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LUI E’ TORNATO

Titolo originale: Er ist wieder da

Regia: David Wnendt

Sceneggiatura: David Wnendt, Johannes Boss, Minna Fischgartl, Timur Vermes, (tratto dall’omonimo romanzo di Timur Vermes).

Anno: 2015

Durata: 116′

Nazione: Germania

Fotografia: Hanno Lentz

Montaggio:  Hans Funck

Scenografia:  Johannes Boss, Marco Kreuzpaintner

Costumi: Elke von Sivers

Colonna sonora: Enis Rotthoff

Interpreti: Oliver Masucci, Fabian Busch, Katja Riemann, Christoph, Maria Herbst, Franziska Wulf, Michael Kessler

TRAMA

Adolf Hitler si risveglia a Berlino nel 2015, confuso e spaesato dal mondo che lo circonda. Il Führer incontra Fabian Sawatzki, un aspirante regista, che, scambiandolo per un imitatore dal talento prodigioso, decide di farlo conoscere al mondo. Hitler diventa ben presto un fenomeno mediatico, acquisendo una sempre più grande popolarità e venendo ospitato in importanti programmi televisivi nazionali. Il film, impostato in larga parte come una sorta di candid camera alla “Borat” (2006), mostra le reazioni dei cittadini tedeschi nei confronti del dittatore.

RECENSIONE

Lui è tornato è un film cristallino, in equilibrio tra la satira più feroce e la parodia più brillante. E’ una tortura dilaniante che illude e violenta l’empatia dello spettatore, ma al contempo lo lega in un paradossale e ambivalente senso di divertimento. Il dittatore confuso che si trova a dover affrontare la realtà di una Germania così diversa da come l’aveva immaginata non può che suscitare in noi ilarità. Hitler decontestualizzato e collocato nel ventunesimo secolo è, di fatto, un personaggio buffo. Ma quella che suscita il film è la stessa risata nervosa di chi vede in faccia l’Orrore e non può fare altro che negarlo, sdrammatizzarlo, squalificarlo in quanto inconcepibile. Non scombussola, ma letteralmente sgretola le nostre certezze, rompe lo specchio che ci mostra l’immagine riflessa della nostra identità.

Lui è tornato è un tagliente discorso provocatorio, che sbatte in faccia la falsità di un’umanità fatta di “gente”, la bestialità della psicologia della folla. Ci costringe a non poter scappare dal sentirci parte di un popolo, di una massa che è capace di accettare qualsiasi parola, qualsiasi terrificante discorso razzista, per poi indignarsi di fronte alla morte di un cucciolo di cane. Ci obbliga a confrontarci con la pochezza dei nostri ragionamenti, con lo squallore della nostra pavidità, con la pateticità dei nostri nuovi canali di comunicazione (meravigliosa la sequenza dei giovani vlogger e youtuber che commentano la situazione, come fossero araldi della banalità dei nuovi social).

Questo film è un’opera devastante, un esame di coscienza che forse non siamo in grado di sopportare; è il sorriso sulle labbra che si spegne quando ci vengono mostrate le bandiere dell’Unione Europea date alle fiamme e ci rendiamo conto che la paura dello straniero non è mai stata così concreta come oggi. Lui è tornato è il fissare il muro vuoto dopo aver terminato la visione, con la testa che ronza e i pensieri che si susseguono inarrestabili: il ritorno di Hitler non è l’ingranaggio che sblocca la macchina dell’odio, perché la macchina dell’odio è già avviata da tempo e con un contachilometri che continua a girare.

La sconvolgente solidità del film è dovuta al fatto che sia stracolmo di scene completamente improvvisate. Se da un lato non possiamo fare altro che godere del talento straordinario e incredibilmente comico di Oliver Masucci (il Führer del film), dall’altro rimaniamo congelati davanti alla spontaneità con cui la gente comune interagisce realmente con Hitler e approva le sue idee. Ogni scena, ogni discorso, ogni gesto, e tutto terribilmente vero, e, si sa, la verità fa male. Anche la fotografia con telecamera a mano, ci ricorda continuamente che quella che stiamo guardando è la realtà, è così ogni sorriso che ci viene inevitabilmente strappato porta con sé un vissuto di colpa,

Angosciante, brillante, acuto: un discorso maturo sul ruolo della memoria e della sdrammatizzazione dell’inaccettabile. Una nota di merito va alle citazioni geniali come La Caduta (2004) e l’uso del tema di Arancia Meccanica (1971) nel finale.

Davide “Duzzo” Fedeli

Voto: 8,5

I WANT TO SEE THE MANAGER

Regia: Hannes Lang

Sceneggiatura: Mereike Wegener

Anno: 2014

Durata: 93’

Nazione: Germania, Italia

Fotografia: Thilo Schmidt

Montaggio: Stefan Stabenow

Musica: Hannes Lang

 

RECENSIONE

Un viaggio da Mumbai a Detroit, passando per Pompei e Beijing. Con I Want to See the Manager Hannes Lang racconta il differente rapporto che le singole nazioni stanno intrattenendo con il processo della globalizzazione.

È curioso vedere come un paese come la Bolivia non sia poi così differente da uno come la Cina, tutti fanno parte di una comunità che si sta sempre più adeguando a norme sociali, economiche e culturali simili, uniformi, anche se non saranno mai uguali.

Dall’estrazione del litio in un contesto boliviano di estrema povertà, a come si “ammaestra” un venditore cinese di automobili marcate Bmw, alla spiegazione della tecnica criogenica in un istituto di Detroit. Lang attua un interessante patchwork dove i personaggi coinvolti nelle riprese si raccontano senza pudore, scavando nelle loro verità più nude e – in certi casi – crude. Dalle giovani donne thailandesi che si occupano di accudire persone anziane in case di riposo, si passa così agli uomini precari in Italia, che travestiti da “gladiatori” intrattengono con spada e sandaloni i numerosi turisti davanti all’ingresso dell’antica città di Pompei.

La scommessa del giovane regista di Bressanone (già autore nel 2011 di Peak – Un mondo al limite,documentario sulla trasformazione delle Alpi) diventa quella di riuscire a inquadrare le società contemporanee che stanno sempre più emergendo nel panorama dell’economia mondiale, lasciandosi così alle spalle un passato di precarietà e di scarsa considerazione.  Ma gli interrogativi restano aperti e solo in un futuro prossimo si potranno giudicare tutti i cambiamenti mondiali in corso. Il cantiere globale è ancora aperto e il capo non si vede.

Voto: 6-

Francesco Foschini

QUEEN OF THE DESERT

Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Anno: 2015
Durata: 125′
Produzione: Germania
Fotografia: Peter Zeitlinger
Montaggio: Joe Bini
Costumi: Michele Clapton
Colonna sonora: Klaus Badelt
Interpreti: Nicole Kidman, James Franco, Robert Pattinson

TRAMA

Biografia di Gertrude Bell, “Lawrence d’Arabia al femminile”: viaggiatrice, scrittrice, archeologa, cartografa, diplomatica e agente segreto dell’Impero Britannico nei primi anni del XX secolo.

RECENSIONE

Capita alla Berlinale di entrare in sala per gustarsi Queen of the desert di Werner Herzog, film in concorso. E capita di sentir risuonare nelle proprie orecchie fino alla scena conclusiva le parole rimbombanti su Tara e la sua terra rossa (rosso Technicolor, cui è dedicata la retrospettiva di quest’anno) pronunciate da Rossella O’Hara in chiusura di Via col vento.  Se la trama del film di Fleming è già stata delineata in settant’anni di recensioni, non è lo stesso per quella di Queen of the desert, che ha avuto la sua première mondiale alla Berlinale. Protagonista è Gertrude Bell, studiosa, archeologa, politica e agente segreta britannica, massima esperta dell’Arabia, della sua politica e delle sue genti tra l’inizio del novecento e gli anni ’20. Grazie ai suoi studi sul campo e ai suoi viaggi tra Siria, Giordania, Persia e Arabia riuscì a guadagnarsi il titolo di Segretaria Orientale dell’Impero Britannico.

Il film dovrebbe raccontare proprio il profilo storico della Bell che, in un periodo caldo come quello del crollo dell’Impero Ottomano, finì per essere considerata dai beduini stessi la “regina del deserto”. Ciò che si trasmette nel film è invece più una carrellata di spedizioni e successi tra i signori locali, con una Nicole Kidman schiava della sua bellezza (un’attrice più giovane e meno conosciuta sarebbe stata sicuramente più adatta), che a fatica riesce a mostrare le doti che effettivamente hanno permesso al suo personaggio di arrivare tanto avanti. Le sue imprese sono offuscate dal vero leitmotiv della pellicola, ovvero le sfortune amorose e le apprensioni della Bell più intima. Qui, volenti o nolenti, entra in gioco prepotentemente Rossella O’Hara, a scardinare un’emotività e una pochezza cinematografica cui magari in altre circostanze si sarebbe passato oltre. Due profili simili quelli di Rossella e Gertrude, due modi opposti però di rappresentarli sullo schermo. Entrambe belle, affascinanti e con schiere di pretendenti ai loro piedi. Entrambe sfortunate in amore: Rossella colleziona matrimoni con scarse fortune, Gertrude vede passare storie d’amore senza lieto fine.

L’amore, chiave di entrambi i film, è presentato impeccabilmente in Via col vento: la civettuola Rossella cade spesso nella trappola di Cupido, ma nel far ciò mostra il suo atteggiamento di sfida alla vita, la sua determinazione nello sfruttare astutamente gli uomini per costruirsi un futuro, lei stessa artefice del suo destino. Herzog, al contrario, affonda nella melma dell’amore più sdolcinato e melenso: la stessa Gertrude che nella cupa Inghilterra rifiuta uno dietro l’altro pretendenti troppo modesti (e in questo lascia presagire lo stesso carattere di Rossella) si perde a Teheran in un amore quasi adolescenziale con Henry Cadogan, funzionario dell’ambasciata. Né determinazione, né caparbietà, né astuzia nella trama del film: solo una banale rappresentazione che include anche le immortali scene del ciondolo spezzato diviso tra gli amanti e della scalata del Romeo di turno al palazzo di Giulietta, accompagnate da lunghe e sdolcinate lettere all’amante di turno. La Bell si mostra in tutta la sua debolezza, che pare insopportabile, incomprensibile, incoerente con una vita tra i beduini del deserto che richiede un approccio diametralmente opposto. L’ispirazione storica di Queen of the desert risulta sprecata e il carattere di Gertrude viene delineato in maniera incompleta, lasciando dedurre allo spettatore quasi più dai titoli di coda della vicenda che non dalle sue immagini.

Non c’è spazio per un urlo d’orgoglio come quello di Rossella, che nella terra di Tara trova la forza per riscattare la sua movimentata esistenza, bensì solo per la rassegnazione. Dov’è la Bell punto di riferimento britannico nel controllo del Mandato post-ottomano? Dov’è la Bell che supporta la rivolta araba e che disegna i confini delle nuove nazioni? Dov’è la Bell che incorona i re di Iraq e Giordania? All’originale ironia di Via col vento, che si inserisce senza problemi nella trama (basti pensare all’attrice premio Oscar che interpreta Mammy), si contrappone in Queen of the desert un’ironia tipicamente inglese, spesso tirata, anche se in alcuni casi comunque d’effetto, che ha al centro il personaggio di Winston Churchill (tanto per cambiare), un inadatto Lawrence d’Arabia e vari riferimenti sprezzanti sull’essere tedeschi. Ciò che, parzialmente, salva il film di Herzog sono le maestose inquadrature del deserto e dei paesaggi arabi (girate in Marocco), delle carovane e delle oasi, delle città d’argilla nell’atmosfera ancora intatta del pre-colonialismo. Il tutto accompagnato da una colonna sonora pomposa e d’effetto.

Voto: 5

Andrea Pasquin

LA PRINCIPESSA DELLE OSTRICHE

Titolo originale: Die Austernprinzessin

Regia: Ernst Lubitsch

Sceneggiatura: Ernst Lubitsch, Hanns Kraly

Anno: 1919

Durata: 47’

Produzione: Germania

Fotografia: Theodor Sparkuhl

Scenografia: Rochus Gliese, Kurt Richter

Interpreti: Victor Janson, Ossi Oswalda, Harry Liedtke, Julius Falkenstein, Max Kronert, Kurt Bois

TRAMA

Ossi Quaker, figlia del sovrano americano delle ostriche, esprime lo sconfinato desiderio di prendere per marito un principe a causa dell’invidia sorta nel leggere pompose pubblicazioni di nozze che vedono protagoniste altolocate conoscenti. Mr Quaker non sarà in grado di opporsi al capriccio della sua unica pupilla ed acconsentirà alla realizzazione del matrimonio usando opportunamente i mezzi dell’alta società. ‘Ti compro un principe’.

RECENSIONE

All’interno di una maestosa e ricca villa si svolge quello che viene sarcasticamente rappresentato come un ilare dramma familiare. Lubitsch non perde occasione di narrare, in chiave prettamente ironica, il suo personale disappunto nei confronti della ricca borghesia americana in contrasto assoluto con l’aristocrazia europea, ormai impoverita, di cui però il regista esprime evidente nostalgia attraverso le figure che richiamano la cultura e gli ambienti tedeschi di quel tempo.
Lo sfarzo, il lusso, l’eccessività, la smodatezza sono il punto centrale, e al tempo stesso di completamento, del ridente racconto.  Per realizzare al meglio l’idea dell’incontenibile smania di essere sulla punta dell’iceberg, tipica dei magnate made in USA, la pellicola è ricolma di personaggi secondari che si affaccendano, compaiono, scompaiono e riappaiono in questo immenso teatro che gira attorno ai singolari protagonisti, caratteristici della prolifica produzione cinematografica di Lubitsch tra il ’19 e il ‘22.

La principessa delle ostriche 1

La figlia impertinente e viziata dell’uomo d’affari non vede l’ora di convolare a nozze con un uomo qualunque senza esprimere particolari desideri sulle qualità fisiche o caratteriali del pretendente, totalmente irrilevanti messi a confronto con la foga disperata che la vede concentrata nella realizzazione del capriccio. Una condizione non verrà mai persa di vista dalla bimba cresciuta, solo anagraficamente, ossia che il futuro sposo sia quantomeno titolato per divenire futuro motivo di vanto per lei. Mr Quaker si rivolge a quella che oggi chiameremmo un’agenzia matrimoniale pur di rendere felice l’impaziente figlioletta che, nel frattempo, fa il diavolo a quattro tra le mura di casa distruggendo ciò che le capita tra le mani e indispettendo il padre, la cui pazienza volge molto velocemente al termine. Fra i vari gagliardi ometti in lizza, i cui camei tappezzano per intero le pareti dell’ufficio addetto alla singolare selezione umana, viene scelto il principe Nucki: affascinante ed affabile uomo tanto titolato quanto squattrinato. L’elegante messere lungi dall’unirsi per sempre ad un’altra metà che non sia se stesso, in preda ancora alle goliardie giovanili, spedisce per suo conto Josef dalla smaniosa donna, unico servitore ed amico rimasto alle sue dipendenze vestito di tutto punto con gli abiti appartenuti al nobile ridotto in miseria. Il buffo messaggero si ritrova all’interno della magnifica dimora attorniato dalla sterminata servitù di palazzo che lo fa accomodare su un minuscolo e barocco divanetto perduto nello smodato salotto per un interminabile lasso di tempo. Mr Quaker, nel frattempo, preferisce dedicarsi ad un sonnellino piuttosto che incontrare il futuro sposo mentre la signorina Quaker rivolge tutte le sue attenzioni alla personale cura estetica finalizzata all’imminente presentazione, svalutando in questo modo la naturale importanza che avrebbe un evento simile per una vita semplice e comune. I giovani finalmente si incontrano e la frizzantina Ossi non ci pensa due volte a congiungersi in eterno a chi le sta di fronte, del tutto incurante dell’identità del giovanotto. Il matrimonio è solo una prassi, un mezzo e niente di più.

La principessa delle ostriche 2

A palazzo si darà festa grande per accogliere la neocoppia. La servitù, come una coreografica fanteria, marcerà per rendere il tutto ostentatamente ed eccessivamente lussuoso accompagnata da ricche portate, pregiate stoviglie e sontuosità di ogni genere. La danza delle iperboli viene portata all’apice del caos con un esilarante febbre del fox-trot durante la quale gli improvvisati ballerini saltellano ripetutamente, come è doveroso che sia, ma attraverso questo particolare e convulso moto Lubitsch riesce a comunicare allo spettatore un senso di confuso movimento corale. Ossi scoprirà chi è il vero principe Nucki per caso quando quest’ultimo verrà prima scambiato per un alcolista dopo una sbronza con gli amici e poi condotto al circolo di recupero diretto dalla principessa delle ostriche. Per Ossi varrà sempre la regola secondo cui ogni desiderio è un ordine, anche se il destino apparentemente sembrerà remarle contro.

Voto: 8

Jessica Egitto