ricerche subiscono uno scacco (non è un caso che a svelare il mistero sia il giornalista, ossia un personaggio esterno alla realtà paesana); insieme alle forze dell’ordine Fulci si diverte a disorientare lo spettatore, più volte, prima di un finale che collega le tessere del puzzle ma impedisce ogni redenzione: il giallo si risolve, ma la tragedia rimane. La conclusione non tenta solo la sorpresa, ma la beffa. Una volta che le mani hanno finito di scavare la terra, ciò che rimane è una rappresentazione spietata dell’umano e dell’Italia, perfettamente racchiusa in una semplice osservazione del maresciallo: “Ecco qua… abbiamo costruito le autostrade e non siamo riusciti a vincere l’ignoranza e la superstizione”.

Voto: 8

Patrick Martinotta