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SHAME

Regia: Steve McQueen

Sceneggiatura: Abi Morgan, Steve McQueen

Anno: 2011

Durata: 99’

Nazione: Gran Bretagna

Fotografia: Sean Bobbitt

Montaggio: Joe Walker

Scenografia: Judy Becker

Costumi: David Robinson

Colonna sonora: Harry Escott

Interpreti: Michael Fassbender, Carey Mulligan, James Badge Dale, Hannah Ware

RECENSIONE

Shame parla di Brandon, un uomo adulto apparentemente stabile dal punto di vista economico e sociale, del cui passato sappiamo ben poco. Capiamo presto, però, come vi sia un’ombra sotto quell’apparenza: un’insana attrazione per la pornografia e per il sesso in generale che lo porta a concedersi una certa quantità di piacere fisico al giorno tanto da diventarne schiavo. Che questo piacere provenga dalla masturbazione o dagli incontri casuali con perfette sconosciute o prostitute sempre diverse, non fa differenza. La spirale in cui si trova Brandon é, come per ogni dipendente, lenta ed inesorabile. Questa lo trascina sempre più in basso fino al deteriorante danneggiamento emotivo, oltre che fisico, di se stesso. Il film parla chiaramente di dipendenza sessuale, della continua ricerca di quella sensazione di sollievo data dall’apice sessuale usata come anestetico/medicinale per un disagio interiore più profondo che affonda radici in un passato che, qui, non ci viene rivelato.

“Non siamo persone cattive, solo che veniamo da un brutto posto”. Gli lascia detto la sorella Sissy nella segreteria telefonica. Superficie uguale e speculare del personaggio di Brandon é rappresentata proprio dalla sorella. Dipendente sessuale, lui, e dipendente affettiva, lei, Sissy é completamente l’opposto del fratello. Essa apre le braccia al mondo cercando incessantemente qualcuno da cui essere amata immediatamente, incondizionatamente, infantilmente, disperatamente. Sissy richiede attenzioni in particolare a suo fratello, patologicamente incapace di dargliele e riluttante all’idea. Lo squilibrio emotivo della sorella genera una massiva insofferenza in Brandon al quale lei ricorda, con l’irruente e costante presenza (prima telefonica e poi fisica), le probabili ferite aperte della loro storia comune. I due hanno una pungente discussione in cui un sempre più esasperato Brandon, credendosi più sano e competente, le rimprovera le sue debolezze e mancanze, non concedendole mai (eccetto per un breve momento durante l’esecuzione di lei in un piano bar della canzone New York New York) di scalfire la sua corazza.

Una corazza l’hanno costruita entrambi ma con due materiali diametralmente opposti. Quella di Brandon é fatta per respingere, é sterile, alta, ferma. Quella di Sissy invece é malleabile, é fatta per accogliere, quasi per inglobare l’altra persona cercando di farla restare attaccata. A causa del successivo allontanamento o abbandono della persona amata, infatti, Sissy rimane devastata tanto da arrivare ad attuare una decisione estrema a seguito del rifiuto da parte della persona per lei più importante, Brandon.

Nel film gioca un ruolo molto importante l’intimità. Essa può riguardare vari ambiti delle relazioni umane. Si può intendere intimità la confidenza che si crea tra due persone dopo una prolungata condivisione della vita quotidiana. Si può intendere intimità anche la particolare complicità che fa si che due persone comunichino reciprocamente, in modo autentico, le loro emozioni e sensazioni l’una all’altra. E si può intendere l’intimità come la dimensione sessuale vissuta ad un livello diverso, più alto rispetto a quello strettamente erotico o fisico. Di fatto, tutte queste versioni del concetto di intimità prevedono una certa consapevolezza ed amore, innanzitutto, verso se stessi. Brandon non ha questo riguardo per sé e non esprime mai l’intenzione di andare infondo al disagio che prova per analizzarne l’origine e le dirette conseguenze, anzi, si mette in situazioni in cui può facilmente esercitare un controllo: paga una escort perché lei, dopo, possa riprendere le sue cose ed andarsene così da non farlo sentire responsabile di un’altra persona, né tanto meno vulnerabile rispetto a questa. É esattamente quello che succede con Marianne, accattivante ed emotivamente matura collega di lavoro che gli permette di aprirsi, di accogliere se stesso oltre che un’altra persona. Marianne permette a Brandon di vivere, per un momento, il rapporto sessuale non come mero atto fisico finalizzato ad un risultato, bensì come scambio vicendevole tra due persone consapevoli, alla pari. In quella circostanza, Brandon reagisce ritirandosi immediatamente, ritornando di corsa alle vecchie abitudini e, forse, segnando il suo destino nella continua ricerca di una eterna insoddisfazione.

Voto: 9

Cristina Malpasso

CONTAGIOUS – EPIDEMIA MORTALE

Titolo originale: Maggie

Regia: Henry Hobson

Sceneggiatura: John Scott

Anno: 2015

Durata: 95’

Nazione: USA

Fotografia: Lukas Ettlin

Montaggio: Jane Rizzo

Scenografia: Gabor Norman

Costumi: Claire Breaux

Colonna sonora: David Wingo

Interpreti: Arnold Schwarzenegger, Abigail Breslin, Joely Richardson

TRAMA E RECENSIONE

Uno zombie movie. Maggie, orfana di madre e figlia adolescente di Wade, un agricoltore del Midwest, é stata aggredita e morsa sul braccio da uno zombie. Il padre la accoglie in casa cercando in tutti i modi di preservarne la vita fino a ben oltre il limite consentitogli dalla legge di questo mondo post-apocalittico dove l’epidemia ha colpito fin dentro molte case dei suoi abitanti. Lentamente la ragazza manifesta segni sempre più evidenti dell’infezione che si estende su tutto il suo corpo e nella sua mente fino all’inevitabile trasformazione in un morto vivente.

Gli elementi chiave sono molto comuni: l’epidemia mortale sconosciuta, la connotazione del sangue come veicolo di scambio della malattia, l’inevitabile trasformazione di una persona in un simulacro di essere umano (a cui di umano resta ben poco), l’incessante scopo di questo di nutrirsi di altri esseri umani nel tentativo di placare una fame che non può essere placata e la trasmissione, a sua volta, di questo veleno. La differenza sostanziale rispetto ad altri film del genere risiede punto di vista. La storia viene narrata dal punto di vista della persona più vicina al futuro morto vivente nonché da quello del futuro morto vivente stesso. Dunque, invece che tenere il fiato sospeso escogitando noi stessi un modo per sfuggire alle voraci creature cannibali, questa volta il conflitto nasce dal provare la costante e disperata impotenza che prova Wade nel vedere sparire progressivamente dagli occhi della figlia la persona che lei era per lasciare il posto ad una creatura famelica, priva di una qual si voglia ragione e coscienza, improntata solo a fare del male.

Il film segue il decorso della malattia che porterà di fatto Maggie a morire lentamente. Tramite i suoi sogni-ricordi, possiamo rivivere più volte il momento violento del morso che, non venendoci mai narrato per intero, dona più enfasi alla condizione alienante della co-protagonista facendocelo registrare come un accadimento già successo, già accertato, inevitabile, e senza concederci pertanto di formulare alcuna ipotesi su come questo si sia verificato o su come si sarebbe potuto evitare.

Spesso negli zombie movies, queste creature sono viste come fossero dall’altra parte della barricata. Approcciate sempre e solo da lontano e da vicino per brevi momenti (perché nient’altro che pericolose se troppo vicine), si presentano sempre già trasformate e pronte ad uccidere. Non siamo portati a chiederci chi sia stata quell’individuo in particolare o quale sia la sua storia. Qui, invece, viene dato ampio spazio ad una visione più intima del personaggio colpito entrando in profondità nei suoi ricordi e nelle sue sensazioni, in un passato lontano quanto prossimo che può sicuramente avere attinenza con il nostro, facendoci sentire paradossalmente più vicini all’“antagonista” della storia (il titolo originale della pellicola è Maggie) prima che lo diventi definitivamente.

Voto: 7

Cristina Malpasso

L’UOMO SENZA SONNO

Regia: Brad Anderson

Sceneggiatura: Scott Kosar

Anno: 2004

Durata: 102′

Produzione: Spagna

Fotografia: Xavi Giménez

Montaggio: Luis De La Madrid

Scenografia: Alain Bainée

Costumi: Patricia Monné, Maribel Pérez

Colonna sonora: Roque Banos

Interpreti: Christian Bale, Jennifer Jason Leigh

TRAMA E RECENSIONE

Trevor é un operaio ridotto al fantasma di se stesso da quando, esattamente un anno fa, ha smesso di dormire. L’esigua forma fisica, nonché il conseguentemente precario stato di salute, si rivelano essere il risultato di un logorante senso di colpa giunto fin dentro l’anima del protagonista che viene così privato della basilare serenità necessaria per il sonno che, in nessun modo, egli non riesce a concedersi. La causa dei pensieri ossessivi del protagonista è un evento shockante, che ci viene rivelato solo alla fine del film: il malaugurato incidente stradale dove un bambino perde la vita a causa dell’incoscienza di un attivo e spensierato Trevor che, non trovando il coraggio di costituirsi fin da subito, cerca di scappare non solo fisicamente dal luogo dell’incidente ma anche intimamente dal suo senso di colpa nei confronti del quale, però, egli è impotente fin dall’inizio.

Assistiamo dunque ad una storia sulla fallibilità umana nella quale il protagonista tenta di evitare la realtà / il ricordo dell’accaduto autosedando i suoi stessi pensieri consci che debbono, così, trovare un altro modo per riaffiorare alla memoria, ovvero, sottoforma di episodi irreali in cui le componenti del ricordo spiacevole si mescolano con i ricordi dell’infanzia e della realtà attuale vissuta da Trevor. Egli lavora da tempo con grossi macchinari (“The Machinist” é il nome originale della pellicola). Nella prima parte del film, vediamo come questi possano, dopo un lungo periodo di sereno automatismo, incepparsi inaspettatamente causando gravi danni. Esattamente come questi grossi macchinari, il cervello lavora su una grande quantità di impulsi ed informazioni in base ai quali, elabora uno schema di azioni spesso ripetitive e preordinate. Quando si verifica l’errore, la mente deve essere analizzata, indagata proprio come per un pezzo meccanico rotto che, all’interno di un sistema, deve necessariamente essere aggiustato perché tutto possa ritornare a funzionare come allo stato iniziale.

Un personaggio da subito molto interessante è Ivan. Inizialmente presenza scomoda, subdola, quasi pericolosa per Trevor e le persone accanto a lui, egli si rivela essere una sorta di coscienza, li presente per ricordargli costantemente la sua colpa. Ivan è sfuggente, cinico e ambiguo ma é anche forza redentrice. Egli è la trasposizione del bisogno di Trevor di pagare per quel crimine, cosa che non é mai stato capace di fare. Accettare l’errore e pagarlo, significherebbe poter vivere di nuovo la vita che gli é stato concesso vivere, seppur imperfetta. Il film analizza in modo funzionale ed autentico il passaggio, ricco di sofferenza, che un individuo si trova ad affrontare nel tentativo di evitare la sofferenza stessa.

Voto: 9

Cristina Malpasso

ST. VINCENT

Regia: Theodore Melfi

Sceneggiatura: Theodore Melfi

Anno: 2014

Durata: 103′

Produzione: USA

Fotografia: John Lindley

Montaggio: Sarah Flack, Peter Teschner

Scenografia: Inbal Weinberg

Costumi: Kasia Walicka-Maimone

Colonna sonora: Theodore Shapiro

Interpreti: Bill Murray, Melissa McCarthy, Naomi Watts, Jaeden Lieberher

TRAMA

Lo scorbutico veterano di guerra Vincent viene presentato dal vicino di casa, il piccolo Oliver, come un eroe dei giorni nostri per un progetto scolastico.

 RECENSIONE

Una splendida commedia che mette a confronto due generazioni distanti ma allo stesso tempo molto vicine. Un film che tratta di rapporti umani, di sacrifici, di amicizia vera nel corso di una vita che può certamente essere capace di abbatterci, ma solo temporaneamente. I due protagonisti, Oliver e Vin, pur essendo molto diversi, si scambiano insegnamenti, condividono esperienze e speranze, arricchendo l’uno la vita dell’altro in un modo sorprendentemente semplice e genuino. Il disagio espresso dalla quotidiana guerra di un solerte ex soldato viene posto in comparazione con quello derivato dal destabilizzante sviluppo evolutivo ed emotivo di un bambino diviso tra i due genitori.

St. Vincent 1

Cosa può insegnare la violenza a qualcuno che ne è vittima? Nulla. Ma può servire a comprendere –  da parte di chi ha sferrato lo schiaffo – il rispetto e la compassione per la condizione dell’altro, in molti aspetti simile alla sua. E, ancora, cosa può portare di buono un personaggio come quello di Daka (interpretato da una irriverente e spregiudicata Naomi Watts, nei panni della prostituta russa senza futuro) se non un lampo finale di speranza (e insieme di redenzione) successiva alla nascita della sua bambina? – evento a seguito del quale assistiamo alla completa trasformazione di lei in una persona a tutti gli effetti felice. La perdita della speranza, il conflitto, il dolore, così come la gioia, la spensieratezza sono qui espressi in un modo essenziale, spesso lasciato alle espressioni del volto dei personaggi più che alle loro parole.

St. Vincent 2

Dalla vita dei santi possiamo trarre insegnamenti preziosi. Essi, come promotori di elevati principi, sono spesso idealizzati abitanti di territori che sembrerebbero irraggiungibili per l’uomo comune. Come ci viene detto nel film, però, i santi erano prima di tutto esseri umani e, in quanto tali, irrimediabilmente fallibili. Dal film riusciamo a capire come non sia necessario avere specifiche caratteristiche eteree o eseguire opere gloriose per aiutare o essere fonte d’ispirazione per qualcuno. Vin non è perfetto, e di certo non prova ad esserlo, ma incoraggia Oliver a dare il meglio di sé, a esplorare le sue capacità, ricavando a sua volta un insegnamento dal bambino che, infine, ringrazia per la sua amicizia.

 Voto: 8

 Cristina Malpasso

LA MADRE

Titolo originale: Mama

Regia: Andreas Muschietti

Sceneggiatura: Andreas Muschietti, Barbara Muschietti, Neil Cross

Anno: 2013

Durata: 100’

Produzione: Canada, Spagna

Fotografia: Antonio Riestra

Montaggio: Michele Conroy

Scenografia: Anastasia Masaro

Costumi: Luis Sequeira

Colonna sonora: Fernando Velàzquez

Interpreti: Jessica Chastain, Nikolak Coster-Waldau, Megan Charpentier, Isabelle Nélisse, Daniel Kash

TRAMA

Victoria e Lilly sono due sorelle miracolosamente ritrovate vive nella foresta cinque anni dopo il giorno della loro scomparsa e dell’assassinio della madre. Le bambine sembrano però portare con sé qualcosa di spettrale.

RECENSIONE

“Una personalità lasciata ad essiccare, ciò che ne rimane é il cadavere di un’emozione. Il cadavere di Madre é un amore materno possessivo. “Mama” non é la storia di un mostro ma la storia di un’emozione molto umana che ha assunto proporzioni mostruose”. Con tali parole il produttore Guillermo Del Toro descrive un film strettamente collegato alle innate emozioni provate da una madre nei riguardi del proprio figlio. Questo delicato rapporto può diventare, a tratti, patologicamente simbiotico rilegando il figlio nella dimensione infantile per più del tempo necessario, dove non gli sarà possibile sviluppare al meglio le sue capacità materiali ed intellettive. Il rapporto materno si trasforma così da stimolante e protettivo in claustrofobico, deleterio, velenoso e addirittura mortale.

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Madre attua vere e proprie aggressioni contro Luke ed Annabel, tutte nel tentativo di preservare il suo rapporto esclusivo con Lily e Victoria, le sue uniche bambine. Il loro pianto, proprio come una vera madre farebbe, viene riconosciuto in qualunque circostanza scatenando la furia più implacabile di Madre, pronta a correre immediatamente in soccorso delle due sorelline che lo zio Luke ed Annabel minacciano di far crescere. Le due sorelle, parti “indivisibili” di uno stesso essere, vivono però in condizioni diverse. Per Lily la conoscenza del mondo esterno si riduce a quello con cui, attraverso Madre, ha potuto interfacciarsi fin da molto piccola. Nel caso di Lily, non sono di fatto riscontrabili legami precedenti. Victoria, invece, ha una maggiore conoscenza del mondo esterno/terreno, al di fuori di quello che Madre é stata in grado di darle. Victoria ha ancora il ricordo di suo padre del quale, per quanto spietato e pericoloso, non ha mai di fatto abbandonato la speranza di poterlo riabbracciare. Siamo in questo caso di fronte ad un legame precedente molto forte, che è rimasto semplicemente assopito durante tutti i 5 anni di scomparsa.

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“La Madre” fa riflettere sul concetto di famiglia, la quale non é necessariamente sangue del nostro sangue. Non ha importanza il sesso, il ceto sociale, l’aspetto di chi ci cresce, quanto se é quella persona a darci il sostentamento fisico ed emotivo necessario per farci crescere. D’altro canto la famiglia non sempre fa il bene; Lily muore per stare con Madre. Victoria ha un futuro, diventerà grande, crescerà, si evolverà, cambierà perché più grande fisicamente e più consapevole emotivamente della sua natura, inconciliabile con quella di Madre dalla quale è capace di separarsi con deciso distacco. Lily, invece, vivrà per sempre la sua dimensione infantile in braccio a Madre, nell’eterno momento della mortale caduta che priva la bambina della sua umanità. Lily rinuncia “volontariamente” a crescere, a cambiare, ad evolversi al fine di “vivere” per sempre con Madre.

Voto: 8

Cristina Malpasso

INTERSTELLAR

Regia: Christopher Nolan

Sceneggiatura: Christopher Nolan, Jonathan Nolan

Anno: 2014

Durata: 169′

Produzione: USA, Inghilterra

Fotografia: Hoyte Van Hoytema

Montaggio: Lee Smith

Scenografia: Nathan Crowley

Costumi: Mary Zophres

Colonna sonora: Hans Zimmer

Interpreti: Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Jessica Chastain, Wes Bentley, Michael Caine, Matt Damon, John Lithgow, Topher Grace, Casey Affleck

TRAMA

In un futuro imprecisato le risorse naturali della Terra sono diventate così scarse che l’umanità è regredita a una società agricola sull’orlo dell’estinzione. Un team di esploratori deve viaggiare attraverso un buco nero per trovare in un’altra dimensione un pianeta abitabile.

RECENSIONI

Siamo nel futuro, l’aria si fa sempre più spessa e irrespirabile, i raccolti languono, la natura lentamente e progressivamente muore, e noi con lei. Dimentichiamo quello che siamo stati, creatori e esploratori, e cerchiamo di amministrare la nostra fine, nel modo più decoroso possibile, risparmiando le ingenti quantità di denaro richieste e consumate da un’inutile progresso tecnologico, e dedicandoci all’agricoltura, per quanto possibile: questo il presente, il punto di partenza di Interstellar, epico giocattolone che sembra voler rifare il verso a 2001 Odissea nello spazio, senza tema di ricadere nell’ineleganza e nel fragore, laddove Kubrick ricercava nell’abissale silenzio dello spazio oscuro la misura al tempo stesso tragica e grottesca della nostra condizione nel ritmo cadenzato e bidimensionale del Donauwalzer di Johann Strauss, non mancando di iniettare a là Tarkosky nella fredda trama fantascientifica, e anche qui senza risparmiarsi, corpose dosi di emotività e di sentimentalismo: il romanzo familiare, sopratutto, e l’empatia umana troppo umana tra la macchina e l’uomo.

Straordinarie le immagini delle galassie lontane, delle superfici inospitali dei pianeti inabitabili visitati dai nostri protagonisti, dei buchi neri con i loro contorni aurati, e favolosi i paradossi della relatività e dello spaziotempo finalmente raccontati attraverso il drama e non semplicemente con l’impura teoria, in sé stessa di indiscutibile poesia e stupore, anche se non di altrettanto facile né universale palatabilità. Certo, un film imperfetto, meno serio di quanto in molti si aspettassero, meno preciso, meno attendibile di quanto quasi tutti credessero dovuto, incline tanto quanto Gravity alla licenza poetica, ma forse il problema sono le nostre aspettative, da quando è diventato di moda aspettarsi dalla fantascienza il rigore documentaristico e iperrealista della scienza, quando di quest’ultima non ha mai cercato di trattenere nient’altro che la pura fascinazione, instillando semmai in quei pochi eletti in grado di coglierlo un briciolo di quella curiosità che alle nostre vite comunemente non appartiene.

Personalmente, non mi aspettavo molto di più da un regista, certamente geniale, sempre capace di ammannirci un divertimento d’alta classe, da grande prestidigitatore, ma senza spessore, un regista la cui maggior dote non è mai stata quella di fornirci una maggiore comprensione della realtà né di indagare le profondità dell’animo umano, quanto piuttosto la sua straordinaria capacità di esaltarsi e di esaltarci vellicando la nostra parte più proclive alla violenza e all’emotività, suscitando quella nostra naturale simpatia  umana verso chi, alla fine della lotta, si erge vittorioso, e mascherando il tutto attraverso una manichea e semplicistica distinzione di bene e di male, senza nessuno spunto di riflessione critica (diversamente da David Cronenberg in A History of Violence, tanto per fare un esempio): sbagliato aspettarsi di più? Certo, oggi come allora.

Diversamente intelligente, e molto più complesso e di difficile fruibilità, l’ultimo film di David Michôd, The Rover, che racconta di un futuro ugualmente irrespirabile e di un’umanità agli sgoccioli, ridotta all’impossibilità di mascherare la propria miseria dietro una benestante ipocrisia, film catastrofista che non intende trasmetterci paura per il nostro futuro, quanto piuttosto mostrarci, attraverso le lenti distorcenti del cinema, la vera dimensione del nostro presente, dove l’aria si fa già sempre più irrespirabile, e dove le nostre pulsioni individualiste, e dunque distruttive e autodistruttive, già operano libere e incontrastate, nell’esaltazione ideologica generale.

Voto: 8

Giuseppe Argentieri


Non sopravvivrà un’altra generazione nella Terra, vicina all’esaurimento delle risorse alimentari e violentata da polveri tossiche. L’agricoltore ex-pilota della NASA Cooper viene reingaggiato dall’agenzia spaziale con la missione di trovare un nuovo pianeta in cui la vita possa proliferare in un’altra dimensione raggiungibile attraverso un wharm-hole . Ma i paradossi spazio-temporali legati al viaggio interstellare fanno sì che l’umanità potrebbe essere già estinta a missione compiuta.

Se Gravity di Cuaron era un film tutto giocato sulla fobia dello spazio aperto, l’ultima fatica di Nolan trova il proprio perno in un’agorafobia del tempo. Si tratta dell’angoscia di una temporalità sconfinata, che si flette in infinite dimensioni e sprofonda in buchi neri, rendendo impossibile recuperare qualsiasi cosa si sia lasciato alle spalle. È la solitudine estrema di uomini sperduti in abissi di tempo, la cui unica missione riguarda l’esigua temporalità cui il nostro pianeta è condannato. Si costruisce così ancora una volta un complessissimo sistema narrativo in cui diverse dimensioni di mondo diventano simultanee e concorrono verso un’unica soluzione, che aveva già fatto di Inception un esempio esplicito di sublime cerebrale. In questo senso il film raggiunge la sua massima efficacia quando può dar sfogo a quella che è la principale abilità del regista britannico, ossia il montaggio alternato più complesso e virtuosistico del cinema contemporaneo. La tecnica del montaggio alternato consiste nel far apparire come simultanee diverse azioni concomitanti: l’esempio più classico della storia del cinema è quello del salvataggio, che da Nascita di una nazione (1914) di Griffith in poi è stato riproposto in infinite varianti. In Interstellar può abbracciare addirittura diversi sistemi temporali che progrediscono verso il comune fine della salvezza: il tempo della terra, dello spazio aperto, dei pianeti  e delle dimensioni in cui si rimane ancorati. Raggiunge così nella parte centrale del film vertici di complessità, comunque proporzionale alla suspense percepita (e da intendere in senso letterale, trattandosi di assenza di gravità).

Ma se in Inception l’intrico gargantuesco del plot poteva poggiare sulla pura immaginazione, tale da conservare tutta la sua potenza immaginifica anche se non ricostruito nei minimi dettagli, in Interstellar la pretesa di fare della fisica teorica il principale motore della trama finisce per scadere nel didascalismo più arrugginito. Questo accade in particolar modo nella prima parte, dove i dialoghi sembrano stralciati da Dal Bing Bang ai buchi neri di Stephen Hawking, e non c’è svolta narrativa che non si faccia annunciare da uno spiegone sulla teoria della relatività o sui wharm-holes. Didascalico risulta anche il senso spirituale che attraversa tutta l’opera, riguardante il potere dell’amore (in particolare tra Cooper e la figlia Murph) di trascendere le barriere di spazio, tempo e gravità, che troviamo enunciato in modo lezioso e superfluo dal personaggio di Anne Hathaway a metà film. Ma nella seconda parte la forza visiva di tradurre in immagini, anche discutibili (la lucina iridescente che contorna il buco nero!) gli elementi più misteriosi dell’astrofisica prende il sopravvento, e l’esplodere del montaggio risulta il mezzo visivo più potente per comunicare l’infinita vertigine del tempo. Anche se tutta la complessità scientifica ed esistenziale di cui il film è intessuto si scioglie alla fine in un troppo semplice Deus ex machina, finendo per sembrare una complessa equazione che si risolve nel modo più banale una volta che si è scoperta la regola.

Voto: 6,5

Giancarlo Grossi


Christopher Nolan ovvero dei grossi buchi neri

“And you, my father, there on the sad height,
Curse, bless me now with your fierce tears, I pray”.

Cosa offre Interstellar? Personalmente, non è riuscito a darmi nulla. Non mi ha fatto riflettere, non mi ha sorpreso. Riuscire a incuriosire e a intrattenere lo spettatore per quasi tre ore sarebbe già un ottimo risultato, ma non se alla fine si rimane con l’amaro in bocca. Interstellar è intenso ma confuso, capace di ergersi a specchio della forza e allo stesso tempo dei limiti dell’opera di Nolan. Una scena del film, in particolare, sembra confessare emblematicamente la sua operazione cinematografica e la sua poetica: fare due puntini su un pezzo di carta e poi spiegazzare il foglio per unirli. Tutto qua.

La prima qualità di Nolan è la sua capacità di cingersi di un’aura da autore visionario, al punto da sentirsi accreditato a paragonarsi a Kubrick. Interstellar è il suo film più ambizioso, non solo dal punto di vista estetico: tutti gli elementi – a livello di sceneggiatura, regia, montaggio e colonna sonora (la continua alternanza fra rumore e silenzio) – cercano continuamente il contrasto, in primo luogo quello fra cosmico e intimo. È evidente che il soggetto fantascientifico rappresenta un pretesto per giocare con il tema delle nostre radici – la nostra casa e i nostri figli, nel senso più ampio di questi termini. Interstellar diventa un film di fantascienza dal punto di vista visivo, ma in fondo è un lungo-lungometraggio sulla paternità, l’amore, la speranza, la forza di volontà e tanti altri buoni sentimenti. L’ambientazione cosmica ha la pretesa di creare la distanza critica per osservare l’uomo e disegnare un nuovo umanesimo: ma alla fine del film tutto è uguale a prima, anzi tutto crolla e collassa, al punto che i diffusi paragoni (non dico con 2001!) con Gravity sono impietosi: il film di Cuaròn nella metà del tempo riesce a dire molto di più, mostrandosi superiore da tutti i punti di vista (in primo luogo estetico).

Il punto debole del film – paradossalmente – è la sceneggiatura. Nolan utilizza l’assodata tecnica “a spirale”, che mira a trascinare lo spettatore nei suoi ingranaggi al fine di disorientarlo: le teorie della relatività temporale rappresentano, in questo caso, il suo strumento magico. Trattandosi di un film di fantascienza non importa tanto la verosimiglianza della trama, quanto la sua credibilità; concetti che vanno ben distinti. A stonare non sono tanto le varie contraddizioni scientifiche che attraversano il film (qui lasciamo la parola ai molti scienziati che popolano il web), quanto la sensazione che neppure gli autori della sceneggiatura sappiano di cosa stanno parlando: Gargantua è un’abbuffata di contraddizioni e di teorie (o pseudo-tali), è nient’altro che il solito enorme buco nero della fantascienza di serie b, ossia il concetto-limite dove l’illogico è giustificato. Ma Gargantua non riesce a scagionare gli enormi buchi neri della sceneggiatura. La sviolinata finale sull’amore cosmico per “spiegare” l’incommensurabilità della quinta dimensione è assolutamente patetica. Un’aggravante è tentare, ancora una volta, di fondare il film su alcuni colpi ad effetto che purtroppo si intuiscono già a metà. Interstellar si rivela insomma un lavoro di mestiere, ma meno riuscito rispetto alle precedenti operazioni del regista: la sua complessità serve solo a celarne la confusione di fondo e il contrasto è pienamente avvertibile nei dialoghi, costantemente oscillanti fra il cervellotico e il patetico. L’ambizione di trascendere le tre dimensioni dà vita a un film piatto.

Altro elemento utile a comprendere la strategia propagandistica di Nolan – la sopra citata abilità a costruire attorno ai propri film un’aura, in questo caso anche credibilità scientifica – è la tenacia nell’informare lo spettatore che il film ha avuto la supervisione del teorico specializzato Kip Thorne. Ma a noi non ce ne frega niente. Non basta nominare un astrofisico per dare credibilità a una sceneggiatura. Così come non serve citare in continuazione Kubrick per avere una poetica. Non serve chiamare ogni volta in causa lo spettro dell’amore per colmare i vuoti di ciò che non riusciamo a concepire. Il ritratto di Nolan qui emerso sembra quello di un artista a metà: un prestigiatore suggestivo solo finché il suo complicato meccanismo stroppia e ci lascia senza niente in mano. Se non due puntini su un pezzo di carta spiegazzato.

Voto: 4,5

Patrick Martinotta


A quasi cinque anni di distanza da Inception, Christopher Nolan si tuffa ancora una volta nell’insidioso genere fantascientifico, affrontandolo con quelli che ormai sono diventati col tempo i tratti peculiari della sua cifra stilistica, ovvero una sceneggiatura granitica in cui tutti gli elementi si incastrano perfettamente, effetti speciali mozzafiato e una cura particolare nella scelta delle musiche. Paragonato da molti a 2001: Odissea nello spazioInterstellar è in realtà un melodramma che ingloba molti elementi individuati anche in altri film del genere, in particolare in Contact e Signs, ai quali Nolan sembra essersi ispirato soprattutto per la sostanziosa e rilevante presenza della componente emotiva – in particolare, la costante del rapporto padre-figlia; e inoltre la situazione familiare, l’ambientazione “agricola” e la soffusa atmosfera “esoterica” tipica soprattutto di SignsInterstellar mescola così le tematiche scientifiche già incontrate in 2001 (l’evoluzione dell’uomo; l’indeterminatezza del concetto di tempo e la possibilità di viaggiare attraverso più dimensioni) con le forti e a tratti invadenti parentesi emotive che, per forza di cose, diventano il supporto necessario per l’ottenimento di un successo commerciale sempre dichiaratamente inseguito nelle maxi produzioni statunitensi (la costante della gravità che si trasforma nella forza dell’amore, così immutabile e resistente a qualsiasi cambiamento; la geniale rappresentazione dello spazio tempo – incarnato dalla raffigurazione estetica della libreria che si ripete all’infinito – che si esplicita grazie al viaggio all’interno del buco nero, viaggio che diventa inesorabilmente la tangibile proiezione visiva del più affascinante, misterioso, ma anche angosciante trapasso nell’Aldilà). Il sentimento si fonde con la fantascienza, con il chiaro intento di accontentare più palati possibile – siamo lontani dalla freddissima e respingente atmosfera di Inception – e con la piacevole (ma per altri avvilente) sensazione di aver assistito alla versione Bignami, alla riduzione “per principianti” dell’inaccessibile capolavoro di Kubrick, dato che il significato sia “scientifico” che morale del tema trattato emergono grazie anche alla capacità del regista di accompagnare lo spettatore per mano nei meandri di tematiche altrimenti troppo complicate. Nolan si riconferma così il regista chiarificatore,  colui il quale non inventa nulla, ma che chiude tutti cerchi lasciati aperti nei film dai quali attinge avidamente.

Le musiche di Hans Zimmer (candidato all’Oscar) sono semplicemente perfette e conferiscono alla pellicola un’aura solenne che dona ulteriore spessore alla vicenda.

Da vedere.

 Voto: 8,5

Giorgio Mazzola


La sopravvivenza dell’umanità è ormai agli sgoccioli. Solo un’altra generazione ancora potrà probabilmente veder sorgere  l’alba, offuscata da immani tempeste di sabbia che saturano l’aria e minano mortalmente la salute di coloro che ancora resistono. La società, divenuta prettamente agricola, arranca nella costante lotta contro la piaga, che anno dopo anno distrugge i raccolti, portando la popolazione alla fame ed alla morte. In questo contesto Cooper, ex pilota ed ingegnere, lotta come tutti per la sopravvivenza della propria famiglia, ridotta ormai ai due figli ed al suocero.

“Il prossimo anno andrà meglio” è la frase che gli agricoltori si ripetono costantemente, ogni volta che la piaga si accanisce su di una coltivazione, portandoli a dover bruciare il campo. Di  anni però ne restano ben pochi, la fine prossima dell’umanità è presente negli occhi di tutti, che si aggrappano con fede a quel brandello di speme che, come brace sopita, arde nel DNA umano. Non c’è più nulla da fare se non resistere e combattere con le poche armi a disposizione: tenacia e speranza. Ed è la spinta alla sopravvivenza, la spinta dei legami familiari e dell’amore che condurrà Cooper ed altri scienziati oltre le soglie dell’universo conosciuto, attraverso il tempo e lo spazio. Per la salvezza dei propri figli, Cooper si butterà in un’impresa epica e coraggiosa, spinto da quell’amore genitoriale che pone in secondo piano la propria vita. La morte è una possibilità ammissibile, se questo comporterà la salvezza dei propri discendenti e dell’umanità stessa. Ed è lo stesso vincolo d’amore che lo lega alla figlia Murph ( e qui un piccolo accenno alla legge di Murphy in cui tutto ciò che può accadere accadrà) a dargli la forza ed il coraggio necessari  per superare anche i propri limiti.

Qui, presente e passato si fondono, corrono su binari paralleli, si ritorcono su se stessi, ripercorrendo quello stile caro a Nolan.  L’attendibilità  scientifica  di un viaggio attraverso un wormhole diventa verosimilmente plausibile, grazie alla collaborazione del fisico teorico Kip Thorne, senza però dimenticare  che, sempre di fantascienza stiamo parlando! Nolan ci mette di fronte ad una finestra in cui l’orizzonte è immaginabile, forse anche tangibile e probabile. Si corre sul filo del rasoio, fra verità e  finzione. Film molto coinvolgente ed emozionante, dal mio punto di vista, in cui ho potuto respirare, in alcuni punti, l’atmosfera di vecchi film cult. Nessun picco negativo o momento di noia per tutta la sua durata, non breve. L’essere uscita dalla sala di proiezione ed avervi continuato a pensare spesso, anche nei giorni successivi è dimostrazione di non esser un film da sottovalutare.

Voto: 7,5

Laura Cortese


Interstellar ha creato una netta scissione di partito tra chi lo elogia e chi lo critica, diventando in poche settimane un vero e proprio fenomeno mediatico. Matthew McConaughey, fresco di Oscar, è il protagonista tutto d’un pezzo pronto a partire per una missione spaziale che potrebbe salvare gli ormai pochi esseri umani rimasti sul globo terrestre, capace di ammorbidirsi solo quando visiona i videomessaggi dei figli. Anne Hathaway si divide fra la passione per la fisica quantistica e il senso filosofico dell’amore, scegliendo poi (ahimè per lei) quest’ultimo, Jessica Chastain è la rancorosa e risolutrice figlia del protagonista la quale riuscirà a salvare “capra e cavoli” grazie ad un insolito aiuto fornitole dal padre, il veterano Michael Caine è il potente e astuto doppiogiochista ma solo per necessità e infine non poteva mancare il cattivo di turno (in questo caso il matto di turno) interpretato da Matt Damon. Un cast all star interessante ma strano, sperimentale, a tratti un po’ stonato.

Effetti speciali curati, un uso del montaggio soddisfacente e capace di trasmettere adrenalina ed emozionare lo spettatore, così come la fotografia, ma – a mio modesto avviso – non basta per convincere del tutto. Una prima parte con un alone di mistero che invoglia a sapere di più sul destino del nostro pianeta, ormai ridotto a totale deserto, cede il passo a una seconda parte che rischia di appesantire quello che in un film può risultare più difficoltoso realizzare: i dialoghi. Scarni, ridotti all’osso, in totale armonia con l’ambiente (e fino a qui ci siamo), trasformati però in affettati surrogati dei peggiori cliché hollywoodiani, per arrivare verso un finale pienamente in linea col mood di Nolan: onirico e spiazzante ma al limite del grottesco e dell’incredulità, per quanto reso in maniera ottima sul piano tecnico. Un decollo che non mi ha convinto. Né carne né pesce.

Voto: 6-

Francesco Foschini


Diciamolo sinceramente, come tutte le cose che creano grandi aspettative, anche Interstellar conquista, ma non convince del tutto. Centosessantanove minuti che, si rapiscono gli occhi sullo schermo, ma con qualche sbadiglio qua e la’. Non mancherebbe nulla, la regia di Nolan e’ precisa, la trama azzeccata, sviluppata sull’affascinante tema della fisica teorica, gli effetti speciali sono spettacolari, la sceneggiatura regge, ma sopratutto e’ l’interpretazione di attori del calibro di Matthew McConaughey, Michael Caine, Anna Hathaway, Jessica Chastain che danno valore e rilievo a questo scenario. Cos’è che non funziona allora? Il tempo del film.

Una serie di lungaggini che, sicuramente, creano suspance per dei finali che non lasciano poi così tanto senza fiato. E la scelta di un tema così sofisticato, affrontato in passato da altre pellicole, come quello sulla fine del mondo, andava sviluppato con molta più ricercatezza e innovazione. Anche l’amore, che è il collante che muove lo svolgimento del film, porta con se un dramma, quello della separazione e distanza tra un padre e i propri figli per la salvezza del mondo, che non arriva poi così forte e toccante. Al di la delle ulteriori critiche, che si possono sollevare sulle fonti delle teorie fisiche utilizzate da Nolan per articolare il film, la cui veridicità poco interessa, trattandosi di un film di fantascienza. Un vero peccato, data la premessa dei primi trenta minuti della proiezione, che preparano il terreno per un andatura che invece ad un tratto confonde. Interstellar si è rivelato, il classico film americano, botteghino d’incassi, da vedere in quanto spinti dalla curiosità che suscita il nome di grande regista e del suo cast.

Voto: 5

Maritè Salatiello


Tra uomo e natura vi é ormai una sostanziale incompatibilità. Le avverse condizioni climatiche, nonché i frastornanti fenomeni atmosferici, stanno mettendo a dura prova la possibilità per il genere umano di sopravvivere ancora. Quella che nel film Cooper definisce “casa nostra” sembra non avere più le caratteristiche di quell’incostante, ma pur sempre ricco e produttivo, territorio natìo a cui l’essere umano sente, dal momento che la sua vita ha inizio, di appartenere. Quasi inconsapevolmente, egli sviluppa con esso un rapporto strettamente simbiotico che non gli consente, dunque, di immaginare la sua esistenza al di fuori. È proprio questo “fuori” che il film di Nolan cerca di esplorare. Una sofisticata squadra di membri speciali è chiamata a trovare, al di fuori della “nostra” galassia, un plausibile altrove in cui mettere nuove radici e prosperare di nuovo. La missione viene definitiva, appunto, Lazzaro in riferimento alla rinascita e alla nuova consapevolezza che essa si propone di raggiungere.

Oltre il sottile involucro rappresentato dall’astronave non c’é niente. Non esiste nulla che, come dichiara Romilly durante il viaggio verso il Worm Hole, non lo ucciderebbe all’istante. Cooper, in quest’occasione, fa riferimento alla medesima condizione che affligge anche i più grandi navigatori. Se durante un’esplorazione essi cadessero in acqua, morirebbero. Proprio come lo spazio, l’acqua si può dire non abbia una forma predefinità, se l’esploratore ci cadesse dentro, non potrebbe più esercitare alcun controllo, non gli sarebbe possibile respirare autonomamente e potrebbe non riuscire a riaffiorare mai più, perdendosi definitivamente. Cooper e la sua squadra sono loro stessi esploratori, stanno eseguendo una missione importante, il cui destino é indissolubilmente legato al loro e a quello di qualunque altro essere vivente sulla Terra. Quella é la loro barca.

La messa in scena del film richiama una miriade di luoghi sconosciuti facenti parte di una dimensione che potremmo definire ignota. In quanto esseri umani, noi non siamo di fatto a conoscenza di cosa esista oltre un certo limite del nostro sistema solare. La nostra galassia é il limite massimo. Nolan, con il suo film, ci spinge verso una dimensione sulla quale non saremmo nemmeno in grado di fantasticare e in cui ci troviamo completamente spaesati, vittime di un turbinio di emozioni ed ambientazioni surreali in cui niente é come ci aspetteremmo. La dimensione dello spazio e quella del tempo sono fortemente stravolte ed esercitano sui personaggi, quanto sugli spettatori, un effetto spesso straniante. Siamo accompagnati, con non poca fatica, attraverso repentini slittamenti che più personaggi vivono nel contempo rispetto ad altri. Cerchiamo di prendere le misure in un mondo in cui è presente solo un’infinita distesa d’acqua in grado di generare onde enormi capaci quasi di toccare il cielo o, ancora, sorvoliamo i cieli di un mondo le cui nuvole sono solide, congelate. Inconsciamente, proviamo un’inspiegabile fascinazione per lo spettacolo di quell’improbabile ed indomabile evento naturale che vediamo formarsi davanti ai nostri occhi ma, allo stesso tempo, siamo anche fortemente spaventati dalla minaccia che questo potrebbe comportare. Sono mondi fantastici quelli che Nolan ci porta a vedere e lo sono in modo particolare perché (come per ogni fantasia filmica) non possediamo una prova tangibile della loro esistenza ma, in questo caso, non siamo nemmeno portati a negarla categoricamente.

Similmente all’ambientazione dei pianeti visitati e alla incoerente dimensione temporale che scombussola i nostri nessi causali, Cooper si risveglia in un futuro che non potremmo mai riconoscere. La vita non é più la sua fattoria e la sua piantagione di mais (dimensione che riconosciamo antiquata anche secondo i nostri criteri iniziali) ma ci troviamo, per la prima volta, in un futuro aldilà di ogni immaginazione in cui le condizioni climatiche sono predeterminate e favorevolissime, la vita prospera vigorosamente e, grazie alla nuova tecnologia, esiste un modo per spostare l’intera comunità verso pianeti fino ad allora sconosciuti. Il motore della narrazione (come ci é dato riconoscere più avanti) é il legame affettivo che le persone sono in grado di instaurare tra di loro. Inizialmente questa condizione viene percepita come una debolezza, un ostacolo alla buona riuscita della missione e ritenuta, perciò, motivo di esclusione da questa. Successivamente, però, capiamo come sia proprio grazie a questo legame invisibile che diviene possibile per l’essere umano elevarsi al di sopra di quegli inconcepibili luoghi costituiti da parametri che la nostra mente non é, ancora, in grado di capire.

Durante il viaggio nel tempo che Cooper compie passando attraverso Gargantua (il profondo buco nero, detentore della grande verità), il legame d’amore rimasto sempre vivo e presente che lo collega alla figlia Murph permetterà ai due di comunicare ad un livello particolarmente intimo e profondo. Queste preziose informazioni, che permetteranno alla giovane donna di salvare il mondo, le vengono riportate da un luogo di cui non possediamo il minimo riferimento e che facciamo fatica, sia con lo sguardo che con il cervello, a visualizzare e a codificare. Solamente Murph dunque, essere superiore e possessore di una sensibilità unica, sarà in grado di riconoscere e sfruttare questi dati perché capace di superare la rabbia provata verso il padre (conseguentemente al suo abbandono) al fine di riconoscerne il messaggio sul quadrante dell’orologio lasciatole da lui, rappresentante fisico del loro legame. Come dice Amelia, l’amore non é una cosa che abbiamo inventato noi. Esso trascende dallo spazio, dal tempo, non é misurabile. Dovremmo fidarci anche se non riusciamo a capire.

Voto: 8

Cristina Malpasso


Tanti attoroni del momento come l’onnipresente Matthew McCounaughey,  le bellissime Anne Hathaway e Jessica Chastain, il sempre bravo Michael Caine, il fratellino minore di casa di Affleck e Matt Damon al servizio di un film con un budget stratosferico confezionato per puntare dritto all’Oscar, fomentare l’orda di Nolan-maniaci e soprattutto appagare l’ego smisurato di quel regista che mi piace definire come un Michael Bay più filosofico, colto e raffinato… o se preferite più paraculo, furbo e ipocrita. La trama, per quanto condita bene con una serie di spiegazioni scientifiche ed epistemologiche menate, è di una banalità sconcertante: il nostro pianeta sta morendo e tutta la popolazione della Terra è in pericolo, urge al più presto una soluzione. Un ex pilota della NASA viene arruolato per una missione pericolosissima che lo terrà a lungo lontano dai suoi amati figli.

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Se non fosse già stato bollato come capolavoro dell’ultimo decennio ancora prima che uscisse nelle sale, paragonato a 2001 Odissea nello Spazio (ma stiamo scherzando!) e Christopher Nolan  innalzato a nuovo Dio, mi sarei limitata a definire il film come una buona americanata, di quelle che trasudano morale e perbenismo ad ogni inquadratura, senza però mancare per questo di emozionare. Insomma un buon prodotto hollywoodiano, ben fatto e con qualche tamarrata che di certo in questi casi non guasta. Il problema però è che qui non si sta parlando di Armageddon, non c’è di mezzo uno stupido meteorite che sta per colpire la Terra, il cinema di Nolan deve essere molto più cervellotico e profondo e la sua presunzione tale da condurlo ad imbastire storie che pretendono di diventare vere e proprie tesi scientifiche. La volontà di essere macchinoso come Inception si traduce in pochi passaggi complessi, che si richiedono un po’ più di attenzione, ma più che fonderti il cervello intaccano la profondità dei personaggi. Cooper interpretato da Matthew McConaughey è un padre che ama i suoi figli, ma li abbandona con estrema facilità dopo che un illustre professore della NASA gli racconta due cose su una missione per salvare la Terra. Lui era il miglior pilota in circolazione, non importa se da anni fa l’agricoltore e non ha la preparazione atletica per affrontare una spedizione simile, lui è figo e parte comunque! Amelia Brand è la figlia del boss, ha il visuccio carino di Anne Hathaway, una qualche super laurea in ingegneria o simili e anche se avrà finito l’università da tre ore,  pure lei è figa e parte comunque!

Se Interstellar lo si prende come un giocattolone che ha come suo unico scopo quello di divertire sono io la prima ad urlare al capolavoro, purtroppo però il film vuole andare oltre pescando tra le teorie dei viaggio spazio-temporali per farne una questione morale e parlare di rapporti umani. Nolan ha puntato troppo in alto giocando con i grandi, quelli troppo più grandi di lui scomodando persino Stanley Kubrick e prendendo qua e là da tutta la cinematografia di fantascienza. Allora non ci sto, non mi basta la vecchia storia del fogliettino piegato per spiegare la teoria dei buchi neri per andare da A a B senza la dimensione tempo, se mi tiri il pippone pseudoscientifico esigo che a salvare la Terra non sia un agricoltore e una di 30 chili ma due scienziati veri, addestrati per anni solo per quella missione. Se mi filosofeggi su questioni legate all’umanità e al rapporto padre e figlio non ti credo se mi propini la solita storia dell’amore più forte della scienza.

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Un film in bilico tra il voler essere visivamente grandioso, dove la potenza dell’immagine riempie tutte le lacune narrative, e il voler essere macchinoso ad ogni costo fondendo alle teorie scientifiche le questioni proprie della morale. La storia dell’amore che vince su tutto toglie credibilità ai comportamenti dei personaggi ed è una tesi troppo debole per giustificare una frase come: “Perché mi guida l’unica forza che trascende il tempo, lo spazio e la gravità: l’amore”. Non è un capolavoro è solo un film di fantascienza godibilissimo con dei bellissimi effetti speciali (siamo nel 2014…magari lo diamo per scontato!) e come tale va preso.

Voto: 6

Cinefabis


 

VOTI

Patrick Martinotta: 4,5

Giuseppe Argentieri: 8

Giancarlo Grossi: 6,5

Giorgio Mazzola: 8,5

Laura Cortese: 7,5

Francesco Foschini: 6-

Maritè Salatiello: 5

Cristina Malpasso: 8

Cinefabis: 6

Angelo Grossi: 4

IL CIGNO NERO

Regia: Darren Aronofsky

Sceneggiatura: Mark Heyman, Andres Heinz, John McLuighing

Anno: 2010

Durata: 103′

Produzione: USA

Fotografia: Matthew Libatique

Montaggio: Andrew Weisblum

Scenografia: Thérèse DePrez

Costumi: Amy Westcott

Colonna sonora: Clint Mansell

Interpreti: Natalie Portaman, Mila Kunis, Barbara Hershey, Vincent Cassel, Winona Ryder

TRAMA

Nina è una ballerina di grande talento, completamente assorbita dalla danza. Una compagnia di New York sta allestendo “Il lago dei cigni” e deve scegliere le protagoniste per interpretare i ruoli dell’innocente cigno bianco e del sensuale cigno nero.

RECENSIONE

In quanto spettatori, siamo intrappolati in una fitta rete di trasposizioni mentali che la protagonista, Nina, elabora principalmente per sfuggire a se stessa. La storia parla di Nina, una ballerina classica professionista che aspira a diventare prima ballerina nell’opera di imminente realizzazione Il Lago dei Cigni. Questa nuova versione del balletto vede i due personaggi principalI, il Cigno bianco e il Cigno nero (simbolicamente il bene e il male), interpretati dalla stessa artista che quindi dovrà dare prova di una considerevole abilità per interpretare entrambe le parti. Contro ogni aspettativa Nina viene scelta. È qui che ha inizio il suo degrado fisico, ma soprattutto mentale, a causa della fote pressione psicologica esercitata dal suo stesso desiderio di prestigio, di riconoscimento, nonché dal desiderio di soddisfazione professionale, personale e anche sessuale. Nina si scoprirà la peggior nemica di se stessa. Vittima di inquietanti visioni e di masochistici impulsi non propriamente coscienti, Nina si troverà a vivere in una dimensione allucinatoria e surreale, piena di elementi incoerenti che caratterizzeranno l’intera narrazione.

La storia dunque si relaziona con l’opera il Lago dei Cigni. La bellissima principessa Odette viene trasformata in cigno dal malvagio mago Rothbart. Essa ha bisogno della promessa di amore eterno per rompere l’incantesimo ma sfortunatamente il suo principe si innamora della ragazza sbagliata, Odile, (la figlia del mago) tramutata per l’occasione in una versione malefica di Odette, identica a lei a parte per il vestito che, nel suo caso, è nero (il Cigno nero, appunto). Delusa e rassegnata a non riacquisire mai più le sue sembianze, Odette si getta da una rupe suicidandosi. L’ambiguo personaggio principale viene giocato sull’antitesi tra amore sacro e amore profano. Odette e Odile sono due facce della stessa medaglia che ora mostra più una faccia, ora più l’altra ma che, sporadicamente, in qualche modo esistono insieme.

La narrazione si basa dunque sul tema del doppio che viene esaltato dall’ambivalente luogo della superficie specchiata. Con l’espediente dello specchio è difatti possibile dare più o meno enfasi alla dimensione psichica del personaggio che ora può trovare un corrispettivo speculare opposto in una dimensione tanto lontana quanto prossima risultando sia Eroe che Traditore.

Durante lo svolgersi della pellicola, vediamo sempre più preponderante il ruolo interpretato dalla madre di Nina, Erica. Ex ballerina anche lei, intrattiene con la figlia un rapporto morboso instaurato su un totale controllo di lei vista ancora come una bambina. Erica tenta di rivestire gli angoli vivi della vita con tenera gomma piuma così da limitare i pericoli per la figlia i cui impulsi distruttivi, però, la porteranno a vivere in una dimensione del tutto personale nella quale la madre non ha alcun potere. È proprio questa condizione limitante in cui la madre cerca di rilegarla che fa crescere in Nina una sempre più sensibile insofferenza verso quella versione infantile che, in un incontro/scontro con il suo doppio, Nina ferisce voracemente a morte. A seguito di questo efferato atto, Nina può finalmente vivere appieno se stessa diventando un’artista completa.

Ha qui luogo uno dei climax della storia che potremmo riconoscere come relativo alla dimensione fisica di Nina. Con le spalle al muro, mentre osserva il cadavere del suo acerrimo nemico, vediamo la natura di Nina cambiare. Essa respira dapprima come durante uno scompenso respiratorio, poi il viso si distende, il respiro torna regolare e profondo e gli occhi si illuminano di un vivacissimo rosso. Capiamo ora che il Cigno nero è uscito allo scoperto. Esso non può più essere mitigato, nascosto sotto un tutù rosa chiaro, ma può esplodere in una strabiliante performance ricca di virtuosismi tecnici che gli faranno conquistare gli elogi del pubblico e della compagnia stessa.

Successivamente a questa vivace svolta, assistiamo ad una sconcertante scoperta che Nina fa tornata nel suo camerino. Il corpo del suo antagonista non c’è più, non una traccia di sangue. Capiamo in quel momento insieme a Nina non essere mai esistito un nemico da cui guardarsi, da cui difendersi, se non Nina stessa. Assistiamo ad un’inquadratura emblematica, piena del vestito bianco di Nina nel punto in cui vi è un grosso squarcio. Il dettaglio del vestito strappato, impregnato di sangue, la grossa ferita che respira assieme alla protagonista fanno chiaro riferimento all’evolutivo cambiamento che avviene ad un certo punto nella vita di ogni ragazza con il verificarsi delle prime mestruazioni. Con le stesse parole del regista Darren Aronofsky, Nina sta di fatto diventando una donna e quindi possiamo dire sia più consapevole del suo corpo e della sua intimità che sgorga letteralmente fuori da lei. Assistiamo ora ad un altro climax della storia che riguarda la dimensione spirituale di Nina. Il cigno bianco è stato ferito ed ora sanguina in preda ad uno stato confusionale ma colmo di accettazione proprio come richiede il personaggio cui Nina si è dedicata tanto. Odette/Nina ora può tornare sul palco è conquistare il suo momento più alto che, tramite l’estremo sacrificio, la libererà dal suo maleficio. Durante il salto scenico dalla finta rupe vediamo il corpo di Nina cadere in un momento lunghissimo in cui percepiamo il suo spirito liberarsi dalle angosce che l’avevano oppressa per tutto il film, lasciando finalmente spazio a sentimenti di rassegnazione e di pace.

Voto: 10!

Cristina Malpasso