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THE GIVER

Regia: Philip Noyce

Sceneggiatura: Michael Mitnick

Anno: 2014

Durata: 97’

Nazione: USA

Fotografia: Ross Emery

Montaggio: Barry Alexander Brown

Scenografia: Ed Verreaux

Costumi: Dianna Cilliers

Musiche: Marco Beltrami

Interpreti: Brenton Thwaites, Odeya Rush, Jeff Bridges, Meryl Streep.

TRAMA E RECENSIONE

Tratto dall’omonimo romanzo distopico di Lois Lowry, The Giver, ambientato in un imprecisato futuro, presenta un mondo in bianco e nero (alla Pleasantville di Gary Ross) in cui l’uomo ha forzatamente eliminato dalla sua vita colori, passioni ed emozioni per cancellare definitivamente il male e la violenza, intrinsechi fino ad allora nella natura umana. In una simile società “ideale”, la sfera privata, il lavoro e qualsiasi tipo di organizzazione sono controllate e programmate da un “consiglio di Anziani” con l’intento di allontanare definitivamente il disordine, la brutalità e la prepotenza per le quali ciascun uomo cede involontariamente e naturalmente. Durante la “Cerimonia dei 12”, quando ciascun giovane viene avviato verso il suo futuro lavoro, Jonas, il protagonista, data la sua spiccata sensibilità, viene scelto come “raccoglitore di memorie”.  Presto il ragazzo viene a conoscenza del compito a cui è affidato e conosce il suo Donatore , un uomo anziano (interpretato dal grande Jeff Bridges) che ha il compito di accompagnare con la forza della memoria  Jonas attraverso l’esperienza di tutte le bellezze ma anche di tutte le disgrazie e malvagità dell’umanità che il consiglio degli anziani aveva abolito dal mondo.

the giver 2

Non appena Jonas entra in contatto con le emozioni cambia radicalmente il suo modo di essere e la scena cinematografica cambia insieme a lui: le immagini diventano prima sbiadite poi, pian piano, a colori. Jonas comprende che la vera essenza dell’uomo è la sua abilità nel “sentire” e diventa consapevole, grazie al Donatore,  di quanto fino ad allora, la sua società, con l’unico scopo di proteggere gli uomini, li abbia di fatto privati della propria vera natura. Dopo quest’esperienza Jonas entra in conflitto dapprima con la famiglia, che lo riconosce strano e diverso, poi con lo stesso consiglio degli anziani, che inizia a temerlo come potenziale minaccia dell’equilibrio che loro stessi erano riusciti a creare.

(L-R) BRENTON THWAITES and ODEYA RUSH star in THE GIVER

Uno dei punti di forza del film è la sorprendente capacità del regista a inserire nel corso della storia scene di vita umana, dal notevole carico di passione e profondità, che sapessero commuovere e colpire la sensibilità non solo di Jonas, ma anche dello spettatore stesso.  Egli rivive infatti le emozioni suscitate come se le sperimentasse per la prima volta insieme a Jonas. Il “sentire” del protagonista, quindi, si materializza in immagini concrete, che rappresentano la nascita di un bambino, descrivono l’amore di una madre o la sofferenza di una guerra e che diventano emblematiche per testimoniare l’importanza del sentimento sia positivo che negativo nella vita dell’uomo. Che senso ha eliminare il male e la sofferenza dell’uomo se il prezzo da pagare è eliminare l’uomo stesso?

Voto: 7

Silvia Cutuli

NITRATE FLAMES

Regia: Mirko Stopar

Sceneggiatura: Mirko Stopar

Anno: 2014

Durata:

Nazione: Norvegia, Argentina

Fotografia: Diego Poleri

Montaggio: Torkel Gkorv

Colonna sonora: Santiago Pedroncini

RECENSIONE

Nitrate_Flames

Con Nitrate Flames Mirko Stopar ripercorre la vita e l’arte di Renée Falconetti, soffermandosi soprattutto sul suo rapporto con Carl Theodor Dreyer sul set de La Passione di Giovanna d’Arco (1928). Un legame travagliato tra musa e maestro, vittima e carnefice, sacro e profano. Stopar alterna frammenti originali, sequenze ricreate con attori e registrazioni audio. Descrive l’ascesa e il declino dell’attrice francese: dagli studi al Conservatorio di Parigi, fino all’incontro con la Comédie-Française, dopo avere interpretrato il film-simbolo di Dreyer. Infine il veloce declino che la portò all’oblio e alla morte. Un excursus intenso e drammatico per un’attrice che ha girato un solo film in tutta la sua carriera. Una lavorazione talmente intima e profonda che ha portato Dreyer a confondere il set con la realtà. Falconetti fu talmente coinvolta che ebbe numerose crisi nervose durante la lavorazione. I suoi occhi espressivi sono gli unici indicatori dello strazio che provava sul set. Il suo secondo nome era Jeanne, forse non è poi così strano che il ruolo di Giovanna d’Arco l’abbia “incoronata” a icona muta della cinematografia mondiale.

Voto: 5

Francesco Foschini

IL RAGAZZO INVISIBILE

Regia: Gabriele Salvatores

Sceneggiatura:  Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo

Anno: 2014

Durata: 100′

Nazione: Italia, Francia

Fotografia: Italo Petriccione

Montaggio: Massimo Fiocchi

Costumi: Sara D’agostin

Colonna sonora: Federico De Robertis, Ezio Bosso, Luca Benedetto, Marialuna Cipolla, Carillon

Interpreti: Ludovico Girardello, Valeria Golino, Fabrizio Bentivoglio, Noa Zatta, Christo Jivkov, Ksenia Rappoport.

TRAMA

Un adolescente scopre di avere un grande dono. Nel frattempo nel suo paese iniziano ad essere rapiti altri ragazzi. È l’occasione per sfruttare il proprio potere.

RECENSIONE

 

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Un film sui supereroi targato Italia. Questa prima indicazione potrebbe farci pensare che i nostri classici supereroi (quelli da panettone, per intenderci) mandino in malora anche un genere che gli americani ci hanno insegnato ad amare, quasi venerare (basti pensare che anche una formica ora è supereroe credibile). Invece no! Salvadores costruisce una trama che risulta essere credibile, appassionante e seria allo stesso tempo.

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Il disagio, la scoperta, il dono, la messa in servizio degli altri , la crisi e la risurrezione sono tutte tappe tipiche ma anche necessarie, che cerchiamo e amiamo nei supereroi tanto forti e tormentati di questi tempi.

A parte la polizia troppo vicina alle macchiette che ci ricordano le famose serie televisive come “Distretto di polizia” e “Squadra Antimafia” ( ma forse qui la distorsione è che sono troppo vicine alla realtà e troppo lontane dall’immagine dei poliziotti FBI) e i ragazzi compagni di scuola del protagonista i quali rimangono nel canovaccio di un carattere che perpetua un’unica modalità di azione (escono dal personaggio solo quando sono in grande difficoltà e vedono nel protagonista un personaggio maturo), il resto regge alla grande.

Regia e scelta dei tempi ottima. Permettono allo spettatore di non perdere il filo della storia e allo stesso tempo con buoni flashback scoprire la genesi del nostro beniamino.

Non manca neanche un accenno clinico al disturbo da deficit da attenzione e iperattività che permette grande pubblico di farsi qualche domanda e acquisire consapevolezza che andare dallo psicologo non significhi per forza essere affetti da pazzia.

Finale ovviamente aperto perché è quello che vogliamo da un superfilm che si rispetti. Sembra infatti che un seguito verrà girato a gennaio 2016.

Spese di realizzazione: 8 milioni
Boxoffice: 5 milioni

Voto: 7

Daniele Somenzi

MUSARANAS

Regia: Juanfer Andrés, Estaben Roel

Sceneggiatura: Juanfer Andrés, Sofia Cuenca, Emma Tusell

Anno: 2014

Durata: 95′

Nazione: Spagna

Fotografia: Angel Amoròs

Musiche: Joan Valent

Interpreti: Macarena Gòmez, Nadia de Santiago, Hugo Silva, Luis Tosar

RECENSIONE

Musarañas (in spagnolo “toporagno”) è una vera e propria chicca cinematografica purtroppo ignorata in Italia, forse perché è l’esordio di due giovani registi, seppur ottimo e con un cast eccellente fra cui spicca  la bravissima Macarena Gòmez.

Nella Spagna degli anni ’50, Montse,  insieme alla sorella più piccola al quale ha sempre fatto da madre, vive nell’appartamento lasciato dai genitori. La giovane donna soffre di una grave forma di agorafobia che la costringe a rimanere perennemente chiusa in casa non riuscendo nemmeno a mettere un piede fuori dalla porta e, all’interno delle quattro mura della sua prigione, cuce dei bellissimi abiti su misura per le poche persone al quale concede di entrare nell’abitazione. La sorella minore, ormai diciottenne, ha un lavoro che la tiene lontana da casa la maggior parte della giornata e, come tutte le ragazze della sua età, comincia ad avere una vita sociale e soprattutto attirare l’attenzione dei ragazzi, destabilizzando così la routine quotidiana di Montse. Un giorno, il vicino di casa che abita al piano superiore, irrompe nell’appartamento delle due donne chiedendo aiuto dopo essere caduto dalle scale e rottosi la gamba. Montse è sola e, seppur intimorita, riesce a soccorrerlo, prendersi cura di lui medicando le ferite finendo poi per innamorarsene e, come Misery non deve morire insegna, meglio drogarlo per impedire che se ne vada, trasformando quello che era iniziato come una semplice gentilezza in un vero e proprio sequestro.

Un thriller claustrofobico dalle sfumature horror che, oltre a citare il best seller di Stephen King e la sua trasposizione cinematografica con l’inquietante Kathy Bates,  trae spunto da Il silenzio degli innocenti e strizza l’occhio persino a Robert Aldrich e al suo Che fine ha fatto Baby Jane del 1962 in cui, la straordinaria Bette Davis, in preda alla follia con quegli occhi enormi e sempre spalancati, è stata senza dubbio di ispirazione per il personaggio di Montse e, la scelta di Macarena Gomez per interpretarla,  più che mai azzeccata. Il film è fin da subito inquietante, con la presenza costane del padre morto diversi anni prima e ancora pronto a giudicare la povera Montse in preda alla sua follia, per la quale si riesce solo a provare pena qualsiasi cosa sia pronta a fare. Una donna sola che nasconde segreti inconfessabili, psicologicamente instabile e incapace di fare una netta distinzione tra la realtà e quello che avviene solo nella sua mente. All’arrivo dell’ospite inatteso, la pazzia di questa un’anima persa, catapulta lo spettatore in un territorio nuovo che si fa sempre più terrificante assumendo i connotati di un vero e proprio horror.  Musarañas è un ottimo thriller paragonabile ad un altro piccolo capolavoro spagnolo, El habitante incierto di Guillem Morales del 2004, purtroppo mai giunto nelle nostre sale e che va assolutamente recuperato!

Voto 8

Cinefabis

INTO THE WOODS

Regia: Rob Mashall

Sceneggiatura: James Lapine

Anno: 2014

Durata: 125’

Nazione: USA

Fotografia: Dion Beebe

Montaggio: Wyatt Smith

Scenografia: Dennis Gassner

Costumi: Colleen Atwood

Colonna sonora: Stephen Sondheim

Interpreti: James Corden, Emily Blunt, Meryl Streep, Daniel Huttlestone, Johnny Depp

RECENSIONE

In un regno lontano, in un piccolo villaggio ai margini del bosco vivevano una giovane fanciulla vestita di stracci, un ragazzo spensierato ed ingenuo, e un modesto fornaio con la moglie. Tutti desideravano qualcosa, un segno o semplicemente un’occasione, che potesse cambiare le loro vite per sempre: la fanciulla il ballo a corte, il ragazzo una mucca che desse latte, il fornaio e consorte un figlio da accudire. Rassegnati ad una routine senza colore, sarà la magia incarnata in una vecchia strega bitorzoluta e vendicativa a rimescolare le carte e a cambiare così, il destino dei personaggi.

Ultimo musical prodotto dalla Disney, Into the woods propone una versione disincantata e più consapevole di alcune delle più famose fiabe narrate dai fratelli Grimm: “Cappuccetto Rosso”, “Raperonzolo”, “Cenerentola” e “Jack e il fagiolo magico”, rivisitate in chiave moderna attraverso l’intreccio ad una storia del tutto nuova, che vede come protagonisti i coniugi Baker, desiderosi di concepire ma resi sterili da un sortilegio lanciato su di loro dalla vecchia strega. Per annullare la maledizione e ridare alla strega quella bellezza delle sembianze ormai perduta da tempo, i due protagonisti dovranno recuperare una vacca bianca come il latte, una mantella rossa come il sangue, una chioma bionda come il grano, una scarpetta pura come l’oro, addentrandosi nel bosco, quel luogo oscuro e pericoloso, fulcro di ogni fiaba, in cui tutto è possibile. Attraverso il bosco, i personaggi di ogni storia imparano qualcosa che non avevano mai saputo prima, e che li rende più consapevoli e meno ingenui davanti ai risvolti imprevedibili, e a volte dolorosi, della vita: Cappuccetto Rosso e Jack capiscono quanto a volte sia positivo indugiare, e percorrere strade imprevedibili ed emozionanti anche se potenzialmente sciocche o pericolose, perché sono proprio queste avventure, queste strade inaspettate che ci cambiano, ci insegnano ciò che prima ignoravamo, ci offrono nuove opportunità e ci insegnano a vivere con più consapevolezza. Persino i coniugi Baker, che pensavano di conoscersi alla perfezione e di aver trovato oramai un equilibrio perfetto, nel bosco si rimettono in discussione, capiscono che per poter costruire una nuova vita insieme si devono affidare l’uno all’altra, devono fare gioco di squadra, scoprendo così un’affinità mai sospettata prima. Il bosco, in breve, rappresenta la metafora della vita come noi la conosciamo: imperfetta, misteriosa, spaventosa, imprevedibile ma anche maledettamente meravigliosa, solo con un pizzo di fantasia e di colore in più.

Voto: 7

Martina Malavenda

AMORE, CUCINA E HELEN MIRREN

Titolo: Amore, cucina e curry

Regia: Lasse Hallstrom

Sceneggiatura: Steven Knight

Anno: 2014

Durata: 122’

Nazione: USA, India

Musiche: A. R. Rahman

Interpreti: Helen Mirren, Om Puri

 

Titolo: Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante

Titolo originale: The Cook, the Thief, His Wife & Her Lover

Regia: Peter Greenaway

Sceneggiatura: Peter Greenaway

Anno: 1989

Durata: 124’

Nazione: Gran Bretagna, Francia

Montaggio: John Wilson

Fotografia: Sacha Vierny

Interpreti: Helen Mirren, Richard Bohringer, Michael Gambon

 

Una creatura inglese sublime, “scoperta” tardi dal pubblico mainstream, Helen Mirren (classe 1945), si fa portavoce della creatività culinaria nell’ultima fatica di Lasse Hallström Amore, cucina e curry, titolo sempliciotto che non rende giustizia a quello originale, ben più poetico: The Hundred-Foot Journey.

Cento passi separano il raffinato ristorante stellato di Madame Mallory da quello più ruspante della famiglia Kadam, emigrata dall’India versa l’Europa in cerca di riscatto (sia professionale che personale). Hassan, uno dei figli della sconquassata famigliola indi ha talento da vendere in cucina, il cibo è la sua forza, la madre scomparsa il suo guru spirituale. Attraverso l’aiuto di Marguerite (una giovane aspirante chef della cricca Mallory) e dei libri sulla cucina francese che gli ha regalato, Hassan inizierà un cammino introspettivo verso l’arte gastronomica più raffinata: dalle salse basiche come la besciamella a piatti più ricercati come il piccione con tartufi. Ma sarà un’omelette a far capire il suo potenziale genio alla (inizialmente) scettica Madame Mallory, la quale lo prenderà sotto la sua ala protettrice riuscendo così a fargli toccare le vette più alte del prestigio.

Un film che molti hanno definito “semplice”, ed è proprio per questo che l’ho trovato interessante: gustoso, leggero, raffinato e melenso al punto giusto (co-producono Steven Spielberg e Oprah Winfrey). Un’ottima cena che dall’antipasto (l’arrivo nel paesino francese della famigliola indiana) al dolce (Hassan sceglie quello che ritiene giusto fare e quindi preferisce rimanere accanto ai propri cari, Marguerite compresa) non stona quasi mai. Il saccarosio aumenta durante i dialoghi tra il giovane chef e la bella Marguerite ma viene ben stemperato dai divertenti duetti acidi tra Madame Mallory alias Helen Mirren e il patriarca dei Kadam (il bollywoodiano Om Puri). Non è il filmone impegnato da intellettuale carico di significati intrinseci, anche se una chiave di lettura interessante la si trova sempre: dall’evidente diversificazione dell culture ed etnie che compongono la storia, alla più sottile liaison tra l’arte culinaria e il rapporto con la società odierna fatta di innovazioni gastronomiche e tecnologiche.

Dopo la visione del film di Hallström, ho trovato interessante creare un collegamento con Peter Greenaway e il suo Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989), dove la moglie del titolo è interpretata sempre da Helen Mirren, figura emblematica per entrambe le opere.

Nel film di Hallström vediamo una Mirren in cucina, ottima maîtresse tutta d’un pezzo, vedova, inflessibile e pure un po’ stronza (nella prima metà del film). Nel film di Greenaway invece, abbiamo una Mirren che si dipana tra sala e cucina, moglie frustrata e amante insoddisfatta di uno psicopatico criminale ingordo e violento, infelice a tal punto da tradirlo proprio nei bagni del ristorante (di proprietà del marito) dove si svolge la maggior parte della vicenda.

In Hallström, il personaggio di Madame Mallory parte come antagonista e si evolve positivamente nel corso della storia riuscendo a creare un proprio percorso emozionale che culminerà nel finale un po’ sdolcinato, come si è detto sopra. Pure in Greenaway si nota un’evoluzione del personaggio della moglie (Georgina): da una partenza apatica scalfita solo dall’attrazione fedifraga che nutre nei confronti del libraio Michael (l’amante del titolo), al tremendo – e geniale – finale vendicativo che riserverà all’abominevole marito: gli farà mangiare il cadavere di Michael ucciso proprio da lui.

Se in Greenaway, quindi, vediamo un’evoluzione sarcastica del personaggio femminile, dove dalla statica apatia si arriva a una catarsi violenta (ed efficacissima), in Hallström l’evoluzione rimane più canonica ma comunque ben scandita dalla sequenzialità degli eventi.

Due ottime prove recitative per un’attrice formidabile, fascinosa e di classe: Helen Mirren. Una garanzia. Sempre.

 

Voto per Hallström: 7,5

Voto per Greenaway: 9,5

Voto per Mirren: 10

Francesco Foschini

VIZIO DI FORMA

Titolo originale: Inherent Vice

Regia: Paul Thomas Anderson

Soggetto: Thomas Pynchon

Sceneggiatura: Paul Thomas Anderson

Anno: 2014

Durata: 148’

Nazione: USa

Fotografia: Robert Elswit

Montaggio: Melanie Oliver, Leslie Jones

Scenografia: David Crank

Interpreti: Joaquin Phoenix, Josh Brolin, Owen Wilson, Katherine Waterstone, Reese Whiterspoon, Benicio Del Toro, Jena Malone, Maya Rudolph, Martin Short

TRAMA

In una vivace Los Angeles anni 70, DOC, eccentrico investigatore tossicomane (Joaquin Phoenix), riceve un’inaspettata visita dalla sua ex Shasta che gli chiede aiuto. L’affascinante ragazza vuole evitare che il miliardario con cui intrattiene una relazione, venga fatto internare dalla moglie e dall’amante di quest’ultima. DOC accettando l’incarico sarà catapultato in una surreale realtà che avrà come suoi protagonisti  personaggi alquanto strampalati. Esponenti della giustizia americana, guardie del corpo naziste, hippies, prostitute orientali, tossici ecc. ecc insieme in un mash-up originale che sconfina nell’assurdo tragicomico.

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RECENSIONE

Prima di interrogarci su qualsiasi cosa assomigli all’arcano messaggio di una sceneggiatura caotica, o di un titolo che in italiano, forse,  è un po’ troppo “lost in translation”, dobbiamo fissare nella nostra mente che “Vizio di forma” nasce dal romanzo di Pynchon e cresce nell’adattamento di Paul Thomas Anderson. L’importante quindi è non farsi sopraffare dalla complessità di seguire un plot dove il collegamento tra le scene è praticamente inesistente, ma godere dell’ “art pour l’art”, senza doverne scovare per forza un senso. Ci si trova  allora  certamente  di fronte ad un’ottima fotografia, all’abilità di un cast di primordine, alla pertinenza della colonna sonora, al suono piacevole di nostalgici e coloratissimi telefoni vintage e a divertenti travestimenti avventurosi. Il grottesco ottenuto  attraverso lo sguardo, i sandali e la camminata di Joaquin Phoenix, ci suggerisce quanto l’attore con i suoi occhi verdi cosi come in “Her”, ma con più occhiaie di certo, sia  in grado di essere il centro dell’instancabile obbiettivo per tutta la durata del film.

Cosi guidati dal voice over dei pensieri strafatti del protagonista, ci si addentra in nebbie fittissime,  dove la  droga diventa regina indiscussa  e l’allucinazione si propone come dimensione legittima ma non assoluta, in un “Paura e delirio a Las Vegas” decisamente moderato.

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La trasposizione complicata di una scrittura labirintica come quella di Pynchon diventa problematica quando il tempo del viaggio al limite del visionario si allunga eccessivamente e l’impossibile trama non riesce a travolgere più di una noia che è purtroppo  in agguato. “Vizio di forma”, infatti, a mio parere, pur nella sua originalità, si dilunga eccessivamente rischiando che lo spettatore da coinvolto diventi esausto. Questo è uno di quei film a cui non riesci a dare una categoria o un giudizio, una di quelle opere che può solo piacerti o non piacerti: ma in ogni caso non si riuscirà a raccontare una sola scena appena usciti dalla sala.

Voto 6.5

Sabrina Di Stefano

BIRDMAN

Regia: Alejandro Gonzàlez Inarritu

Sceneggiatura: Alejandro Gonzàlez Inarritu, Nicolàs Giacobone, Alexander Dinelaris, Armando Bo

Anno: 2014

Durata: 119′

Produzione: USA

Fotografia: Emmanuel Lubezki

Montaggio: Douglas Crise

Scenografia: Kevin Thompson

Musiche: Antonio Sanchez

Interpreti: Michael Keaton, Zach Galifianakis, Edward Norton, Emma Stone, Andrea Riseborough, Naomi Watts

TRAMA

Riggan Thomson, attore famoso per aver interpretato il celebre supereroe Birdman, tenta di tornare sulla cresta dell’onda mettendo in scena a Broadway una pièce teatrale – tratta dal racconto di Raymond Carver What We Talk About When We Talk About Love – che dovrebbe rilanciarne il successo. Nei giorni che precedono la prima deve fare i conti con un ego irriducibile e gli sforzi per salvare la sua famiglia, la carriera e se stesso.

RECENSIONI

Micheal Keaton è stato Birdman, Micheal Keaton era Batman e ora è solo l’ombra di un super eroe, l’ombra di una celebrity che si allunga verso il declino e lotta tra le ossessioni di un passato fatto di successo e acclamazione e la miseria di un presente deprimente.

I super poteri di un tempo sono oggi solo una triste allucinazione e alle battaglie in calzamaglia contro mostri fantastici si sostituiscono le lotte contro nuovi nemici: la penna di una caustica critica del New York Times e la figlia (Emma Stone) tossica. In questo contesto senza speranza l’occasione per dimostrarsi ancora all’altezza della sua megalomania è lo spettacolo teatrale, di cui è produttore, sceneggiatore, regista e interprete.

Il film si presenta come un lungo piano sequenza in cui si susseguono le interpretazioni magistrali di Edward Norton e Micheal Keaton, dialoghi brillanti e ironici, inquadrature bellissime, soluzioni tecniche che spesso sbalordiscono per la loro creatività, ma ogni tanto purtroppo annoiano. Birdman ha il ritmo di un film d’essai, l’ironia tagliente di un autore (Inarritu) non americano, lo sguardo e l’immaginazione di un regista che dire virtuoso è dire poco; ma Birdman ha il grande limite di stupire e, allo stesso tempo, lasciare indifferenti. Infatti di tutte le rocambolesche riflessioni sulla vanità, sulle aspettative, sullo star system, sul narcisismo di cui tutti siamo vittime non resta molto né in testa né nel cuore.

Il principale protagonista dell’Oscar 2015 è quindi un film celebrale e ben realizzato, ma con poca anima. La solitudine e la miseria che investono ogni personaggio – le loro patetiche e divertenti nevrosi – non toccano fino in fondo lo spettatore; e non è un caso che le scene più riuscite siano i rari momenti in cui i personaggi escono dalle loro patologie e finalmente si incontrano. Penso ad Edward Norton ed Emma Stone sul terrazzo del teatro, a Micheal Keaton che in un bar di Broadway decide di affrontare la critica del New York Times: in questi frangenti, per un istante, quando i rapporti umani si sostituiscono ai giri a vuoto di un motore che romba ma non trasporta, finalmente il film respira.

Voto: 6/7

Luca Del Vescovo


Tutti in scena! E che si apra il sipario! È questa la frase simbolo che forse sintetizza la messa in scena dell’ultima pellicola di Inarritu, che omaggia così il palcoscenico teatrale. Il film, a partire dall’estetica registica, non si concentra tanto sulla rappresentazione attoriale quanto su ciò che si cela alle sue spalle, nascondendosi al pubblico. La macchina da presa pedina imperterrita i protagonisti, senza quasi mai staccarsi da loro, con un lungo piano-sequenza di circa due ore che riprende ogni stanza, ogni anfratto, ma in particolare ogni aspetto della vita, ogni nevrosi ed ogni preoccupazione vissute dietro le quinte da chiunque collabori alla buona riuscita dello spettacolo. Un’opera, verrebbe da dire, metateatrale inserita in un prodotto cinematografico.

La sopracitata tecnica del piano-sequenza è una scena rischiosa ma azzeccata: anche se tale  operazione ha il forte limite di appesantire la visione allo spettatore, il regista messicano ha saputo utilizzarla sapientemente, con l’intento di presentarci la verità che avvolge un qualsiasi ambiente teatrale. Birdman riporta sul grande schermo, dopo tanto tempo, Michael Keaton in un ruolo da protagonista. L’attore, invecchiato e scavato nel volto dalle rughe, è credibilissimo nelle vesti di una  star sulla via del tramonto, che tenta in tutti i modi di sparare le sue ultime cartucce.

Il film è una palese critica al mondo dello show-business, che dopo aver spremuto i suoi eroi li ripone in soffitta ad accumulare polvere, come un vestito fuori moda e non in linea con i tempi che corrono. Questo è quello che è Riggan Thomson, eroe degli anni Novanta, masticato e sputato dalla Hollywood dai contratti milionari, incapace secondo tutti gli addetti ai lavori di svestire i panni dell’Uomo Uccello. Basti pensare ai molti attori che, dopo aver interpretato un ruolo iconico, vi sono rimasti talmente avvinghiati nell’immaginario comune da non sapersene più discostare, per poi finire nel dimenticatoio o quasi; solo per citarne alcuni Mark Hamil (Guerre Stellari), Bela Lugosi (Dracula) e buona parte di quegli interpreti di serie tv, ai quali lo spettatore medio si riferisce con frasi del tipo: “Quello che ha fatto il dottore in quel serial” oppure “Guarda chi viene intervistato in televisione! Luke Skywalker!”. Ma è specialmente chi appartiene da sempre al teatro, che, dall’alto del suo snobismo verso forme d’arte più alla portata di tutti, è scettico nel passaggio di un attore dal cinema al proscenio. Un atteggiamento, probabilmente istigato dalla chiusura e dall’egocentrismo intellettuale verso il mezzo cinematografico fin dai suoi albori. Il vero attore è solo quello teatrale e basta, come ci fa capire l’atteggiamento presuntuoso di Mike Shiner, interpretato da Edward Norton. Birdman non è solo questo. Strizza l’occhio anche al cinecomics, ed a tutti i suoi sequel, prequel, midquel e reboot, che hanno oramai saturato il mercato, rimproverando la penuria di idee che il cinema Hollywoodiano sta vivendo in questo decennio.

Comunque sia, alla fine dei conti, una bella fetta di pubblico, colto e non, si rivela essere nel suo profondo ancora un bambino, entusiasmandosi più per l’effettaccio speciale o per la scena adrenalinica che per un film o un opera teatrale culturalmente elevati. Divertente l’allusione al Batman di Tim Burton, in cui Keaton calzava la maschera dell’uomo pipistrello.

 Voto 8.5

 Gabriele Manca


Riggan Thompson un tempo era Birdman, il supereroe che lo ha reso celebre, ricco e amato dal grande pubblico cinematografico. Oggi Birdman non c’è più. E’ solo una figura troppo ingombrante di un passato glorioso e ormai logoro che perseguita senza sosta l’esistenza dell’attore, che nel frattempo si trova ad affrontare il declino del suo successo e della sua popolarità. Per risorgere dalle ceneri dell’anonimato, Riggan sceglie di investire gli ultimi risparmi in uno spettacolo teatrale a Broadway: un remake di What We Talk About When We Talk About Love di Raymond Carver, nel quale decide di giocarsi tutta la carriera.

Birdman è un film che parla di fragilità. In particolare della fragilità che si cela dietro al mondo apparentemente dorato dello star system, e che si manifesta senza pietà quando il successo viene sostituito dal senso di vuoto e di solitudine del tramonto professionale. L’opera di Iňárritu parla anche di ossessione. L’ossessione di Riggan di togliersi una volta per tutte la tuta di Birdman e di far vedere al pubblico di poter essere ben altro che un eroe piumato, ma soprattutto l’ossessione che il protagonista nutre per il proprio Ego, che talvolta assume le sembianze della megalomania tipica di chi un tempo era un Dio e adesso non lo è più. Il regista messicano riesce a narrare questo vortice di stati d’animo attraverso i quattro giorni che anticipano l’esordio della pièce, e lo fa introducendo varie trame e personaggi – su tutti Sam, la figlia di Riggan e Mike Shiner, il co-protagonista della commedia teatrale – che come asteroidi entrano in collisione con la già precaria situazione dell’ex divo.

Il vero colpo da maestro di Iňárritu resta però la regia: un intenso piano sequenza lungo due ore, scandito da una colonna sonora composta in gran parte da una batteria jazz, che segue senza sosta i protagonisti, dentro e fuori il palcoscenico, e che riesce a coinvolgere a trecentosessanta gradi lo spettatore, trasportandolo dentro il grande schermo e rendendolo partecipe in prima persona delle vicissitudini dei personaggi. Interessante è anche la scelta del cast, che potremmo definire di supereroi, o quasi, dato che si possono riscontrare divertenti analogie tra i protagonisti principali e alcune delle loro interpretazioni passate. Infatti, salta subito all’occhio la decisione di affidare i panni di Riggan a  Michael Keaton, il quale a suo tempo fu il Batman di Tim Burton e che con Birdman compie una delle sue migliori performance. Poi c’è Emma Stone, che passa dal ruolo di Gwen Stacy (in The Amazing Spider- Man) a quello di figlia ribelle di Riggan, ma che conserva in entrambi i film la funzione di figura femminile di riferimento. Infine troviamo l’irruento Mike Shiner, interpretato da un Edward Norton in stato di grazia, che in quanto a irruenza risulta essere uno specialista avendo recitato la parte di Bruce Banner  in L’incredibile Hulk. Se si tratta realmente di scelte connesse – in particolare quella di Michael Keaton – o pura casualità forse non interessa. Ciò non esclude, che questi piccoli particolari, se notati, contribuiscono a dare un ulteriore tocco di classe al film.

Nella sua totalità, Birdman tocca con sapienza alcuni dei nervi scoperti che compongono il mondo del cinema, prestando particolare attenzione alla condizione esistenziale che vivono alcuni attori, spesso incompresa dal pubblico. Per certi versi il film di Iňárritu è a tratti lento, probabilmente complesso in alcuni momenti, soprattutto in chiave interpretativa e per questo  richiede una certo grado di attenzione da parte dello spettatore. Birdman possiede comunque la qualità di essere un’opera intensa, intima e originale, che offre la possibilità di essere apprezzata sempre di più ogni volta che la si guarda.

Voto: 7,5

Carlo Tambellini


 

VOTI

Luca Del Vescovo: 6/7

Gabriele Manca: 8,5

Carlo Tambellini: 7,5

FOXCATCHER

Regia: Bennett Miller

Sceneggiatura: Dan Futterman, E. Max Frye

Anno: 2014

Durata: 134’

Nazione: USA

Fotografia: Greig Fraser

Montaggio: Stuart Levy

Scenografia: Jess Gonchor

Costumi: Kasia Walicka-Maimone

Colonna sonora: Mychael Danna

Interpreti: Channing Tatum, Mark Ruffalo, Steve Carrel, Sienna Miller

TRAMA

Biopic sportivo che racconta la storia, tragica e affascinante, di due lottatori professionisti e di un eccentrico multimilionario.

RECENSIONE

La nota di apertura ‘tratto da una storia vera’, quando posta all’inizio di certi film, sembra sfidare la realtà. Succede in Foxcatcher. Ma non perché il film cerchi con una messa in scena eversiva o effetti speciali di dilatare i limiti del reale. I fatti sono sufficienti per spingerci a porre la solita domanda, se la realtà a volte è più inverosimile della finzione. Certo, gli eventi di Foxcatcher saranno esagerati per ottenere una trama più interessante, ma poco importa. Ciò che importa è che ci troviamo davanti a una storia reale incredibile. John E. du Pont, cadetto cinquantenne della famiglia Du Pont, tra le casate più antiche e ricche dell’aristocrazia industriale americana, cerca ossessivamente una grande vittoria personale da aggiungere alla sala dei trofei della dinastia. E chiama un atleta di ventisette anni, Mark Schultz, reduce di un’infanzia e una condizione sociale difficili, già medaglia d’oro di lotta greco-romana alle olimpiadi dell’ottantaquattro. In vista dei prossimi giochi, lo invita a vivere e allenarsi con altri lottatori nella sua tenuta di famiglia: Foxcatcher. Un’imponente villa bianco perla al centro di una riserva sconfinata, punteggiata di cottage, stalle per purosangue e monumenti alla guerra di indipendenza. Tra tutto questo, una palestra fornita delle migliori attrezzature per l’allenamento alla lotta greco-romana. Ma il termine inglese, wrestling, rende meglio l’idea: uno sport all’apparenza poco raffinato, quasi degradante agli occhi dell’alta società, praticato nel mondo a livello poco più che dilettantistico. Qui si scatena il contrasto destabilizzante del film, che non si concentra, ed è un punto a suo favore, sulla scontata differenza di classe tra i personaggi, ma sull’opposizione di due mentalità. I colori e gli edifici accentuano il contrasto interiore. Il rosso e giallo acceso della palestra, contro i legni eleganti e i prati all’inglese della residenza. E ben presto, questo scontro tra modi di vivere si trasforma nello scontro tra l’uomo medio, forse proletario, e la follia. John Du Pont, milionario dal naso aquilino, ornitologo filatelico filantropo, rigorosamente in quest’ordine come sottolinea lui stesso, lentamente cela l’incomprensibilità dell’uccello dietro a un semplice bisogno di gloria. I primi piani di volatili impagliati nella magione aiutano a dare un’idea del personaggio e ricordano Birds di Hitchcock. Circondato da Du Pont, dalle foto d’epoca e i trofei di caccia che sono poi una sua estensione, Mark è un ragazzone taciturno, indifeso di fronte all’enigma del suo ospite. Così, con un obbiettivo evidente, l’oro alle olimpiadi di Seoul, i personaggi procedono verso un punto di collisione. L’arrivo del fratello di Mark a gestire il team Foxcatcher ritarda con successo il momento di deflagrazione delle parti, ma è una conclusione inevitabile. Anche l’enorme ricchezza di du Pont contribuisce a questo senso di ineluttabilità che imbeve il film. Non tanto nel senso di una potenza economica concreta capace di comprare azioni violente, quanto sotto forma di una forza gravitazionale che attrae inavvertitamente i personaggi nella trappola innescata da loro stessi. Il finale non può essere che scontato. Alcune situazioni ridicole dovute alla bizzarria del milionario smorzano una meccanica dei personaggi che può condurre soltanto a un esito preciso. Ma l’obbiettivo del film non è quello di stupire attraverso colpi di scena. Lo stupore lo provoca il senso di disagio costante di un contrasto insanabile ma educato tra i protagonisti. È chiaro dall’inizio che non può funzionare tra Mark e Du Pont. I gesti in ogni scena lo dimostrano. Eppure, per tutto il corso del film, nessuno rivendica un torto, nessuno si scompone. Per quanto invadente nelle immagini, il conflitto non è mai materializzato in frasi che superano una mera constatazione superficiale. E il film gode di questa tensione sconcertante che unisce le scene e rafforza la continuità della narrazione. Il finale potrebbe sembrare deludente, ma non vuole rappresentare la semplice conclusione della vicenda; forse la fine autentica risiede in quel corridoio sotterraneo, sconnesso, viscerale da cui finalmente esce allo scoperto Du Pont.

Voto: 8

Stefano Losi

NON SPOSATE LE MIE FIGLIE!

Titolo originale: Qu’est-ce qu’on a fai tau Bon Dieu?

Regia: Philippe de Chauveron

Sceneggiatura: Philippe de Chauveron, Guy Laurent

Anno: 2014

Durata:  97’

Nazione: Francia

Fotografia: Vincent Mathias

Montaggio: Sandro Lavezzi

Colonna sonora: Marc Chouarain

Interpreti: Christian Clavier, Chantal Lauby, Ary Abittan

TRAMA 

Un francese cattolico della media borghesia vede sposate tre delle sue quattro sue figlie a uomini di diverse etnie. Quando scopre che la quarta sposerà un uomo di colore, le carte nel mazzo verranno rimischiate.

RECENSIONE

Il film parte presentando situazioni a macchietta e luoghi comuni su cui non sentiamo il bisogno di specificazione – li conosciamo tutti benissimo. Allo stesso tempo si stacca però dal perbenismo tipico delle solite commedie. Dopo la prima mezz’ora, in cui abbiamo fatto la conoscenza dei personaggi, la pellicola decolla e assume un ritmo e un umorismo brillante e simpatico. Si ride veramente! Forse anche grazie al personaggio di Charles (il promesso sposo di colore), di cervello fino nel quale è facile immedesimarsi. La parte centrale è quindi veramente uno spasso e sembra strizzare l’occhio, con le dovute proporzioni, a Quasi amiciProblematizzata però la situazione, il regista cerca una soluzione e un finale che tenda a mettere d’accordo tutti, degenerando nel buonismo: “vogliamoci bene” perché tanto grazie all’amore (e all’alcool) tutto passa e si risolve.

Le vette di umorismo sono alte. Segnaliamo, a titolo d’esempio, la scena del primo incontro di Charles coi futuri coniugi. Un film consigliabile per chi vuole trascorrere due ore in leggerezza.

Voto: 7

Daniele Somenzi