CONTAGIOUS – EPIDEMIA MORTALE

Titolo originale: Maggie

Regia: Henry Hobson

Sceneggiatura: John Scott

Anno: 2015

Durata: 95’

Nazione: USA

Fotografia: Lukas Ettlin

Montaggio: Jane Rizzo

Scenografia: Gabor Norman

Costumi: Claire Breaux

Colonna sonora: David Wingo

Interpreti: Arnold Schwarzenegger, Abigail Breslin, Joely Richardson

TRAMA E RECENSIONE

Uno zombie movie. Maggie, orfana di madre e figlia adolescente di Wade, un agricoltore del Midwest, é stata aggredita e morsa sul braccio da uno zombie. Il padre la accoglie in casa cercando in tutti i modi di preservarne la vita fino a ben oltre il limite consentitogli dalla legge di questo mondo post-apocalittico dove l’epidemia ha colpito fin dentro molte case dei suoi abitanti. Lentamente la ragazza manifesta segni sempre più evidenti dell’infezione che si estende su tutto il suo corpo e nella sua mente fino all’inevitabile trasformazione in un morto vivente.

Gli elementi chiave sono molto comuni: l’epidemia mortale sconosciuta, la connotazione del sangue come veicolo di scambio della malattia, l’inevitabile trasformazione di una persona in un simulacro di essere umano (a cui di umano resta ben poco), l’incessante scopo di questo di nutrirsi di altri esseri umani nel tentativo di placare una fame che non può essere placata e la trasmissione, a sua volta, di questo veleno. La differenza sostanziale rispetto ad altri film del genere risiede punto di vista. La storia viene narrata dal punto di vista della persona più vicina al futuro morto vivente nonché da quello del futuro morto vivente stesso. Dunque, invece che tenere il fiato sospeso escogitando noi stessi un modo per sfuggire alle voraci creature cannibali, questa volta il conflitto nasce dal provare la costante e disperata impotenza che prova Wade nel vedere sparire progressivamente dagli occhi della figlia la persona che lei era per lasciare il posto ad una creatura famelica, priva di una qual si voglia ragione e coscienza, improntata solo a fare del male.

Il film segue il decorso della malattia che porterà di fatto Maggie a morire lentamente. Tramite i suoi sogni-ricordi, possiamo rivivere più volte il momento violento del morso che, non venendoci mai narrato per intero, dona più enfasi alla condizione alienante della co-protagonista facendocelo registrare come un accadimento già successo, già accertato, inevitabile, e senza concederci pertanto di formulare alcuna ipotesi su come questo si sia verificato o su come si sarebbe potuto evitare.

Spesso negli zombie movies, queste creature sono viste come fossero dall’altra parte della barricata. Approcciate sempre e solo da lontano e da vicino per brevi momenti (perché nient’altro che pericolose se troppo vicine), si presentano sempre già trasformate e pronte ad uccidere. Non siamo portati a chiederci chi sia stata quell’individuo in particolare o quale sia la sua storia. Qui, invece, viene dato ampio spazio ad una visione più intima del personaggio colpito entrando in profondità nei suoi ricordi e nelle sue sensazioni, in un passato lontano quanto prossimo che può sicuramente avere attinenza con il nostro, facendoci sentire paradossalmente più vicini all’“antagonista” della storia (il titolo originale della pellicola è Maggie) prima che lo diventi definitivamente.

Voto: 7

Cristina Malpasso

LA DONNA CHE CANTA

Titolo originale: Incendies

Regia: Denis Villeneuve

Sceneggiatura:  Wajdi Mouawad

Anno: 2010

Durata: 130′

Produzione: Canada

Fotografia: André Turpin

Montaggio: Monique Dartonne

Scenografia: André-Line Beauparlant,Rana Abboot, Marie-Soleil Dénommé, Amin Charif El Masri, Philippe Lord e Fenton Williams

Interpreti: Lubna Azabal, Mélissa Désormeaux-Poulin, Maxim Gaudette, Remy Girard, Abdelghafour Elaaziz.

TRAMA

All’apertura del testamento della madre, fratello e sorella canadesi scoprono di avere un padre che credevano morto e un fratello di cui non conoscevano l’esistenza. Per ritrovarli dovranno affrontare un lungo viaggio in Medio Oriente alla ricerca delle proprie radici che li porterà a scoprire il torbido e terribile passato della mamma, così ombrosa ed enigmatica in vita.

RECENSIONE

Canada – Alla morte della madre Nawal ai gemelli Jeanne e Simon vengono consegnate  da un notaio due lettere. Una è destinata al padre che credevano morto e l’altra ad un fratello di cui non conoscevano l’esistenza. Le ultime volontà della madre  sono quelle di ritrovare padre e fratello e consegnare personalmente le missive. Jeanne, giovane matematica la cui mente razionale ha una spiegazione logica per tutto,  intraprende senza esitazione un lungo viaggio a ritroso che si intreccia con la storia di sua madre da giovane, attraversando luoghi della sua terra di origine a lei sconosciuti. Insieme al fratello riuscirà, mettendo insieme i pochi indizi (un piccolo crocifisso e un passaporto) e numerosi tasselli, a  ricostruire il doloroso passato della mamma. Attraverso flashback continui le vicende delle due donne si sovrappongono, come due rette parallele di una formula matematica  che, pur non incontrandosi mai arrivano allo stesso punto. Il tutto viene – credo volutamente – rimarcato dalla  marcata somiglianza tra le due attrici.

La pellicola è ambientata – anche se non viene espressamente dichiarato – nella terra tormentata del Libano, sconvolta da anni di guerra civile, ma potrebbe trattarsi di una qualunque altra nazione  dove sono in atto conflitti e atrocità, tra distese di cemento e polvere mescolata a sangue. La trama, inizialmente indecifrabile, si sviluppa via via alimentandosi di dubbi e domande senza apparente risposta, sino a rivelare che il comportamento incoerente e ombroso di Nawal, in realtà era giustificato da un’esistenza densa di sofferenze. La storia viene svelata: la cristiana Nawal viene ripudiata dalla famiglia per aver amato un musulmano e il figlio che partorisce (il fratello che non conoscono) le viene sottratto subito dopo il parto. Parte allora alla ricerca del figlio perduto ma viene travolta dagli orrori della guerra, dalla violenza e dalla morte che la circonda. Lei, un tempo fervente pacifista, si schiera contro i nazionalisti e uccide un importante leader politico cristiano. Viene rinchiusa nella famigerata prigione di Kfar-Ryat, dove resta per 15 anni subendo torture e violenze. In carcere non si è mai piegata ai suoi aguzzini, tanto da essere soprannominata da tutti  “la donna che canta”, perché cerca di mascherare la sua sofferenza con il canto. Fino a giungere all’inaspettato e crudele finale che svela ai due ragazzi che fratello e padre sono la stessa persona.

“La donna che canta” è un teorema matematico, una storia che parla di amore materno, uno spaccato della società mediorientale, sulla violenza e sui dissidi religiosi e politici. E’ un percorso che esplora le proprie origini passando attraverso ricordi dolorosi, fatti di filo spinato e  spietati cecchini e che, anche attraverso rivelazioni scioccanti, può portare un senso di liberazione chiarificatrice.

La trasposizione cinematografica trae spunti dalla vera storia di Souha Fawaz Bechara e da  episodi  della guerra civile libanese. Il film, superbamente diretto dal canadese Denis Villeneuve (Polytechnique, Prisoners), è ispirato alla pièce teatrale “Incendies” del drammaturgo di origini libanesi Wajdi Mouawad ed ha vinto svariati premi (tra i quali miglior film canadese al Toronto International Film Festival e la candidatura agli Oscar 2011 come miglior film straniero). La divisione in capitoli, ognuno dei quali titolato,  permette alla trama di snodarsi molto bene nello spazio temporale, percorrendo luoghi diversi sia geograficamente che per identità storica e situazione politica.

La scena più intensa ma allo stesso tempo inquietante del film è quella iniziale che si apre su di un campo di ulivi, come sottofondo le splendide note di “You and Whose Army” dei Radiohead (dall’album Amnesiac del 2001). La camera del regista si dirige lentamente verso l’interno di una casa diroccata inquadrando gli sguardi spaventati di bambini che vengono preparati per la loro iniziazione alla guerra da alcuni miliziani.  Poi indugia  e si sofferma a lungo su di un bambino che, mentre viene rasato, fissa insistentemente l’obiettivo. Quello sguardo fisso in macchina riesce a riassumere in pochi minuti tutta la tragedia dei popoli medio orientali, o di chi provenga da nazioni martoriate divise da violenti conflitti e soprusi. E’ straziante perché sembra farsi carico di tutta l’angoscia di un’infanzia violata, è uno sguardo  svuotato di qualunque dolcezza infantile, che cela rancore, proprio perchè sta perdendo così prematuramente l’innocenza. E’ conscio di ciò che lo aspetta e sembra promettere vendetta.

Il regista Villeneuve è abilissimo nella rappresentazione del dolore profondo, ogni centimetro della pellicola è intriso di odio verso la guerra, e quello sguardo di bambino è talmente dilaniante che arriva ad avere una potenza ancor più devastante di spettacolari scene di battaglia hollywoodiane.

“La donna che canta” non è solo un film che mette in fila scenari di morte e  torture inflitte senza apparente pentimento, è molto di più. E’ la rappresentazione, portata in scena in modo magistrale ed assolutamente autentico dall’attrice belga Lubna Azabal, dell’infinito amore materno, del complesso rapporto madre-figli. Lubna interpreta con innegabile talento recitativo, molto intenso e mai sopra le righe, il ruolo di una donna piegata dalla rabbia per le sofferenze e le ingiustizie subite che hanno lasciato sul suo volto i segni di un dolore troppo immenso per trasfigurarsi in perdono.

Nawal, come ogni vittima di atroci barbarie, ad un certo punto finisce per nutrirsi dello stesso odio di cui è stata vittima, quasi come se l’unico atto di ribellione fosse la vendetta, che diviene sempre più pulsante a mano a mano che ci si avvicina al cuore della storia: lo strazio della perdita di un figlio, uno dei dolori più grandi per una madre,  appare inaccettabile e orgoglio e dignità non  sono sufficienti contro il timore della lontananza  definitiva. Ha intrapreso una ricerca senza sosta pur di ritrovarlo ma non vi è riuscita, ed ha riversato la sua protezione sugli altri due, portandoli lontano da quelle terre insanguinate. Li ha protetti da quel passato doloroso,  finchè non ha capito che questo non poteva più essere taciuto perchè nascondeva problemi irrisolti. E col tempo riesce anche a perdonare, e lo fa  attraverso le lettere che consegna al marito e al figlio. E’ lì che si svela l’umanità di Nawal, quasi una madre courage, che ad un certo punto si era persa lasciando il posto alla vendetta, ma che poi accetta il suo destino rompendo quella catena di odio che non vuole lasciare in eredità ai figli. Proprio come la terra del Libano, del Medio Oriente, o di un qualunque altro paese martoriato dalla guerra, che ha partorito dal proprio ventre sia il seme della violenza che quello della speranza. Ho l’impressione che all’acqua – le piscine dove nuotano Jeanne e Simon – venga attribuita una valenza di elemento purificatore, quasi a voler ricreare una sorta di protettivo utero materno.

“La donna che canta” è un film di altissima tecnica registica e fotografica e picchi di eccellenza nella recitazione di tutto il cast e in particolare – come già sottolineato – della bravissima Lubna Azabal, vincitrice del Premio Magritte come miglior attrice nel 2012. Un film straziante che per la sua crudezza ti entra fin nelle viscere più profonde. A mio parere inattaccabile.

Voto: 9

Agatha Orrico

MUSARANAS

Regia: Juanfer Andrés, Estaben Roel

Sceneggiatura: Juanfer Andrés, Sofia Cuenca, Emma Tusell

Anno: 2014

Durata: 95′

Nazione: Spagna

Fotografia: Angel Amoròs

Musiche: Joan Valent

Interpreti: Macarena Gòmez, Nadia de Santiago, Hugo Silva, Luis Tosar

RECENSIONE

Musarañas (in spagnolo “toporagno”) è una vera e propria chicca cinematografica purtroppo ignorata in Italia, forse perché è l’esordio di due giovani registi, seppur ottimo e con un cast eccellente fra cui spicca  la bravissima Macarena Gòmez.

Nella Spagna degli anni ’50, Montse,  insieme alla sorella più piccola al quale ha sempre fatto da madre, vive nell’appartamento lasciato dai genitori. La giovane donna soffre di una grave forma di agorafobia che la costringe a rimanere perennemente chiusa in casa non riuscendo nemmeno a mettere un piede fuori dalla porta e, all’interno delle quattro mura della sua prigione, cuce dei bellissimi abiti su misura per le poche persone al quale concede di entrare nell’abitazione. La sorella minore, ormai diciottenne, ha un lavoro che la tiene lontana da casa la maggior parte della giornata e, come tutte le ragazze della sua età, comincia ad avere una vita sociale e soprattutto attirare l’attenzione dei ragazzi, destabilizzando così la routine quotidiana di Montse. Un giorno, il vicino di casa che abita al piano superiore, irrompe nell’appartamento delle due donne chiedendo aiuto dopo essere caduto dalle scale e rottosi la gamba. Montse è sola e, seppur intimorita, riesce a soccorrerlo, prendersi cura di lui medicando le ferite finendo poi per innamorarsene e, come Misery non deve morire insegna, meglio drogarlo per impedire che se ne vada, trasformando quello che era iniziato come una semplice gentilezza in un vero e proprio sequestro.

Un thriller claustrofobico dalle sfumature horror che, oltre a citare il best seller di Stephen King e la sua trasposizione cinematografica con l’inquietante Kathy Bates,  trae spunto da Il silenzio degli innocenti e strizza l’occhio persino a Robert Aldrich e al suo Che fine ha fatto Baby Jane del 1962 in cui, la straordinaria Bette Davis, in preda alla follia con quegli occhi enormi e sempre spalancati, è stata senza dubbio di ispirazione per il personaggio di Montse e, la scelta di Macarena Gomez per interpretarla,  più che mai azzeccata. Il film è fin da subito inquietante, con la presenza costane del padre morto diversi anni prima e ancora pronto a giudicare la povera Montse in preda alla sua follia, per la quale si riesce solo a provare pena qualsiasi cosa sia pronta a fare. Una donna sola che nasconde segreti inconfessabili, psicologicamente instabile e incapace di fare una netta distinzione tra la realtà e quello che avviene solo nella sua mente. All’arrivo dell’ospite inatteso, la pazzia di questa un’anima persa, catapulta lo spettatore in un territorio nuovo che si fa sempre più terrificante assumendo i connotati di un vero e proprio horror.  Musarañas è un ottimo thriller paragonabile ad un altro piccolo capolavoro spagnolo, El habitante incierto di Guillem Morales del 2004, purtroppo mai giunto nelle nostre sale e che va assolutamente recuperato!

Voto 8

Cinefabis

STARRED UP

Regia: David Mackenzie

Sceneggiatura: Jonathan Asser

Anno: 2013

Durata: 106’

Nazione: Regno Unito

Fotografia: Michael McDonough

Montaggio: Nick Emerson, Jake Roberts

Scenografia: Tom Mc Cullagh, Gilian Devenney

Interpreti: Rupert Friend, Jack O’Connel, Frederick Schmidt, Ben Mendelsohn, Sam Spruell

TRAMA E RECENSIONE

Starred Up è un’ottima pellicola in grado di raccontare – in modo molto realistico, senza moralismi e esagerazioni la vita nelle carceri dal punto di vista di un giovane sbandato.

Eric è un diciottenne irrequieto, violento e tormentato che, dal riformatorio dove era recluso in seguito a piccoli episodi di delinquenza, viene trasferito in una struttura per adulti. Il nuovo ambiente, con le sue regole e i suoi codici, dettati non solo dalla polizia penitenziaria ma anche e soprattutto dagli altri detenuti, contribuisce ad amplificare la sua rabbia e il suo comportamento rissoso. Il ragazzo viene rinchiuso nello stesso carcere dove sta scontando una lunga pena anche il padre, che non vede da diversi anni e con il quale ha sempre avuto un rapporto molto difficile, non mancheranno quindi numerose occasioni di scontro e un duro confronto generazionale. Grazie ad un terapista comportamentale (interpretato da Rupert Friend, praticamente il sosia di Orlando Bloom e per un attimo ho pensato fosse proprio lui), che svolge con passione il compito di rieducare i detenuti più violenti, Eric, seppur inizialmente molto restio ad accettare critiche e a lavorare sulla sua rabbia, riesce ad inserirsi nel gruppo di discussione.

In Starred up è tutto vero, almeno è questa l’impressione che si ha. Si assiste alla descrizione dettagliata di tutti i particolari della vita carceraria senza fastidiose edulcorazioni e la spettacolarizzazione del suo lato più duro e brutale, anche se non mancano episodi di estrema violenza. La sceneggiatura, ad opera del debuttante Jonathan Asser, si ispira alla sua personale esperienza di educatore presso il carcere britannico di Wandsworth, ed è proprio per questo che la scrittura risulta credibile in ogni momento, riuscendo ad emozionare rimanendo sempre autentica, senza incappare in facili ipocrisie e pietismi. La complessa condizione psicologica dei detenuti e i loro comportamenti che possono apparire incomprensibili visti dall’esterno acquistano, sotto la guida di una regia attenta a non inciampare nella banalità, un significato che va oltre gli stereotipi della classica pellicola sulla vita carceraria.

Il film convince sempre, offrendo un toccante ritratto di un giovane appena entrato nell’età adulta e del suo complesso rapporto con il padre, entrambi vittime della violenza a causa di una personalità turbata che li porta ad essere in eterno conflitto con se stessi e con il mondo intero. Quello che colpisce fin da subito è l’estrema autenticità della storia, si segue con attenzione il percorso rieducativo di Eric, provando per lui qualsiasi tipo di emozione dalla rabbia alla compassione ed entrando fin dentro la sua piccola cella perché, senza quasi rendersene conto, è proprio lì che si viene catapultati. A fianco di questo diciottenne incazzoso si scoprono i meccanismi che regolano la vita da reclusi, non si spia da lontano come un estraneo che osserva un mondo che non gli appartiene, ma si entra in questa realtà sentendosene parte. Starred up è riuscito a coinvolgermi a tal punto che, solo ai titoli di coda, mi sono sentita nuovamente libera.

Voto: 7,5

Cinefabis