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PRINCE

Ayoub, Frankie, Achraf, Oussama sono tutti ragazzi che vivono nella periferia di Amsterdam. Le loro giornate procedono all’insegna della noia di quartiere, giocare con i petardi è l’unico passatempo. Ayoub, il protagonista, prende una cotta per la bella Laura, che però è già impegnata con un bullo della zona. Anche Ayoub, per farsi valere, non esiterà a modificare i propri istinti, portandoli da pacifici a violenti.

prince

Prince è l’opera prima del regista olandese Sam de Jong (menzione speciale alla Berlinale 2015). Racconta una sorta di fiaba nera e drammatica sulla ribellione comportamentale degli adolescenti di borgata. Il protagonista, per metà olandese e per metà marocchino, si trasforma da pacifico a ragazzo violento di periferia, per cercare il rispetto nella buia realtà che lo circonda. L’ascesa di un principe al negativo, un giovane che per proteggere chi ama – la madre, la sorella e soprattutto  se stesso – non esita a esercitare l’impulso primordiale della prevaricazione. De Jong riesce a far entrare nell’inquadratura il caos interiore di un adolescente attraverso riprese lineari, rigorose, pulite (in particolare grazie alle suggestive inquadrature grandangolari delle prime scene). Contrasto che riesce a farci percepire il disagio interiore che sta provando Ayoub, per quanto galvanizzato da quello che è diventato (grazie anche alla figura di Kalpa, bizzarro personaggio del quartiere, “guru” di Ayoub che sgozza maiali con totale nonchalance). Un “piccolo” principe con aggiunta di corona.

Tutte le ascese, però, hanno anche una discesa, e in questo caso risulta emblematica nel film di de Jong: la morte del padre di Ayoub per overdose di eroina e il conseguente funerale asettico accompagnato sulle note diCon te partirò di Andrea Bocelli. Un triste evento che diventa catarsi perfetta per fare i conti sulla piega che ha preso la vita, non solo del protagonista, ma di tutti i personaggi. Nessuno escluso. Prince è un film che, sulla base di un’apparente leggerezza adolescenziale, in realtà ci propone una profondità già proiettata verso un’emancipazione adulta. Il tutto scandito dalle influenze 80’s del soundtrack, in cui spicca il brano Stock del musicista olandese Palmbomen.

Voto: 8

Francesco Foschini

72ª FESTIVAL DI VENEZIA – I 10 MIGLIORI FILM

Dopo la rassegna dell’anno scorso, Angelo Grossi è stato il nostro Fachirino in incognito anche all’edizione 2015 della Mostra internazionale d’arte cinematografica a Venezia. Ecco una classifica senza pretese d’oggettività.

10 migliori film 

1) Baby Bump (Kuba Czekaj, Biennale College)

2) Wednesday May 9 (Vahid Jalilvand, Orizzonti)

3) Desde allà (Lorenzo Vigas, Concorso)

4) Francofonia (Aleksandr Sokurov, Concorso)

5) Anomalisa (Charlie Kaufman, Concorso)

6) Na ri xiawu (Tsai Ming-liang, Fuori Concorso)

7) Childhood of a leader (Brady Corbet, Orizzonti)

8) Behemoth (Zhao Liang, Concorso)

9) Rabin, the last day (Amos Gitai, Concorso)

10) Underground Fragrance (Pengfei, Giornate degli Autori)

I voti in stelline ai film in concorso:

Beasts of no nation *1/2

Looking for Grace **

Francofonia *****

Marguerite ***

Equals *

L’attesa *1/2

The Danish Girl **

L’hermine ***

El clan ***1/2

A bigger Splash **1/2

The endless River *

Rabin, the last day ****

Abluka ***

Sangue del mio sangue **

Anomalisa ****

Heart of a dog ***

11 minutes **1/2

Desde allà ****1/2

Remember ***

Behemoth ****1/2

Per amor vostro **1/2

Angelo Grossi

LOLO

Regia: Julie Delpy

Sceneggiatura: Julie Delpy, Eugénie Grandval

Anno: 2015

Durata: 99′

Nazione: Francia

Musiche: Mathieu Lamboley

Interpreti: Dny Boon, Julie Delpy, Vincent Lacoste, Karin Viard

RECENSIONE 

Ogni scarrafone è bello a mamma soja.

Lolo della francese Delpy ha portato una ventata di allegria in Sala Perla, caso particolare all’interno delle Giornate degli Autori. Ma ogni tanto le sorprese in quel del Lido di Venezia (decadente, letargico, formale) non guastano.

lolo

Il film si apre con l’incontro tra Violette (Julie Delpy) e Jean-René (lo spassoso Dany Boon): lei professionista sofisticata all’interno del circuito fashonista parigino, lui sempliciotto e geek, esperto di marketing e genio informatico di Biarritz. Così, dopo una gag esilarante al gusto di pesce (lui fa cadere su di lei un pingue tonno appena pescato) i due iniziano una relazione amorosa, dove le battute sul grosso “arnese” dell’uomo sono il punto cardine dei dialoghi tra Violette e le sue amiche over40 (molto mood Sex and the City, con sangria annessa).

Tutto sembra procedere per il meglio, fino a quando Violette non decide di presentare Jean-René al figlio Lolo (Vincent Lacoste): diciannovenne, artistoide, possessivo verso la figura genitoriale e un po’ bamboccione, con lo stecchino del leccalecca che gli sporge da un angolo della bocca. Dopo un inizio apparentemente tranquillo tra le due figure maschili, il ragazzo inizia un vero e proprio gioco al massacro verso il pretendente della madre (ribattezzato sarcasticamente J.R.): cosparge i vestiti dell’uomo con polvere urticante, gli fa ingerire sospette pasticche sciolte nell’ alcol – creando così una potente gag a una festa d’élite organizzata da Violette, che vede come protagonista uno sconcertato Karl Lagerfeld – e con la complicità dell’amico Lulu (spalla muta e corpulenta del ragazzo) riesce a mandare all’aria un importantissimo progetto informatico dell’uomo, infettando con un virus tutto il sistema operativo della banca nella quale Jean-René lavora. Un vero e proprio incubo. Ma forse la soluzione non è poi così lontana. E forse Violette riuscirà ad aprire gli occhi verso il comportamento folle del figlioletto.

lolo 2

Julie Delpy torna dietro la macchina da presa dirigendo il suo sesto film. Un’altra commedia, meno intellettuale rispetto a 2 giorni a Parigi e 2 giorni a New York – dove i modelli a quali si ispirava erano Woody Allen ed Eric Rohmer – ma più slapstick e screwball giocata sui toni frizzanti di Howard Hawks e George Cukor.

L’attrice francese (oltre che regista, anche sceneggiatrice) – lanciata da Godard, Carax e Kieslowski e consacrata al pubblico internazionale con la trilogia Before Sunrise, Before Sunset e Before Midnight di Richard Linklater – ha proposto un film che può sembrare all’apparenza leggero e farsesco ma che in realtà ci pone davanti al grosso problema comportamentale genitori-figli, anzi al problema madre mediterranea di figlio maschio che non riesce assolutamente a vedere il marcio della propria prole. Sì, perché Violette difende a spada tratta ogni singolo comportamento di Lolo, giustificando al povero e tonto Jean-René che è solo un ragazzo delicato e fragile che da grande diventerà il più grande artista vivente.

Il tutto farcito da gag fisiche (non sempre all’altezza della visione, che rievocano per certi versi le commedie adolescenziali stile American Pie) e da dialoghi al fulmicotone soprattutto tra Violette e l’amica Ariane (una gustosissima Karin Viard), sboccati e salaci ma graffianti. Un tenue omaggio ai personaggi femminili delle commedie degli anni Quaranta e Cinquanta interpretati da Rosalind Russell e Katharine Hepburn.

Di sicuro non un capolavoro, ma un buon modo per passare 99 minuti all’insegna della spensieratezza e dell’allegria, prima di buttarsi in fila per un’altra proiezione festivaliera (e magari meno ridente).

Voto: 7

Francesco Foschini (Fachiro in incognito al Festival di Venezia)

QUEEN OF THE DESERT

Regia: Werner Herzog
Sceneggiatura: Werner Herzog
Anno: 2015
Durata: 125′
Produzione: Germania
Fotografia: Peter Zeitlinger
Montaggio: Joe Bini
Costumi: Michele Clapton
Colonna sonora: Klaus Badelt
Interpreti: Nicole Kidman, James Franco, Robert Pattinson

TRAMA

Biografia di Gertrude Bell, “Lawrence d’Arabia al femminile”: viaggiatrice, scrittrice, archeologa, cartografa, diplomatica e agente segreto dell’Impero Britannico nei primi anni del XX secolo.

RECENSIONE

Capita alla Berlinale di entrare in sala per gustarsi Queen of the desert di Werner Herzog, film in concorso. E capita di sentir risuonare nelle proprie orecchie fino alla scena conclusiva le parole rimbombanti su Tara e la sua terra rossa (rosso Technicolor, cui è dedicata la retrospettiva di quest’anno) pronunciate da Rossella O’Hara in chiusura di Via col vento.  Se la trama del film di Fleming è già stata delineata in settant’anni di recensioni, non è lo stesso per quella di Queen of the desert, che ha avuto la sua première mondiale alla Berlinale. Protagonista è Gertrude Bell, studiosa, archeologa, politica e agente segreta britannica, massima esperta dell’Arabia, della sua politica e delle sue genti tra l’inizio del novecento e gli anni ’20. Grazie ai suoi studi sul campo e ai suoi viaggi tra Siria, Giordania, Persia e Arabia riuscì a guadagnarsi il titolo di Segretaria Orientale dell’Impero Britannico.

Il film dovrebbe raccontare proprio il profilo storico della Bell che, in un periodo caldo come quello del crollo dell’Impero Ottomano, finì per essere considerata dai beduini stessi la “regina del deserto”. Ciò che si trasmette nel film è invece più una carrellata di spedizioni e successi tra i signori locali, con una Nicole Kidman schiava della sua bellezza (un’attrice più giovane e meno conosciuta sarebbe stata sicuramente più adatta), che a fatica riesce a mostrare le doti che effettivamente hanno permesso al suo personaggio di arrivare tanto avanti. Le sue imprese sono offuscate dal vero leitmotiv della pellicola, ovvero le sfortune amorose e le apprensioni della Bell più intima. Qui, volenti o nolenti, entra in gioco prepotentemente Rossella O’Hara, a scardinare un’emotività e una pochezza cinematografica cui magari in altre circostanze si sarebbe passato oltre. Due profili simili quelli di Rossella e Gertrude, due modi opposti però di rappresentarli sullo schermo. Entrambe belle, affascinanti e con schiere di pretendenti ai loro piedi. Entrambe sfortunate in amore: Rossella colleziona matrimoni con scarse fortune, Gertrude vede passare storie d’amore senza lieto fine.

L’amore, chiave di entrambi i film, è presentato impeccabilmente in Via col vento: la civettuola Rossella cade spesso nella trappola di Cupido, ma nel far ciò mostra il suo atteggiamento di sfida alla vita, la sua determinazione nello sfruttare astutamente gli uomini per costruirsi un futuro, lei stessa artefice del suo destino. Herzog, al contrario, affonda nella melma dell’amore più sdolcinato e melenso: la stessa Gertrude che nella cupa Inghilterra rifiuta uno dietro l’altro pretendenti troppo modesti (e in questo lascia presagire lo stesso carattere di Rossella) si perde a Teheran in un amore quasi adolescenziale con Henry Cadogan, funzionario dell’ambasciata. Né determinazione, né caparbietà, né astuzia nella trama del film: solo una banale rappresentazione che include anche le immortali scene del ciondolo spezzato diviso tra gli amanti e della scalata del Romeo di turno al palazzo di Giulietta, accompagnate da lunghe e sdolcinate lettere all’amante di turno. La Bell si mostra in tutta la sua debolezza, che pare insopportabile, incomprensibile, incoerente con una vita tra i beduini del deserto che richiede un approccio diametralmente opposto. L’ispirazione storica di Queen of the desert risulta sprecata e il carattere di Gertrude viene delineato in maniera incompleta, lasciando dedurre allo spettatore quasi più dai titoli di coda della vicenda che non dalle sue immagini.

Non c’è spazio per un urlo d’orgoglio come quello di Rossella, che nella terra di Tara trova la forza per riscattare la sua movimentata esistenza, bensì solo per la rassegnazione. Dov’è la Bell punto di riferimento britannico nel controllo del Mandato post-ottomano? Dov’è la Bell che supporta la rivolta araba e che disegna i confini delle nuove nazioni? Dov’è la Bell che incorona i re di Iraq e Giordania? All’originale ironia di Via col vento, che si inserisce senza problemi nella trama (basti pensare all’attrice premio Oscar che interpreta Mammy), si contrappone in Queen of the desert un’ironia tipicamente inglese, spesso tirata, anche se in alcuni casi comunque d’effetto, che ha al centro il personaggio di Winston Churchill (tanto per cambiare), un inadatto Lawrence d’Arabia e vari riferimenti sprezzanti sull’essere tedeschi. Ciò che, parzialmente, salva il film di Herzog sono le maestose inquadrature del deserto e dei paesaggi arabi (girate in Marocco), delle carovane e delle oasi, delle città d’argilla nell’atmosfera ancora intatta del pre-colonialismo. Il tutto accompagnato da una colonna sonora pomposa e d’effetto.

Voto: 5

Andrea Pasquin

QUI

Regia: Daniele Gaglianone

Soggetto: Daniele Galianone, Giorgio Cattaneo

Anno: 2014

Durata: 120’

Nazione: Italia

TRAMA

Da 25 anni la popolazione della Val di Susa lotta contro la TAV. Una fotografia della frattura fra Stato e cittadini.

RECENSIONE

“Quello preso meglio ero io. La gente reagiva alla polizia in maniera vivace” così Aurelio (dj di Radio Black Out) racconta la sua esperienza di lotta. Il suo desiderio di testimoniare in diretta gli scontri tra i valsusini e la polizia è stato esaudito. Così come Marisa, titolare di un agriturismo, che si è incatenata alla recinzione dei cantieri con le manette comprate in un sexy shop. “Ma il pelo l’ho tolto!”, precisa l’arzilla signora.

Presentato come film italiano al Filmmaker Festival di Milano 2014, Qui tratteggia una serie di ritratti di cittadini che non vogliono perdere il loro il territorio d’appartenenza, dove tutti lottano non contro la polizia ma contro “la polizia No TAV” spiega un padre di famiglia ed ex carabiniere, rimasto ferito in volto da un lacrimogeno. C’è chi si aggrappa alla religione, come Gabriella o chi, come Cinzia, cerca di spiegare il punto di vista dei valsusini alla polizia: “la lotta aggiunge ricchezza alla propria vita. Io sono dalla parte giusta”, afferma la ragazza continuando con “dicono che se non vogliamo la TAV non vogliamo il progresso. Eppure non mi sembra di vivere in una caverna”.

Secondo tutti gli intervistati la TAV è un progetto voluto dalle alte sfere governative e politiche, troppo distanti – fisicamente e mentalmente – per poter realmente comprendere l’enorme disagio creato. Dal 1989. Gaglianone ha cominciato le riprese nel 2012, senza una precisa idea iniziale, lasciando che questi personaggi si raccontassero spontaneamente davanti alla telecamera. Spiega il regista: “Ho fatto questo film perché vivo a Torino. Non sono un giornalista e non è questo il mio lavoro. Mi interessava sentire il racconto di queste persone che si sono trovate da un giorno all’altro in una zona di guerra. Per questi cittadini il rapporto con lo Stato si è ridotto al rapporto con un agente in tenuta antisommossa”.

Un’opera che non vuole spiegare né i pro e contro del progetto ferroviario, né le ragioni della protesta, ma prova a mostrare come i cittadini italiani siano stati totalmente abbandonati dalle istituzioni. Un punto di vista, quello del regista, volutamente parziale. Limitandosi a far conoscere allo spettatore chi siano veramente i valsusini, Gaglianone si è fatto antropologo di un malessere comune.

Voto: 7,5

Francesco Foschini

71ª FESTIVAL DI VENEZIA – PARTE 3

ORIZZONTI

Goodnight Mommy (Ich seh/Ich seh) di Veronika Frank e Severin Fiala (Austria). Voto: 8½

La moglie di Ulrich Seidl, dirige a quattro mani con Severin Fiala questo horror dalla confezione incantevole. Una madre torna a casa dai figli gemelli, di dieci anni, con il volto ricoperto di bende. Pare irriconoscibile nel suo carattere che ora appare dispotico, e non è chiaro se sia davvero lei. I misteri che si affollano accanto questo ritorno sono tanti, e il tutto sfocerà in un sadico film di tortura, ai confini della sopportabilità. Il finale a sorpresa riduce il film ad essere un one-shot movie, stile “Il sesto senso”, e questo è probabilmente l’unico limite di un film di ipnotica bellezza che mantiene per tutta la sua durata una tensione palpitante, attraversato da un sottile sadismo che lo avvicina molto al cinema del connazionale Haneke. A livello tematico andrebbe confrontato con “Il Ritorno”, sottovalutato capolavoro di Andrej Zvyagintsev, che vinse il Leone d’oro nel 2003. Uno dei migliori film visti a Orizzonti.


Hill of Freedom (Jayueui onduk) di Sangsoo Hong (Corea del Sud). Voto: 7½


Jackie & Ryan di Ami Canaan Mann (USA). Voto: 6½


Réalité di Quentin Dupieux (Francia/Belgio). Voto: 6

Film genialoide e delirante sui confini tra realtà e finzione, pieno di arditi giochi intellettualistici e di giochi di scatole cinesi, con un occhio all’ ultimo Lynch. Non riesce ad andare oltre una brillantezza fine a se stessa, tutto sommato fredda e sterile.


Belluscone – Una storia siciliana di Franco Maresco (Italia). Voto: 8

Magnifico e importante film su un film che non si è fatto, che descrive magistralmente uno spaccato inquietante dei rapporti tra mafia e berlusconismo, non solo ai piani alti ma anche a livello popolare.


Court di Chaitanya Tamhane (India). Voto: 7

Insolito film giudiziario in cui, più che all’esito del processo, l’esordiente regista (classe 1987), sembra interessarsi alle vite private dei personaggi, ai tempi morti che le caratterizzano, scavando su alcune contraddizioni dell’ India contemporanea. Un esordio apprezzabile, ma non folgorante: c’è troppo distacco rispetto ai personaggi. Vincitore del primo premio del concorso Orizzonti, nonché del premio opera prima Luigi de Laurentiis. Troppa grazia.


SETTIMANA INTERNAZIONALE DELLA CRITICA

Figlio di nessuno (Ničije dete) di Vuk Ršumović (Serbia). Voto: 10

Il trentanovenne regista esordiente riesce a costruire una sorprendente parabola sulla condizione umana, attraverso la vicenda del percorso di civilizzazione all’interno di un orfanotrofio di un ragazzo selvaggio, ritrovato nei boschi della Bosnia. Il tutto calato nel periodo storico dello sfaldamento della Jugoslavia, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90. Film circolare, apparentemente classico, in realtà di una complessità e compiutezza stupefacenti. Il vero capolavoro dell’intero Festival. Avrebbe meritato di essere in concorso. E di vincere il Leone d’oro.


Una bara da seppellire (Binguan) di Xin Yukun (Cina). Voto: 7

Un film che utilizza curiosamente lo stesso meccanismo narrativo visto quest’anno ne “Il capitale umano”, quello non nuovissimo della narrazione dello stesso evento da più punti di vista (ricordate Rashomon?). In questo caso al centro della vicenda c’è un omicidio. Il film è più che discreto, con un buon ritmo. Tuttavia contiene un mistero insolvibile: per non si capisce quale motivo, in contesti e momenti diversi, ogni volta che viene inquadrata una televisione, questa trasmette sempre lo stesso documentario sugli oranghi!


The Smell of Us di Larry Clark (Francia). Voto: 5

Larry Clark si trasferisce in Francia, ma gira sempre lo stesso film sugli adolescenti sbandati, sempre diviso ipocritamente tra le lacrime di coccodrillo e la celebrazione dell’età inquieta, per cui il regista sembra avere un ossessione che sconfina nel feticismo più spinto. Clark manca di vero amore per i personaggi, che inquadra con uno sguardo a metà tra l’avidità di un voyeur e la freddezza di un documentario di Super Quark.


Messi di Álex de la Iglesia (Spagna). Voto: 3

A cosa serviva la firma di de la Iglesia (mai così anonimo) per costruire quella che è a tutti gli effetti una semplicissima puntata di “Sfide”?


I nostri ragazzi di Ivano De Matteo (Italia). Voto: 5

Film diretto, interpretato e scritto con gli stilemi di una fiction televisiva di raiuno, con Lo Cascio mai così annoiato nell’interpretare il solito ruolo di buon borghese apparentemente (in questo caso) illuminato (ancora? ma quanti anni sono passati dalla Meglio Gioventù?). Il finale è decoroso e aggiunge un briciolo di spessore all’operazione, che però non riesce a salvarsi in toto.


The Farewell Party (Mita Tova) di Sharon Maymon, Tal Granit (Israele). Voto: 4

La colpa peggiore di questo film sull’ eutanasia è la pressoché totale mancanza di problematizzazione rispetto a un tema così complesso e delicato. Il film prende una netta posizione, e fin qui niente di male, ma lo fa con l’unilateralità di uno spot televisivo, e con estrema superficialità. Un po’ di polifonia non avrebbe guastato.


Angelo Grossi

TYNDALL

Regia: Fatima Bianchi

Sceneggiatura: Fatima Bianchi

Anno: 2014

Fotografia: Fatima Bianchi

Colonna sonora: Attila Faravelli, Enrico Malatesta, Nicola Ratti

TRAMA

Un faro sulle montagne sopra Brunate: un fascio di luce ruota incessantemente nel buio, illuminando qualcosa rimasto nell’ombra. È una casa dove i membri di una famiglia sono ritratti nella loro vita quotidiana, scambiando lettere con il figlio maggiore, Francesco, che sta trascorrendo un anno di carcere.

RECENSIONE

Vincitore della sezione Prospettive al Milano Filmmaker Festival “per la capacità di scandagliare una dimensione intima e universale rimanendo in bilico tra registri differenti”, Tyndall è un racconto familiare a metà tra video arte e documentario biografico. Un kammerspiel contemporaneo che si giostra tra un racconto epistolare a più voci  e tableaux vivants sospesi nel tempo.

“Credo che l’arte migliore provenga dallo sviluppo naturale dei fatti della vita, con questi intenti ho fatto un film: Tyndall. Un ritratto della mia famiglia in un momento critico, quando mio fratello era in carcere. Il film mette in relazione i personaggi in dialogo con se stessi, la loro vita privata e Francesco dalla cella del carcere”, così ha affermato la giovane regista Fatima Bianchi.

È mattina in casa Bianchi. C’è chi fa colazione, chi pratica yoga, chi si esercita con il violino, chi si rasa i capelli. Tutti occupati nelle loro faccende quotidiane, ma con un unico pensiero comune: Francesco, il primogenito costretto a un anno di galera. Fatima Bianchi ha svolto le riprese nella casa dove è cresciuta – a Brunate, “il Balcone sulle Alpi”, vicino al lago di Como – con un cast d’eccezione, la sua famiglia. Ogni membro viene ritratto attraverso lettere inviate al ragazzo incarcerato. Le loro sensazioni si fanno protagoniste di questa perdita temporanea, creando un malinconico racconto epistolare. Mamma Emma raccomanda al figlio di bere camomilla ogni sera prima di coricarsi, i fratelli Benedetto e Maddalena sottolineano quanto l’assenza forzata di Francesco sia motivo di enorme vuoto, babbo Ermenegildo cerca un confronto sincero col ragazzo per non essere poi rimproverato di omertà in futuro.

Una luce particolare diventa leitmotiv del quadro familiare. È l’effetto Tyndall, da cui la regista ha preso il titolo del corto: “un fenomeno di diffusione della luce dovuta alla presenza di alcune particelle nell’aria. Esso si manifesta, ad esempio, quando i fanali di un’auto sono accesi in un giornata di nebbia. Lo stesso effetto è visibile dal faro sui monti di Brunate, guardando verso la casa della mia famiglia”. Attraverso questo tipo di luce, la vita in casa sembra immobile, lasciando sospese in chi guarda le immagini proiettate. Un mondo parallelo situato nel comasco, avvolto da una foschia onirica che trapassa i vetri liberty del salotto vuoto di casa Bianchi.

La giornata sta volgendo al termine, il sole tramonta dolcemente sulle rive del lago, attorniato dalle montagne. Francesco risponde alla famiglia, sta bene e si sta abituando a quella condizione di vita obbligata: “sto cercando un equilibrio. Ora ho un sacco di tempo che prima non avevo. Grazie per I vagabondi del dharma, Bebe [il fratello Benedetto], mi mancano le ultime cinquanta pagine. È bello, anche se al momento gli unici viaggi concessi sono quelli con la mente. E oggi che è domenica vi immagino tutti a casa e vi sono vicino”.

Voto: 8,5 

Francesco Foschini

71ª FESTIVAL DI VENEZIA – PARTE 1

IN CONCORSO

A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence (En duva satt på en gren och funderade på tillvaron) di Roy Andersson (Svezia / Germania / Norvegia / Francia). Voto: 8

Chiusura della trilogia dedicata da Andersson al cosa significa “essere un essere umano” (come dichiarato nei titoli di testa), questo singolare insieme di tableaux vivants che spesso indugia nella metanarrazione si aggiudica un Leone d’Oro coraggioso nel privilegiare un cinema non di narrazione. E’ un film pieno di invenzioni mirabolanti che ritraggono una serie di personaggi mortiferi e catatonici condannati alla reiterazione infinita di azioni assurde e irresistibilmente comiche tra le quali si sbriciola ogni possibile senso dell’esistenza.


The Cut di Fatih Akın (Germania / Francia / Italia / Russia / Canada / Polonia / Turchia). Voto: 3

Terzo capitolo di una trilogia chiamata “L’amore, la morte e il diavolo”, che segue a “La sposa turca” (che dovrebbe trattare l’amore) e a “Ai confini del paradiso” (la morte). Questa volta tocca al diavolo, cioè al male all’interno della Storia, con un’epopea riguardante il sinistro capitolo storico del genocidio degli armeni. Peccato che il risultato sia questo  esangue polpettone scontato quanto una fiction televisiva, in cui diventa praticamente impossibile interessarsi al destino di un padre alla ricerca delle figlie in capo al mondo, manco fosse una vicenda difficile da rendere interessante.


Tales (Ghesse-ha) di Rakhshan Bani-Etemad (Iran). Voto: 6

L’intento della regista iraniana è quello di raccontare le contraddizioni del proprio paese attraverso una serie di episodi in cui la narrazione è trascinata dai racconti orali dei personaggi, le cui storie, rimangono fuori campo, attraverso le diverse reazioni di chi ascolta. L’unico episodio che però riesce ad andare veramente a segno è l’ultimo, ambientato in un taxi, e consistente in un delicato dialogo tra il giovane tassista che ha abbandonato l’università e una ragazza sieropositiva, in cui il non detto e i sentimenti trattenuti muovono magistralmente i fili della narrazione. Purtroppo tutto il resto del film è all’insegna del già visto e si lascia facilmente dimenticare. Fosse stato solo un cortometraggio consistente nell’ ultimo episodio, avrebbe pienamente giustificato il premio per la miglior sceneggiatura che il film ha ricevuto.


Le rançon de la glorie di Xavier Beauvois (Francia/Belgio/Svizzera). Voto: 5½

Un intento anche troppo ambizioso quello del regista di “Uomini di Dio”: quello di raccontare la storia del rapimento del cadavere di Chaplin con i toni dei suoi film, sottolineati anche dalla splendida colonna sonora (sprecata) di Michel Legrand, che come nei film di Charlot avrebbe il ruolo di sostituire le parole nel manifestare i sentimenti dei personaggi. Questo confronto volutamente ricercato, però, finisce per sottolineare la fiacchezza del film, che non riesce nell’ imitazione troppo ambiziosa che si impone. La sottolineatura di come i due protagonisti siano più vicini allo spirito del Vagabondo rispetto al mondo che lo circondava nella vita reale, non è priva di interesse, ma troppo fragile per reggere un intero film.


Le dernier coup de marteau di Alix Delaporte (Francia). Voto: 6

Un romanzo di formazione melodrammatico all’insegna del già visto e del già sentito.


Pasolini di Abel Ferrara (Francia / Belgio / Italia). Voto: 4

Nel voler ricostruire gli ultimi giorni di Pasolini, Ferrara non è interessato né a comprendere in profondità quegli anni, né a delineare la complessità del personaggio. Il tutto si limita dunque a un elenco di aneddoti  che un giro su wikipedia o su youtube basterebbe a rendere del tutto superfluo.


Tre cuori (3 coeurs) di Benoît Jacquot (Francia). Voto: 4

Cinema tedioso, esangue, privo di vita. Colpo di sonno assicurato.

Angelo Grossi

PRIMO INTERVALLO