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30 ANNI IN UN SECONDO

Titolo originale: 13 Going on 30

Regia: Gary Winick

Sceneggiatura: Cathy Yuspa, Josh Goldsmith

Anno: 2004

Durata: 98′

Nazione: USA

Musiche: Theodore Shapiro

Interpreti: Jennifer Garner, Mark Ruffalo, Andy Serkis, Judy Greer, Kathy Baker

TRAMA

Jenna è una ragazza di 13 anni che si accinge a diventare donna. Ma lei vorrebbe già essere adulta, soffocata com’è da genitori oppressivi, ignorata dalle compagne di scuola e dal ragazzo per cui ha preso una cotta. Stanca di trascorrere tutto il tempo con il suo migliore amico Matt, Jenna decide di invitare tutti gli amici per il suo tredicesimo compleanno. Ma la festa è un disastro e Jenna viene umiliata dai coetanei che la rinchiudono nel ripostiglio durante un gioco. Da sola, chiusa nello stanzino, Jenne esprime il desiderio di essere già adulta per poter vivere a modo suo. E miracolosamente il sogno si avvera…

RECENSIONE

Qualche sera fa, durante una sessione di zapping selvaggio, mi sono imbattuto in un film che avevo relegato nei meandri del mio sgabuzzino mentale e che non ricordavo essere così divertente. Certo, la trama è un po’ sempre la solita: l’anima di una persona entra nel corpo di un’altra, sia che si tratti della stessa, ma in momenti differenti della propria vita, sia che si tratti di due individui che subiscono l’inversione vicendevole delle loro personalità. Di commedie di questo stampo ne sono state fatte a bizzeffe. Per quanto riguarda il panorama statunitense come si fa a non menzionare Quel pazzo Venerdì con Lindsey Lohan, 17 again con Zack Efron e Matthew Perry, Cambio vita con Jason Bateman e Ryan Reynolds, oppure, Big, che aveva come per protagonista un giovanissimo Tom Hanks. Mentre, sul versante europeo, mi viene subito da pensare al Da grande nostrano con il comico varese Renato Pozzetto. Però, 30 anni in un secondo, pur non essendo una commedia memorabile, innovativa ed indimenticabile, penso che riesca egregiamente ad assolvere il compito assegnatole, cioè, quello di intrattenere semplicemente lo spettatore strappandogli qualche risata.

Detto questo, ritengo sia sempre molto esilarante lo scontro generazionale fra adulti e adolescenti, dove il malcapitato di turno si ritrova di botto catapultato in un contesto che risulta essere completamente agli antipodi dal suo, in cui, rimanendo coerente e fedele al proprio modo di essere, suscita uno stato confusionario e di spaesamento  negli altri che lo osservano. Ed è appunto tale aspetto che ci fa comprendere quanto sia difficile per un teenager ed un individuo maturo comunicare fra di loro. Vuoi per una differenza d’età siderale, vuoi per esperienze di vita differenti,  entrambi, è come se fossero due soggetti che non parlano la stessa lingua, e che di continuo entrano in conflitto per siffatta ragione. Per cui, 30 anni in un secondo come le altre pellicole appartenenti allo stesso lignaggio, sono veri e propri viaggi di formazione, i quali ci intimano a cercare di comprendere il punto di vista altrui e magari anche di imparare qualcosa da quest’ultimi, per poter, così facendo, migliorarsi come persona, ma soprattutto, per avere una visione più ampia della vita.  Nello specifico, il lungometraggio diretto da Gary Winick, è in grado di far sorridere anche perché riesce a far convergere la nostra epoca con quella degli anni Ottanta, mettendo a confronto abitudini quotidiane e modi di vestire che, non fanno altro che cozzare fra di loro, degenerando in risvolti assurdi e spassosi per il pubblico. Convergenza, aiutata anche da una colonna sonora contenente alcuni dei più grandi successi appartenenti ai mitici Ottanta, che accompagna in gran parte del film le disavventure della protagonista: dal Thriller di Michael Jackson al Burning down the house dei Talking Heads fino al Crazy for you di Madonna e al Ice ice baby di Vanilla Ice. Inoltre, il finale ricorda molto lo schema narrativo utilizzato per l’epilogo di Ritorno al futuro. Volendo dire due parole sugli attori principali, Jennifer Garner, oltre ad essere una splendida donna, è capace di passare dal dramma alla commedia con abbastanza scioltezza, sembrando realmente una ragazzina nell’involucro di una donna indipendente e di successo. Quanto a Mark Ruffalo, il nostro Hulk degli Avengers, si comporta bene come timido ed equilibrato amico di vecchia data di Jenna (Jennifer Garner). Da menzionare, c’è pure Andy Serkis, che, per un attimo, ci fa dimenticare le fattezze dinoccolate del suo Gollum ne Il Signore degli Anelli.  Dunque, prendete i popcorn, irrorateli con una copiosa cascata di burro fuso, chiamate i vostri amici, e prima di uscire il sabato sera godetevi questo film, affatto pretensioso ma, sufficiente a farvi passare un preserata in allegria in stile U. S. A.

Voto: 7

Gabriele Manca     

BIRDMAN

Regia: Alejandro Gonzàlez Inarritu

Sceneggiatura: Alejandro Gonzàlez Inarritu, Nicolàs Giacobone, Alexander Dinelaris, Armando Bo

Anno: 2014

Durata: 119′

Produzione: USA

Fotografia: Emmanuel Lubezki

Montaggio: Douglas Crise

Scenografia: Kevin Thompson

Musiche: Antonio Sanchez

Interpreti: Michael Keaton, Zach Galifianakis, Edward Norton, Emma Stone, Andrea Riseborough, Naomi Watts

TRAMA

Riggan Thomson, attore famoso per aver interpretato il celebre supereroe Birdman, tenta di tornare sulla cresta dell’onda mettendo in scena a Broadway una pièce teatrale – tratta dal racconto di Raymond Carver What We Talk About When We Talk About Love – che dovrebbe rilanciarne il successo. Nei giorni che precedono la prima deve fare i conti con un ego irriducibile e gli sforzi per salvare la sua famiglia, la carriera e se stesso.

RECENSIONI

Micheal Keaton è stato Birdman, Micheal Keaton era Batman e ora è solo l’ombra di un super eroe, l’ombra di una celebrity che si allunga verso il declino e lotta tra le ossessioni di un passato fatto di successo e acclamazione e la miseria di un presente deprimente.

I super poteri di un tempo sono oggi solo una triste allucinazione e alle battaglie in calzamaglia contro mostri fantastici si sostituiscono le lotte contro nuovi nemici: la penna di una caustica critica del New York Times e la figlia (Emma Stone) tossica. In questo contesto senza speranza l’occasione per dimostrarsi ancora all’altezza della sua megalomania è lo spettacolo teatrale, di cui è produttore, sceneggiatore, regista e interprete.

Il film si presenta come un lungo piano sequenza in cui si susseguono le interpretazioni magistrali di Edward Norton e Micheal Keaton, dialoghi brillanti e ironici, inquadrature bellissime, soluzioni tecniche che spesso sbalordiscono per la loro creatività, ma ogni tanto purtroppo annoiano. Birdman ha il ritmo di un film d’essai, l’ironia tagliente di un autore (Inarritu) non americano, lo sguardo e l’immaginazione di un regista che dire virtuoso è dire poco; ma Birdman ha il grande limite di stupire e, allo stesso tempo, lasciare indifferenti. Infatti di tutte le rocambolesche riflessioni sulla vanità, sulle aspettative, sullo star system, sul narcisismo di cui tutti siamo vittime non resta molto né in testa né nel cuore.

Il principale protagonista dell’Oscar 2015 è quindi un film celebrale e ben realizzato, ma con poca anima. La solitudine e la miseria che investono ogni personaggio – le loro patetiche e divertenti nevrosi – non toccano fino in fondo lo spettatore; e non è un caso che le scene più riuscite siano i rari momenti in cui i personaggi escono dalle loro patologie e finalmente si incontrano. Penso ad Edward Norton ed Emma Stone sul terrazzo del teatro, a Micheal Keaton che in un bar di Broadway decide di affrontare la critica del New York Times: in questi frangenti, per un istante, quando i rapporti umani si sostituiscono ai giri a vuoto di un motore che romba ma non trasporta, finalmente il film respira.

Voto: 6/7

Luca Del Vescovo


Tutti in scena! E che si apra il sipario! È questa la frase simbolo che forse sintetizza la messa in scena dell’ultima pellicola di Inarritu, che omaggia così il palcoscenico teatrale. Il film, a partire dall’estetica registica, non si concentra tanto sulla rappresentazione attoriale quanto su ciò che si cela alle sue spalle, nascondendosi al pubblico. La macchina da presa pedina imperterrita i protagonisti, senza quasi mai staccarsi da loro, con un lungo piano-sequenza di circa due ore che riprende ogni stanza, ogni anfratto, ma in particolare ogni aspetto della vita, ogni nevrosi ed ogni preoccupazione vissute dietro le quinte da chiunque collabori alla buona riuscita dello spettacolo. Un’opera, verrebbe da dire, metateatrale inserita in un prodotto cinematografico.

La sopracitata tecnica del piano-sequenza è una scena rischiosa ma azzeccata: anche se tale  operazione ha il forte limite di appesantire la visione allo spettatore, il regista messicano ha saputo utilizzarla sapientemente, con l’intento di presentarci la verità che avvolge un qualsiasi ambiente teatrale. Birdman riporta sul grande schermo, dopo tanto tempo, Michael Keaton in un ruolo da protagonista. L’attore, invecchiato e scavato nel volto dalle rughe, è credibilissimo nelle vesti di una  star sulla via del tramonto, che tenta in tutti i modi di sparare le sue ultime cartucce.

Il film è una palese critica al mondo dello show-business, che dopo aver spremuto i suoi eroi li ripone in soffitta ad accumulare polvere, come un vestito fuori moda e non in linea con i tempi che corrono. Questo è quello che è Riggan Thomson, eroe degli anni Novanta, masticato e sputato dalla Hollywood dai contratti milionari, incapace secondo tutti gli addetti ai lavori di svestire i panni dell’Uomo Uccello. Basti pensare ai molti attori che, dopo aver interpretato un ruolo iconico, vi sono rimasti talmente avvinghiati nell’immaginario comune da non sapersene più discostare, per poi finire nel dimenticatoio o quasi; solo per citarne alcuni Mark Hamil (Guerre Stellari), Bela Lugosi (Dracula) e buona parte di quegli interpreti di serie tv, ai quali lo spettatore medio si riferisce con frasi del tipo: “Quello che ha fatto il dottore in quel serial” oppure “Guarda chi viene intervistato in televisione! Luke Skywalker!”. Ma è specialmente chi appartiene da sempre al teatro, che, dall’alto del suo snobismo verso forme d’arte più alla portata di tutti, è scettico nel passaggio di un attore dal cinema al proscenio. Un atteggiamento, probabilmente istigato dalla chiusura e dall’egocentrismo intellettuale verso il mezzo cinematografico fin dai suoi albori. Il vero attore è solo quello teatrale e basta, come ci fa capire l’atteggiamento presuntuoso di Mike Shiner, interpretato da Edward Norton. Birdman non è solo questo. Strizza l’occhio anche al cinecomics, ed a tutti i suoi sequel, prequel, midquel e reboot, che hanno oramai saturato il mercato, rimproverando la penuria di idee che il cinema Hollywoodiano sta vivendo in questo decennio.

Comunque sia, alla fine dei conti, una bella fetta di pubblico, colto e non, si rivela essere nel suo profondo ancora un bambino, entusiasmandosi più per l’effettaccio speciale o per la scena adrenalinica che per un film o un opera teatrale culturalmente elevati. Divertente l’allusione al Batman di Tim Burton, in cui Keaton calzava la maschera dell’uomo pipistrello.

 Voto 8.5

 Gabriele Manca


Riggan Thompson un tempo era Birdman, il supereroe che lo ha reso celebre, ricco e amato dal grande pubblico cinematografico. Oggi Birdman non c’è più. E’ solo una figura troppo ingombrante di un passato glorioso e ormai logoro che perseguita senza sosta l’esistenza dell’attore, che nel frattempo si trova ad affrontare il declino del suo successo e della sua popolarità. Per risorgere dalle ceneri dell’anonimato, Riggan sceglie di investire gli ultimi risparmi in uno spettacolo teatrale a Broadway: un remake di What We Talk About When We Talk About Love di Raymond Carver, nel quale decide di giocarsi tutta la carriera.

Birdman è un film che parla di fragilità. In particolare della fragilità che si cela dietro al mondo apparentemente dorato dello star system, e che si manifesta senza pietà quando il successo viene sostituito dal senso di vuoto e di solitudine del tramonto professionale. L’opera di Iňárritu parla anche di ossessione. L’ossessione di Riggan di togliersi una volta per tutte la tuta di Birdman e di far vedere al pubblico di poter essere ben altro che un eroe piumato, ma soprattutto l’ossessione che il protagonista nutre per il proprio Ego, che talvolta assume le sembianze della megalomania tipica di chi un tempo era un Dio e adesso non lo è più. Il regista messicano riesce a narrare questo vortice di stati d’animo attraverso i quattro giorni che anticipano l’esordio della pièce, e lo fa introducendo varie trame e personaggi – su tutti Sam, la figlia di Riggan e Mike Shiner, il co-protagonista della commedia teatrale – che come asteroidi entrano in collisione con la già precaria situazione dell’ex divo.

Il vero colpo da maestro di Iňárritu resta però la regia: un intenso piano sequenza lungo due ore, scandito da una colonna sonora composta in gran parte da una batteria jazz, che segue senza sosta i protagonisti, dentro e fuori il palcoscenico, e che riesce a coinvolgere a trecentosessanta gradi lo spettatore, trasportandolo dentro il grande schermo e rendendolo partecipe in prima persona delle vicissitudini dei personaggi. Interessante è anche la scelta del cast, che potremmo definire di supereroi, o quasi, dato che si possono riscontrare divertenti analogie tra i protagonisti principali e alcune delle loro interpretazioni passate. Infatti, salta subito all’occhio la decisione di affidare i panni di Riggan a  Michael Keaton, il quale a suo tempo fu il Batman di Tim Burton e che con Birdman compie una delle sue migliori performance. Poi c’è Emma Stone, che passa dal ruolo di Gwen Stacy (in The Amazing Spider- Man) a quello di figlia ribelle di Riggan, ma che conserva in entrambi i film la funzione di figura femminile di riferimento. Infine troviamo l’irruento Mike Shiner, interpretato da un Edward Norton in stato di grazia, che in quanto a irruenza risulta essere uno specialista avendo recitato la parte di Bruce Banner  in L’incredibile Hulk. Se si tratta realmente di scelte connesse – in particolare quella di Michael Keaton – o pura casualità forse non interessa. Ciò non esclude, che questi piccoli particolari, se notati, contribuiscono a dare un ulteriore tocco di classe al film.

Nella sua totalità, Birdman tocca con sapienza alcuni dei nervi scoperti che compongono il mondo del cinema, prestando particolare attenzione alla condizione esistenziale che vivono alcuni attori, spesso incompresa dal pubblico. Per certi versi il film di Iňárritu è a tratti lento, probabilmente complesso in alcuni momenti, soprattutto in chiave interpretativa e per questo  richiede una certo grado di attenzione da parte dello spettatore. Birdman possiede comunque la qualità di essere un’opera intensa, intima e originale, che offre la possibilità di essere apprezzata sempre di più ogni volta che la si guarda.

Voto: 7,5

Carlo Tambellini


 

VOTI

Luca Del Vescovo: 6/7

Gabriele Manca: 8,5

Carlo Tambellini: 7,5

AMERICAN SNIPER

Regia: Clint Eastwood

Sceneggiatura: Jason Hall

Anno: 2014

Durata: 132’

Produzione: USA

Fotografia: Tom Stern

Montaggio: Joel Cox, Gary Roach

Scenografia: Charisse Cardenas, James Murakami

Interpreti: Bradley Cooper, Sienna Miller, Kyle Gallner, Max Charles

TRAMA

Chris Kyle è un cecchino soprannominato “Leggenda” e sta combattendo due battaglie: tentare di essere un buon soldato, ma anche un buon marito e padre, mentre è a migliaia di chilometri da casa.

RECENSIONE

Torri gemelle, Iraq, sicurezza. Dio, patria e famiglia. Non è facile fare un film sul più grande eroe e martire dell’ultima e ancora freschissima guerra americana senza scivolare in una visione manichea e propagandistica. Non è facile raccontare la storia di Chris Kyle, ex cowboy, poi navy seals, poi reduce di guerra  e padre di famiglia senza trionfalismi o condanne. Ma Clint Esatwood ispirandosi ai grandi western prima e il filone cinematografico sui  giustizieri poi, di cui Callaghan fu il più luminoso protagonista, riesce nell’impresa.

Ma Chris Kyle è un eroe o un killer violento? La risposta è nelle parole dello stesso protagonista che l’unica cosa di cui si pente,  è di non essere riuscito a salvare più vite di quello che ha messo in salvo. Così Eastwood sospende il giudizio e racconta i 1000 giorni di  battaglie le 160 vittime certificate ma soprattutto la lotta enorme e durissima con se stesso una volta congedato, a rientrare nella vita normale. Superare l’insonnia, dimenticare le minacce e il senso di accerchiamento,  svestire l’uniforme, slacciare gli anfibi, calzare di nuovo i panni civili e ritrovare nella quotidianità stimoli ed emozioni.

Bradley Cooper, ingrassato nel film di oltre 10 chili, interpreta alla perfezione il ruolo e le battaglie fisiche ed interne del protagonista , guidato fin dall’inizio del film dall’avvertimento profetico del padre: si può essere lupi, pecore , ma la cosa più difficile è essere pastori da gregge. Una metafora semplice sul significato dell’essere padre al fronte o in patria, in famiglia o con  una generazione di soldati inginocchiati dai disturbi post traumatici da stress, e troppo spesso sconfitti dalla stessa quotidianità. Una metafora efficace  che è la linea guida e la risposta agli interrogativi del protagonista e del pubblico. Il cinema di Clint Esatwood è infatti semplice ma intenso, non ha la suspance né l’estetica della Bigelow in Hurt Locker, ma ha il grande merito di essere diretto e vero, senza fronzoli né postulati, disegnando in modo chiaro gli strumenti con cui affrontare  la visione  di un mondo duro e spietato: responsabilità, volontà e dovere . E’ questo il giustiziere 2.0.

Voto: 7

Luca Del Vescovo


 

Clint Eastwood ci regala anche questa volta un crudo affresco della storia bellica americana. Con American Sniper il regista racconta, attraverso la sua poetica dura e scarna, la vita di Chris Kyle, il cecchino più infallibile mai esistito tra le fila dell’esercito statunitense. La macchina da presa registra le gesta di Kyle in modo oggettivo, senza sentenziare o giudicare  coloro che si muovono sulla scena. Gli eventi vengono sbattuti in faccia allo spettatore in tutta la loro feroce verità. Noi che fissiamo lo schermo, un secondo prima ci troviamo in sala e quello dopo siamo lì, nel vivo dell’azione, che respiriamo l’odore della sabbia irachena, il sudore dei marines al fronte, l’aridità dell’ambientazione, lo spirito di cameratismo di quest’ultimi ed il continuo senso di pericolo che si percepisce ad ogni angolo. Molto spesso, l’occhio del protagonista è il nostro occhio, miriamo e spariamo assieme a lui, sembrando a tratti di stare giocando con lo sparatutto in prima persona di ultima uscita. Ma, a differenza della spersonalizzazione del soggetto che molla il colpo entro un gameplay, nel film le ansie e le preoccupazioni di Chris invadono le nostre menti, non possiamo sbagliare il bersaglio, se no game over, le vite ha disposizione sono solo una.

A volte la guerra si interseca in tempo reale con la tranquilla vita quotidiana in territori americano, riversando in esso tutte le sue paure, mettendoci d’innanzi all’impotenza che un comune individuo ha nei confronti di tali vicende. Una quotidianità che si sente fortemente anche fra i commilitoni, che pur trovandosi in un luogo dove la morte può bussare alla propria porta in qualsiasi momento, riescono ad avere anche qui la loro routine giornaliera, come una coperta di Linus che li protegge dalla sofferenza che devono sopportare. Però, tale espediente, porta alla desensibilizzazione ed alla perdita di qualsiasi etica sulla vita umana; o uccidi o vieni ucciso, questo è un po’ il mantra dei personaggi che osserviamo. Sino a quando non si ritorna a casa, e nella pace domestica se ci si sofferma a pensare per un secondo, affiorano le paranoie ed un senso di vuoto, che accompagna di continuo chi è tornato dal fronte. L’adrenalina in corpo è scemata, e lo spaesamento si amalgama con i ricordi degli orrori delle battaglie affrontate. Ma ormai, non si può più fare a meno di ritornare ad imbracciare il fucile, l’idea di dover affrontare i propri demoni interiori è  peggio che di risommergersi nel clima sanguinario da cui si sono presi una pausa, dove non si ha il tempo di riflettere sulle azioni che si compiono, in una continua trans agonistica.

Chris Kyle lotta per il proprio paese, vuole proteggere i suoi cari, ed è così, ma in lui pare che alberghino due personalità che sono agli antipodi: l’uomo con una morale, che non va fiero di quello che fa, riconoscendo il suo record come ignobile, sperando di non dover mai premere il grilletto, perché spezzare una vita, non solo ha ripercussioni tragiche su chi viene mandato all’altro mondo, ma anche su tutti coloro che hanno dei rapporti affettivi con quella persona; ed il SEAL, un killer legalizzato che vuole mettere alla prova i suoi nervi e le sue abilità, una macchina disumanizzata dove il suo unico scopo è quello di fare centro, ingaggiando una sfida con se stesso. Bradley Cooper, barbuto e temprato nel fisico per il ruolo, rende in modo impeccabile la concentrazione e l’ansia che traspare nel colpire il bersaglio e l’alienazione che possono portare professioni di questo tipo.

Voto: 8.5

Gabriele Manca


 

Luca Del Vescovo: 7

Gabriele Manca: 8,5