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VACANZE AI CARAIBI – IL FILM DI NATALE

Regia: Neri Parenti

Sceneggiatura: Neri Parenti, Fausto Brizzi, Marco Martani, Domenico Saverni, Christian De Sica

Anno: 2015

Durata: 100’

Nazione: Italia, Repubblica Dominicana

Fotografia: Gino Sgreva

Montaggio: Luca Montanari

Scenografia: Maria Stilde Ambruzzi

Costumi: Eleonora Rella

Colonna sonora: Bruno Zambrini

Interpreti: Christian De Sica, Massimo Ghini, Angela Finocchiaro, Luca Argentero

TRAMA

Il nuovo cinepanettone.

RECENSIONE

Da alcuni anni che mi sentivo, come molti altri italiani, privato di un momento importante della ritualità natalizia. Dopo l’abbondante pranzo del 25 dicembre nessun digestivo era più potente del “giro al cinema” per ammirare uno degli oramai classici “cinepanettoni”. E se la firma era di Neri Parenti la qualità era assicurata. Dopo il successo di Vacanze di Natale a Cortina del 2011 eravamo stati privati di questa gioia: rinchiuso il Cav. Silvio Berlusconi a Cesano Boscone, il Loden di Mario Monti e le lacrime della Fornero avevano imposto al paese un cambio di copione: gli italiani da ridanciani erano diventati sobri. E venne il renzismo, e con lui la “ripresa”: natura abhorret a vacuo e se invece dei labbroni di Ruby dobbiamo accontentarci delle caste trecce della Boschi ce ne faremo una ragione.

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Ma che il peggio sia passato ce lo conferma il ritorno in grande stile di Christian De Sica. Guidato dal meraviglioso Neri Parenti il mattatore non si smentisce e regala una prestazione all’altezza delle aspettative (unico neo l’assenza del grande Massimo Boldi e delle sue avventure intestinali). Non saprei da che parte iniziare per lodare il film, che rappresenta certamente il meglio della cinematografia italiana degli ultimi anni. La sapienza di Neri Parenti nel calcolare al millimetro gli elementi del cocktail è ammirevole.

E’ evidente come questo film rappresenti anzitutto un inno alla libertà e un atto d’accusa contro il suo nemico oggi più potente: il politicamente corretto. E così, fin dal principio del film differenze etniche, orientamenti sessuali vengono travolti in una girandola di risate, come nella miglior commedia latina. Non manca anche una leggera e mai seriosa ironia sulla “malattia tecnologica” dei nostri giorni, che ai rapporti reali preferisce gli scambi in chat. Come è giusto che sia, non è mancata la bellezza femminile in costume, anche se su questo (ed è forse l’unico appunto che si può fare al film) avremmo preferito che il regista osasse di più. Ma su tutti ha svettato lui: Christian de Sica. Senza un segno di invecchiamento ci regala un personaggio amaro e irresistibile, sempre pronto a fronteggiare le avversità con l’astuzia e la battuta pronta. E’ l’ immagine di un’Italia divertente, ma cruda, spietata. La stessa Italia che, dopo la guerra, Vittorio De Sica aveva fatto conoscere al mondo. Da ladri di biciclette a ladri di ville caraibiche, la stessa allegra disperazione. E forse il figlio, ai Caraibi, ha superato il padre.

Voto: 10

Marco Brighenti

IL RAGAZZO INVISIBILE

Regia: Gabriele Salvatores

Sceneggiatura:  Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo

Anno: 2014

Durata: 100′

Nazione: Italia, Francia

Fotografia: Italo Petriccione

Montaggio: Massimo Fiocchi

Costumi: Sara D’agostin

Colonna sonora: Federico De Robertis, Ezio Bosso, Luca Benedetto, Marialuna Cipolla, Carillon

Interpreti: Ludovico Girardello, Valeria Golino, Fabrizio Bentivoglio, Noa Zatta, Christo Jivkov, Ksenia Rappoport.

TRAMA

Un adolescente scopre di avere un grande dono. Nel frattempo nel suo paese iniziano ad essere rapiti altri ragazzi. È l’occasione per sfruttare il proprio potere.

RECENSIONE

 

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Un film sui supereroi targato Italia. Questa prima indicazione potrebbe farci pensare che i nostri classici supereroi (quelli da panettone, per intenderci) mandino in malora anche un genere che gli americani ci hanno insegnato ad amare, quasi venerare (basti pensare che anche una formica ora è supereroe credibile). Invece no! Salvadores costruisce una trama che risulta essere credibile, appassionante e seria allo stesso tempo.

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Il disagio, la scoperta, il dono, la messa in servizio degli altri , la crisi e la risurrezione sono tutte tappe tipiche ma anche necessarie, che cerchiamo e amiamo nei supereroi tanto forti e tormentati di questi tempi.

A parte la polizia troppo vicina alle macchiette che ci ricordano le famose serie televisive come “Distretto di polizia” e “Squadra Antimafia” ( ma forse qui la distorsione è che sono troppo vicine alla realtà e troppo lontane dall’immagine dei poliziotti FBI) e i ragazzi compagni di scuola del protagonista i quali rimangono nel canovaccio di un carattere che perpetua un’unica modalità di azione (escono dal personaggio solo quando sono in grande difficoltà e vedono nel protagonista un personaggio maturo), il resto regge alla grande.

Regia e scelta dei tempi ottima. Permettono allo spettatore di non perdere il filo della storia e allo stesso tempo con buoni flashback scoprire la genesi del nostro beniamino.

Non manca neanche un accenno clinico al disturbo da deficit da attenzione e iperattività che permette grande pubblico di farsi qualche domanda e acquisire consapevolezza che andare dallo psicologo non significhi per forza essere affetti da pazzia.

Finale ovviamente aperto perché è quello che vogliamo da un superfilm che si rispetti. Sembra infatti che un seguito verrà girato a gennaio 2016.

Spese di realizzazione: 8 milioni
Boxoffice: 5 milioni

Voto: 7

Daniele Somenzi

ABACUC

Regia: Luca Ferri

Anno: 2015

Durata: 85′

Nazione: Italia

Interpreti: Dario Bacis

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RECENSIONE

Tra le rivelazioni delle uscite degli ultimi mesi, “Abacuc” di Luca Ferri (nelle sale dal 2 novembre) riprende in mano il filo reciso del cinema cosiddetto sperimentale per costruire, o decostruire, un viaggio grottesco nel Nord Italia dominato da scempi urbanistici e edili di ogni tipo, viaggio al termine della notte alla fine del quale non rimane che rifugiarsi nel cimitero, luogo-simbolo della morte di ciò che è stato definito postmoderno (e, per dirla con l’ultimo Houellebecq, morte dell’intera civiltà occidentale, finalmente accordata all’etimo che la vuole assimilata al concetto di tramonto). Un tramonto ferocemente iconoclasta, quello intessuto dalle immagini in bianco e nero girate in super8 da Ferri e dalla colonna sonora analogica e post-atomica del compositore Dario Agazzi, che non rinuncia però al taglio sarcastico fatto di fendenti ora apparentati al teatro dell’assurdo (“Io leggo Lacan”, ci confessa lo scheletro affrescato) ora provocatori (“Chi ascolta jazz è un eiaculatore precoce”; ”Paradossi delle reliquie: i prepuzi di Gesù erano dodici”).

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Film sulle rovine e sulla monumentalità della rovine, come ha avuto modo di scrivere il suo autore, Abacuc vede come protagonista un uomo di duecento chili, quasi immobile, lontano dalle emozioni e dalla parola, protagonista di una sorta di remake di “L’ultimo uomo sulla terra”; Abacuc è un Buster Keaton oltre il declino, è il cadavere di Keaton che si aggira in un Paese ormai tumefatto. Come il Jack Nance di Eraserhead, vive in una piéce che ne racconta allo stesso tempo la condizione di superstite e di testimone dello stato terminale di un’epoca: non rimane che sperare, spogliando un petalo dopo l’altro una margherita nel mi-ama-non-mi-ama fanciullesco, che ci sia (ancora) qualcuno ad amarlo.

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Abacuc si pone, o è posto, a tutti gli effetti come una marionetta senza spettatore, catapultato al centro di un teatro finzionale che cortocircuita con la realtà, squarciandola e rivoltandola su se stessa. Nessun tipo di costruzione narrativa è più possibile: ad Abacuc e al suo vago pellegrinare non resta che ascoltare una voce meccanica ad una cornetta che, attraverso la reiterazione di citazioni del passato, lo conduce ad un continuo e inesorabile vicolo cieco, al termine del quale il linguaggio perde la sua valenza di segno e di testimonianza. Cosa rimane? Rimangono la contemplazione estetica, le macerie dei secoli, i volti dei defunti esposti sulle lapidi accompagnati da improbabili storie, montate e rimontate casualmente come in una letteratura combinatoria mortifera. Non è finzione e non è documentario: siamo nella frattura, nella lacuna, nel buco nero del linguaggio.

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“La musica, come tutte le arti, ha l’umile compito di descrivere la propria fine”, ci suggerisce la voce meccanica che accompagna l’esistenza di Abacuc. E il cinema di Ferri sembra voler inseguire il suo protagonista, la sua marionetta, proprio verso la fine di ogni modalità della rappresentazione. L’arte cinematografica deve implodere in se stessa, ricercare le proprie rovine (si agita il cadavere di Walter Benjamin) e, una volta trovata la propria estinzione, sperare in una rinascita. Abacuc si pone in questo senso come un superamento totale (e totalizzante) della storia del cinema: è slapstick comedy ma è oltre, è cinema delle avanguardie ma è oltre, è documentario ma è oltre, è soprattutto racconto post-moderno, ma oltre. Col suo lungo canto funebre, in questo Kaddish per immagini e musiche, Ferri firma un atto fortemente politico, uno sguardo allarmato e provocatorio sul cinema contemporaneo, spogliandolo delle facili epiche quotidiane e riportando l’attenzione sulla funzione espressiva e quasi oltraggiosa dell’occhio cinematografico, che qui assume le sembianze del volto incancellabile di Abacuc.

Voto: 8

Stefano Malosso

CALIGOLA

Regia: Tinto Brass, Bob Guccione (non accreditato), Giancarlo Lui (non accreditato)

Sceneggiatura: Gore Vidal, Bob Guccione, Giancarlo Lui

Anno: 1979

Durata: 154′

Nazione: Italia, USA

Fotografia: Silvano Ippoliti

Montaggio: Nino Baragli

Scenografia: Danilo Donati

Costumi: Danilo Donati

Colonna sonora: Paul Clemente

Interpreti: Malcolm McDowell, Teresa Ann Savoy, Hellen Mirren

TRAMA

Il regno dell’imperatore romano Gaio Cesare Germanico, detto Caligola. Decisamente poco storico, molto pornografico!

RECENSIONE

“Attraverso Caligola, per la prima volta nella storia, la poesia provoca l’azione e il sogno la realizza. Lui fa ciò che sogna di fare. Lui trasforma la sua filosofia in cadaveri. Voi dite che è un anarchico. Lui crede di essere un artista. […] Finché Caligola è vivo, io sono alla completa mercé del caso e dell’assurdo, cioè della poesia.” (Albert Camus, Caligola, 1941)

Nonostante la produzione risalga a fine anni settanta e l’ambientazione al 40 d.C, Caligola si presenta come un film atemporale, universale, profetico e perciò sempre attuale. Dal ritratto truce della corte romana dai costumi dissoluti e sfrenati, appare l’esasperata caricatura del potere. Una satira politica ante tempore, dove la fame di dominio e il conseguente delirio di onnipotenza sono brutalmente, ma efficacemente, rappresentati. La brama di assoluto diventa presto, una volta raggiunto, un bisogno insaziabile, un’esigenza. Caligola si presenta inizialmente come un giovanotto, sì un po’ bizzarro, eccentrico, ma tutto sommato innocuo, con il solo vizio di amare – e non soltanto “spiritualmente”– la bella sorella Drusilla. Ma una volta al vertice, iniziano i guai.

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È pura follia quella che balena negli occhi del protagonista, Malcom Mc Dowell, lo stesso lampo di delirio che ci accompagna in Arancia meccanica, sintomo della crescente ebrezza del potere assoluto. L’ascesa di Caligola diventa presto un’infinita discesa: più sale in alto e ottiene potere, più tende verso il basso, in preda a una cieca cupidigia dell’abietto. È affamato di sesso, di sangue e insieme ossessionato dalla morte, presenza fantasma che aleggia per tutto il film. La paura è compagna fedele dell’imperatore, che egli cerca di esorcizzare in ogni modo, con buffe danze apotropaiche, orge e rappresentazioni teatrali, senza però riuscire a sfuggirvi.

Tutto il regno di Caligola diventa una farsa, in stampo Satyricon-felliniano – non a caso lo scenografo è il medesimo, Danilo Donati – un incubo beffardo di cui egli è l’autore e il protagonista e gli altri sono solo personaggi-funzioni, apparenze demoniache. Caligola vuole essere un dio e decide di costruirsi il proprio Olimpo, un Olimpo infernale in cui le uniche leggi sono eccesso e amoralità. Nella sua ascesa-discesa verso gli Inferi il re coinvolge tutti i personaggi e lo spettatore. Tra le tante vittime innocenti, uccise per il puro brivido di onnipotenza, egli manderà a morte l’amico più fidato, Macro, e poi Gemello, fanciullo puro e innocente, per la sola colpa di non avere colpa.

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I suoi stravizi sessuali cresceranno in linea con la parabola della sua follia e potere. Incestuoso, non potendo sposare la sorella Drusilla, si accoppia con «la donna più dissoluta di Roma», Cesonia, amante della lussuria e della sfrenatezza. Ma l’unione matrimoniale diventa presto un menage a troi e Caligola “condiviso” tra le due donne.
Il culmine verrà raggiunto in quell’orgia immensa, «distruzione dell’urbe», dove il palcoscenico teatrale si trasforma in un set a luci rosse, che riassume le più fantasiose categorie in voga nella pornografia contemporanea (dalla fellatio e cunnilingus a rapporti lesbo e pratiche BDSM).

Nota: Questa recensione fa riferimento alla versione integrale (154 minuti) di Caligola di Tinto Brass (1979), successivamente rielaborata da Bob Guccione e Giancarlo Lui, con l’aggiunta di scene pornografiche ad hoc. Sono state prodotte varie versioni del film, tra cui Io, Caligola, realizzata nel 1984 da Rossellini, contenete materiale inedito.

Voto: 8,5

Lucciola della Ribalta

UNA GIORNATA PARTICOLARE

Regia: Ettore Scola

Sceneggiatura: Maurizio Costanzo, Ruggero Maccari, Ettore Scola

Anno: 1977

Durata: 110′

Produzione: Italia, Canada

Fotografia: Pasqualino De Santis

Montaggio: Raimondo Crociani

Scenografia: Luciano Ricceri

Costumi: Enrico Sabbatini

Colonna sonora: Armando Trovajoli

Interpreti: Marcello Mastroianni, Sophia Loren

TRAMA

6 maggio 1938, Hitler fa visita ai cittadini romani. Tra i pochi a non prendere parte all’importante parata ci sono Gabriele e Antonietta, dirimpettai. I due si incontrano e cominciano a domandarsi l’uno della vita dell’altra, fin quando Gabriele rifiuta le avance di Antonietta e confessa la sua difficile situazione di giornalista omosessuale oppresso dal rigore fascista.

RECENSIONE

Il film si apre con la sveglia da parte di Antonietta di marito e numerosi figli, tutti da preparare per l’evento della parata. Si evince subito il ruolo di moglie sottomessa e servile di Antonietta, regina della casa e del focolare, ligia ad adempiere il proprio dovere coniugale e a tenere fede al partito fascista, di cui il proprio marito è membro, soffocando e nascondendo le proprie inclinazioni e i propri ideali, vicini al partito solo per osmosi, per accondiscendenza. Dietro i suoi silenzi si nasconde una fitta coltre di solitudine, una triste rassegnazione a quella che è diventata (o è sempre stata?) la sua esistenza di donna. Appena svuotatasi la casa e tutti i palazzi del circondario comincia l’opera, in un gioco di riprese appassionante e ben studiate. Per un caso fortuito, Antonietta scampanella alla porta di Gabriele, fermandolo nel suo tentativo di suicidio. Antonietta pare particolarmente incuriosita dall’atteggiamento di quello strano dirimpettaio, così diverso dall’ideale di uomo dell’epoca e così lontano dagli stereotipi mascolini preimpostati.  La Loren, spinta dall’attrazione verso quella sua nuova e inconsueta compagnia, si spinge in dichiarazioni e tentativi di provocare Gabriele, di ricevere un suo bacio: è ormai un cult la scena del terrazzo, durante la quale, stendendo i panni, violenza, rabbia, frustrazione e verità vengono vomitate fuori, in un parossismo di bellezza cinematografica e di vita vissuta, fino ad arrivare alla confessione brutale, esasperata, della sua omosessualità.

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Antonietta, la stessa che svenne vedendo passare il Duce a Villa Borghese (episodio autobiografico, in quanto la stessa vicenda capitò a sua madre) decide di stare, comunque, vicino al suo Gabriele, di cui apprezza i gentili modi e la diversità, quasi come se, tale diversità, le desse la sensazione di essere libera, slegata dall’infelice matrimonio con il fascistissimo Emanuele, come se trovasse in quella conoscenza fortuita una possibilità per cambiarsi da dentro. Nel rumore di piatti di un pranzo a due, consumando una frittata (guarda caso, una scena simile, sempre con gli stessi interpreti, si vede anche ne I girasoli di Vittorio De Sica) cascano i fronzoli e le imposizioni strutturali e i due fanno l’amore, lontani da idee politiche e scelte sessuali, vicini solo a livello sentimentale, uniti in quella stretta che li vede uniti, diversi, uguali. La storia di un riscatto, quella di Antonietta, che l’ha vista, anche solo per un giorno, una donna capace di rischiare, di nuotare verso la novità, disinibita e piena di pulsioni sotterrate.

Particolarmente affascinante e astuta la tecnica registica con cui Scola ci permette di spiare – quando dalla finestra di Antonietta, quando dalla finestra di Gabriele – la casa vuota dell’altro, come se da altre prospettive si potesse ben vedere lo scenario in cui si consuma la tristezza mascherata di un complesso vissuto quotidiano.

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Belle scelte registiche, eleganti dialoghi, immense interpretazioni di due personaggi ormai cari al tessuto del cinema d’autore e particolari studiati con attenzione (dai quadri futuristi in casa di Gabriele alle inquadrature sulle scale): un film bellissimo, da cui ha preso spunto Ferzan Ozpetek nel suo la finestra di fronte. Scola si conferma un maestro e il suo lavoro un cumulo di emozioni al dettaglio.

Voto: 9

Alessandra Buttiglieri

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Regia: Daniele Gaglianone

Soggetto: Daniele Galianone, Giorgio Cattaneo

Anno: 2014

Durata: 120’

Nazione: Italia

TRAMA

Da 25 anni la popolazione della Val di Susa lotta contro la TAV. Una fotografia della frattura fra Stato e cittadini.

RECENSIONE

“Quello preso meglio ero io. La gente reagiva alla polizia in maniera vivace” così Aurelio (dj di Radio Black Out) racconta la sua esperienza di lotta. Il suo desiderio di testimoniare in diretta gli scontri tra i valsusini e la polizia è stato esaudito. Così come Marisa, titolare di un agriturismo, che si è incatenata alla recinzione dei cantieri con le manette comprate in un sexy shop. “Ma il pelo l’ho tolto!”, precisa l’arzilla signora.

Presentato come film italiano al Filmmaker Festival di Milano 2014, Qui tratteggia una serie di ritratti di cittadini che non vogliono perdere il loro il territorio d’appartenenza, dove tutti lottano non contro la polizia ma contro “la polizia No TAV” spiega un padre di famiglia ed ex carabiniere, rimasto ferito in volto da un lacrimogeno. C’è chi si aggrappa alla religione, come Gabriella o chi, come Cinzia, cerca di spiegare il punto di vista dei valsusini alla polizia: “la lotta aggiunge ricchezza alla propria vita. Io sono dalla parte giusta”, afferma la ragazza continuando con “dicono che se non vogliamo la TAV non vogliamo il progresso. Eppure non mi sembra di vivere in una caverna”.

Secondo tutti gli intervistati la TAV è un progetto voluto dalle alte sfere governative e politiche, troppo distanti – fisicamente e mentalmente – per poter realmente comprendere l’enorme disagio creato. Dal 1989. Gaglianone ha cominciato le riprese nel 2012, senza una precisa idea iniziale, lasciando che questi personaggi si raccontassero spontaneamente davanti alla telecamera. Spiega il regista: “Ho fatto questo film perché vivo a Torino. Non sono un giornalista e non è questo il mio lavoro. Mi interessava sentire il racconto di queste persone che si sono trovate da un giorno all’altro in una zona di guerra. Per questi cittadini il rapporto con lo Stato si è ridotto al rapporto con un agente in tenuta antisommossa”.

Un’opera che non vuole spiegare né i pro e contro del progetto ferroviario, né le ragioni della protesta, ma prova a mostrare come i cittadini italiani siano stati totalmente abbandonati dalle istituzioni. Un punto di vista, quello del regista, volutamente parziale. Limitandosi a far conoscere allo spettatore chi siano veramente i valsusini, Gaglianone si è fatto antropologo di un malessere comune.

Voto: 7,5

Francesco Foschini

LA CARNE

Regia: Marco Ferreri

Sceneggiatura: Liliana Betti, Marco Ferreri, Massimo Bucchi, Paolo Costella

Anno: 1991

Durata: 90’

Produzione: Italia

Fotografia: Ennio Guarnieri

Montaggio: Ruggero Mastroianni

Scenografia: Sergio Canevari

Costumi: Nicoletta Ercole

Colonna sonora: Kate Bush, Queen

Interpreti: Sergio Castellitto, Francesca Dellera, Petra Reinhardt, Farid Chopel

TRAMA

Paolo, suonatore di pianobar, conosce durante una sua performance Francesca, donna voluttuosa e fascinosa, con la quale si rifugia in una piccola casetta sul mare dove potranno trascorrere intere giornate a mangiare e fare sesso.

RECENSIONE

Il protagonista di questo film è un impiegato comunale con la passione per la musica. Il dubbio sfocia sin dal principio con Ferreri se ben pensate all’utilizzo dei termini utilizzati pocanzi: dove sta la giustezza dell’uomo nel seguire la passione? Potrà sembrare superfluo soffermarsi sul peso della scelta del tempo libero del protagonista/uomo, ma così non pare se si affondano le congetture sull’attività che viene prescelta come passione e quindi motore e movente di emotività che non è comunque risultato di un’opera abile. La vita di Paolo è fondamentalmente una nota stonata che aleggia tuonante nel pessimismo di Ferreri che lo vuole marito fallito e soprattutto padre snaturato che ripudia i figli e predilige invece mantenere i rapporti con il cane, Giovanni.

Durante un’esibizione però accade l’impensabile: il misero e ben poco affascinante uomo conosce Francesca, donna di giunonica ed insieme quasi eterea bellezza, incomprensibilmente attratta da lui. Paolo accompagna la misteriosa dama in una casa di sua proprietà poggiata dolcemente a pochi passi dalle rive della marina di Ardea, fuori Roma, per trascorrere giorni di adolescenziale passione. Le tematiche affrontate da Ferreri in questa pellicola sono tra le più svariate e vengono tutte costrette in soli 90 minuti di proiezione; questa scelta non va sicuramente a favore del pubblico che si trova a dover tenere insieme ogni singolo e ampio concetto, molto spesso solo accennato dal regista, per poi cercare di sciogliere tra sé e sé una matassa argomentativa di esistenza dubbia.

Ancora una volta Ferreri si dimostra spietato nei confronti della società, o meglio del singolo, e non ha alcuna compassione nel ritrarre il soggetto maschile come avvilente, senza spina dorsale e vittima di un romanticismo che sfocia nel grottesco per poi dipingere il ruolo femminile come semplice oggetto, mera materia di cui fruire, un amor cortese solo apparente (contrastato dal finale). Questo femmineo corpo viene dilaniato lentamente e ripetutamente a colpi di battute sconnesse che come sciabole vengono sferzate dalla voce sibilante e insopportabilmente artefatta della Dellera. L’avvenente attrice dalla luminosissima pelle porcellana rende bene l’idea della donna come corpo insieme divino ed erotico, di questo almeno bisogna darle atto, ma la palese volontà di non recitare, determinata dalla probabile quanto chiara ed effettiva mancanza conoscitiva anche del solo termine, non sempre porta ad un effetto naturale e realistico, dando invece molto spazio nell’immaginario ad un essere allucinato e stupefacente. Ferreri personifica Francesca con un particolare animale, la cicogna, che congiunge allo strano desiderio di maternità del personaggio. La protagonista poco tempo prima dell’incontro con lo scellerato pianista, abortisce il figlio di un giovanissimo guru dalle fantomatiche prestanze tantriche. La cicogna, oltre che tenero messaggero di genesi, è anche uno dei pochi uccelli migratori che si nutre di serpi e il serpente è a sua volta simbolo sia per Dioniso che per Siva del Linga, notoriamente e genericamente conosciuto a tutti come fallo. Non è l’unico accenno orientaleggiante nella pellicola, a credito di una potenziale valenza di questa chiave interpretativa.

L’intero corpo del film è strutturato in modo tale che i protagonisti siano effettivamente l’epicentro degli avvenimenti e in professionale solitudine Castellitto non risulta essere all’altezza di un lungo monologo recitativo, trovandosi in un ruolo poco credibile e come per la compagna di cast, un po’ acerbo come espressione della missione di Ferreri. (A meno che non si pensi che le scelte interpretative siano state compiute per aumentare il senso grottesco del film).

Al termine della pellicola il dubbio potrebbe rimanervi ma badate bene a non lasciarvi influenzare dal troppo amore che riponete nell’artefice della finzione. Malgrado queste ‘pecche’ bisogna comunque sottolineare la presenza dei tipici lampi di genio del cinema poco convenzionale di Ferreri. Spicca il tema dell’isolamento utilizzato anche in altri film, come nel più noto La Grande Abbuffata dove qualche anno prima il regista univa i suoi topos ricorsivi, cibo e sesso, che ritroviamo appunto anche ne La Carne.  Le riprese del film terminano su una spiaggia che si presta a cornice in grado di esaltare l’immagine centrale del mare nel momento successivo all’unione eterna tra Paolo e l’oggetto anelato e idolatrato, espressione della manifestazione di Dio, avvenuta attraverso un atto cannibalesco. Nella celata follia del protagonista vi è compiutezza e sensatezza portata avanti logicamente ed espressione di un’accennata e sempre lucida polemica sul rito dell’eucaristia cristiana. Ferreri propone un finale simile anche per I Love You, dove Christopher Lambert non trova al contrario realizzazione come essere umano e permane invece un senso di vacuità, di manchevolezza, di povertà esistenziale. In un altro capolavoro, Dilinger è morto, troviamo il mare come ultima istanza, molto più minaccioso dei precedenti che come elemento naturale pressante e soffocante non lascia pensare ad un futuro roseo per il genere umano che percorre la sua predestinazione.

In sintesi, Paolo & Francesca, malgrado la citazione poetica, non vengono promossi e con la stessa crudeltà rinvio Ferreri nel girone dei lussuriosi, perché in ben altri film ci ha accompagnati come nostra Beatrice dantesca alla rosa del paradiso.

Voto: 5

Jessica Egitto

LA MAFIA UCCIDE SOLO D’ESTATE

Regia: PierFrancesco Diliberto

Sceneggiatura: Michele Astori, Pierfrancesco Diliberto, Marco Martani

Anno: 2013

Durata: 90’

Produzione: Italia

Fotografia: Roberto Forza

Montaggio: Cristiano Travaglioli

Scenografia: Marcello Di Carlo

Costumi: Cristiana Ricceri

Colonna sonora: Santi Pulvirenti

Interpreti: Cristiana Capotondi, Pierfrancesco Diliberto, Ginevra Antona, Alex Bisconti, Claudio Gioè

TRAMA

La storia accompagna il protagonista Arturo nella sua giovinezza fino alla prima età adulta, raccontando il suo punto di vista sui fatti accaduti a Palermo tra gli anni 80 e i primi anni 90.

 RECENSIONE

Chi ha seguito i lavori di Pierfrancesco Diliberto – in arte “Pif” – ritroverà in questa sua prima opera da regista la stessa concretezza delle puntate de “Il testimone”, con le sue inchieste divertenti, leggere ma con un punto di vista sempre mirato a restituire un’immagine concreta della persona che intervistava.

In “La mafia uccide solo d’estate” il regista è stato in grado, con inaspettata semplicità, di far vivere una situazione per lui importante e drammatica, in una modalità quasi priva di giudizio nei confronti degli avvenimenti, ma descrivendoli con gli occhi di un bambino e poi di un adolescente e poi di un adulto disinteressato alla situazione in sé.

È proprio questa acriticità che permette allo spettatore di mettersi nei panni dell’altro e riconoscere l’importanza di conoscere questa storia, che è la nostra storia, così vicina nel tempo ma così lontana nella memoria di chi come me è nato nei primi anni 80.

Il paragone con “La vita è bella” di Benigni alla fine della visione è stato praticamente automatico, perché Pif parla di relazione, vissuti, lavoro, amore, famiglia con una grande spensieratezza falciata in alcuni tratti da quello che poi succede in strada durante il film. Significativa anche la sequenza finale – che naturalmente non sveliamo – che passa in maniera molto diretta un messaggio semplice ed esplicito: “Non dimenticare il passato. Anzi! E’ importante conoscerlo e viverlo per costruire un futuro migliore”.

Voto: 7,5

Daniele Somenzi

TORNERANNO I PRATI

Regia: Ermanno Olmi

Sceneggiatura: Ermanno Olmi

Anno: 2014

Durata: 80’

Produzione: Italia

Fotografia: Fabio Olmi

Montaggio: Paolo Cottignola

Interpreti: Claudio Santamaria, Alessandro Sperduti, Francesco Formichetti, Andrea Di Maria

TRAMA

1917: è notte e alcuni soldati italiani combattono a pochi metri di distanza dalla trincea austriaca.

RECENSIONE

Un film profondamente cristiano che col cristianesimo condivide l’amore verso gli ultimi. Forse il suo difetto maggiore sta proprio nell’idealizzazione dell’umile. Seppur risulti verosimile che in una situazione estrema i soldati siano ricchi di dignità, non è verosimile che mai emerga la bassezza, l’egoismo e la brutalità. Ma è un difetto che si perdona facilmente, perché ci piace pensare che, di fronte al vivere la morte, ciascuno di noi potrebbe acquisire la stessa dignità dei soldati. Non la dignità plebea, quella che mette il cappello anche quando si vive nella merda; una dignità che l’autore chiamerebbe umana, ma è animale. La dignità della carne morente della scimmia senziente che sa che vive una vita in cui l’unica attività intellettuale oltre ai bisogni biologici è il presagire la morte, che muore senza fiatare, lasciando il futuro per il nulla eterno del nulla. Un soldato prima di suicidarsi piscia, come cagano le vacche al macello. Ma l’uomo è anche la bestia che canta, che sogna, che abita il mondo poeticamente. Il soldato napoletano canta il desiderio bucolico d’armonia fra la natura e i propri fratelli. Un montanaro veneto verseggia con la materia della sua memoria, l’unica vera patria: i larici spogli e tristi di un inverno di morte diventano d’oro al ricordo dei colori d’autunno. Ma la guerra distrugge l’albero così come distrugge le vite e smorza il canto.

Non ci sono grida di dolore nel film di Olmi, i morti muoiono quasi d’incanto, i feriti restano composti. Olmi ama l’uomo, dunque non gira un’opera realista, ma una lirica animata da poetica verista. Un film politico perché evangelico: le guerre si fanno, le nazioni si esaltano, gli ordini si impartiscono e si devono ubbidire, Cristo e i poveri cristi vivono come topi e crepano. Un lavoro su commissione: se nel 2014 lo Stato italiano finanzia un film che denuncia l’assurdità della carneficina patriottica, vuol dire che la civiltà ha fatto passi avanti.

Voto: 8,5

Lorenzo Comensoli Antonini

TYNDALL

Regia: Fatima Bianchi

Sceneggiatura: Fatima Bianchi

Anno: 2014

Fotografia: Fatima Bianchi

Colonna sonora: Attila Faravelli, Enrico Malatesta, Nicola Ratti

TRAMA

Un faro sulle montagne sopra Brunate: un fascio di luce ruota incessantemente nel buio, illuminando qualcosa rimasto nell’ombra. È una casa dove i membri di una famiglia sono ritratti nella loro vita quotidiana, scambiando lettere con il figlio maggiore, Francesco, che sta trascorrendo un anno di carcere.

RECENSIONE

Vincitore della sezione Prospettive al Milano Filmmaker Festival “per la capacità di scandagliare una dimensione intima e universale rimanendo in bilico tra registri differenti”, Tyndall è un racconto familiare a metà tra video arte e documentario biografico. Un kammerspiel contemporaneo che si giostra tra un racconto epistolare a più voci  e tableaux vivants sospesi nel tempo.

“Credo che l’arte migliore provenga dallo sviluppo naturale dei fatti della vita, con questi intenti ho fatto un film: Tyndall. Un ritratto della mia famiglia in un momento critico, quando mio fratello era in carcere. Il film mette in relazione i personaggi in dialogo con se stessi, la loro vita privata e Francesco dalla cella del carcere”, così ha affermato la giovane regista Fatima Bianchi.

È mattina in casa Bianchi. C’è chi fa colazione, chi pratica yoga, chi si esercita con il violino, chi si rasa i capelli. Tutti occupati nelle loro faccende quotidiane, ma con un unico pensiero comune: Francesco, il primogenito costretto a un anno di galera. Fatima Bianchi ha svolto le riprese nella casa dove è cresciuta – a Brunate, “il Balcone sulle Alpi”, vicino al lago di Como – con un cast d’eccezione, la sua famiglia. Ogni membro viene ritratto attraverso lettere inviate al ragazzo incarcerato. Le loro sensazioni si fanno protagoniste di questa perdita temporanea, creando un malinconico racconto epistolare. Mamma Emma raccomanda al figlio di bere camomilla ogni sera prima di coricarsi, i fratelli Benedetto e Maddalena sottolineano quanto l’assenza forzata di Francesco sia motivo di enorme vuoto, babbo Ermenegildo cerca un confronto sincero col ragazzo per non essere poi rimproverato di omertà in futuro.

Una luce particolare diventa leitmotiv del quadro familiare. È l’effetto Tyndall, da cui la regista ha preso il titolo del corto: “un fenomeno di diffusione della luce dovuta alla presenza di alcune particelle nell’aria. Esso si manifesta, ad esempio, quando i fanali di un’auto sono accesi in un giornata di nebbia. Lo stesso effetto è visibile dal faro sui monti di Brunate, guardando verso la casa della mia famiglia”. Attraverso questo tipo di luce, la vita in casa sembra immobile, lasciando sospese in chi guarda le immagini proiettate. Un mondo parallelo situato nel comasco, avvolto da una foschia onirica che trapassa i vetri liberty del salotto vuoto di casa Bianchi.

La giornata sta volgendo al termine, il sole tramonta dolcemente sulle rive del lago, attorniato dalle montagne. Francesco risponde alla famiglia, sta bene e si sta abituando a quella condizione di vita obbligata: “sto cercando un equilibrio. Ora ho un sacco di tempo che prima non avevo. Grazie per I vagabondi del dharma, Bebe [il fratello Benedetto], mi mancano le ultime cinquanta pagine. È bello, anche se al momento gli unici viaggi concessi sono quelli con la mente. E oggi che è domenica vi immagino tutti a casa e vi sono vicino”.

Voto: 8,5 

Francesco Foschini