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LA DONNA CHE CANTA

Titolo originale: Incendies

Regia: Denis Villeneuve

Sceneggiatura:  Wajdi Mouawad

Anno: 2010

Durata: 130′

Produzione: Canada

Fotografia: André Turpin

Montaggio: Monique Dartonne

Scenografia: André-Line Beauparlant,Rana Abboot, Marie-Soleil Dénommé, Amin Charif El Masri, Philippe Lord e Fenton Williams

Interpreti: Lubna Azabal, Mélissa Désormeaux-Poulin, Maxim Gaudette, Remy Girard, Abdelghafour Elaaziz.

TRAMA

All’apertura del testamento della madre, fratello e sorella canadesi scoprono di avere un padre che credevano morto e un fratello di cui non conoscevano l’esistenza. Per ritrovarli dovranno affrontare un lungo viaggio in Medio Oriente alla ricerca delle proprie radici che li porterà a scoprire il torbido e terribile passato della mamma, così ombrosa ed enigmatica in vita.

RECENSIONE

Canada – Alla morte della madre Nawal ai gemelli Jeanne e Simon vengono consegnate  da un notaio due lettere. Una è destinata al padre che credevano morto e l’altra ad un fratello di cui non conoscevano l’esistenza. Le ultime volontà della madre  sono quelle di ritrovare padre e fratello e consegnare personalmente le missive. Jeanne, giovane matematica la cui mente razionale ha una spiegazione logica per tutto,  intraprende senza esitazione un lungo viaggio a ritroso che si intreccia con la storia di sua madre da giovane, attraversando luoghi della sua terra di origine a lei sconosciuti. Insieme al fratello riuscirà, mettendo insieme i pochi indizi (un piccolo crocifisso e un passaporto) e numerosi tasselli, a  ricostruire il doloroso passato della mamma. Attraverso flashback continui le vicende delle due donne si sovrappongono, come due rette parallele di una formula matematica  che, pur non incontrandosi mai arrivano allo stesso punto. Il tutto viene – credo volutamente – rimarcato dalla  marcata somiglianza tra le due attrici.

La pellicola è ambientata – anche se non viene espressamente dichiarato – nella terra tormentata del Libano, sconvolta da anni di guerra civile, ma potrebbe trattarsi di una qualunque altra nazione  dove sono in atto conflitti e atrocità, tra distese di cemento e polvere mescolata a sangue. La trama, inizialmente indecifrabile, si sviluppa via via alimentandosi di dubbi e domande senza apparente risposta, sino a rivelare che il comportamento incoerente e ombroso di Nawal, in realtà era giustificato da un’esistenza densa di sofferenze. La storia viene svelata: la cristiana Nawal viene ripudiata dalla famiglia per aver amato un musulmano e il figlio che partorisce (il fratello che non conoscono) le viene sottratto subito dopo il parto. Parte allora alla ricerca del figlio perduto ma viene travolta dagli orrori della guerra, dalla violenza e dalla morte che la circonda. Lei, un tempo fervente pacifista, si schiera contro i nazionalisti e uccide un importante leader politico cristiano. Viene rinchiusa nella famigerata prigione di Kfar-Ryat, dove resta per 15 anni subendo torture e violenze. In carcere non si è mai piegata ai suoi aguzzini, tanto da essere soprannominata da tutti  “la donna che canta”, perché cerca di mascherare la sua sofferenza con il canto. Fino a giungere all’inaspettato e crudele finale che svela ai due ragazzi che fratello e padre sono la stessa persona.

“La donna che canta” è un teorema matematico, una storia che parla di amore materno, uno spaccato della società mediorientale, sulla violenza e sui dissidi religiosi e politici. E’ un percorso che esplora le proprie origini passando attraverso ricordi dolorosi, fatti di filo spinato e  spietati cecchini e che, anche attraverso rivelazioni scioccanti, può portare un senso di liberazione chiarificatrice.

La trasposizione cinematografica trae spunti dalla vera storia di Souha Fawaz Bechara e da  episodi  della guerra civile libanese. Il film, superbamente diretto dal canadese Denis Villeneuve (Polytechnique, Prisoners), è ispirato alla pièce teatrale “Incendies” del drammaturgo di origini libanesi Wajdi Mouawad ed ha vinto svariati premi (tra i quali miglior film canadese al Toronto International Film Festival e la candidatura agli Oscar 2011 come miglior film straniero). La divisione in capitoli, ognuno dei quali titolato,  permette alla trama di snodarsi molto bene nello spazio temporale, percorrendo luoghi diversi sia geograficamente che per identità storica e situazione politica.

La scena più intensa ma allo stesso tempo inquietante del film è quella iniziale che si apre su di un campo di ulivi, come sottofondo le splendide note di “You and Whose Army” dei Radiohead (dall’album Amnesiac del 2001). La camera del regista si dirige lentamente verso l’interno di una casa diroccata inquadrando gli sguardi spaventati di bambini che vengono preparati per la loro iniziazione alla guerra da alcuni miliziani.  Poi indugia  e si sofferma a lungo su di un bambino che, mentre viene rasato, fissa insistentemente l’obiettivo. Quello sguardo fisso in macchina riesce a riassumere in pochi minuti tutta la tragedia dei popoli medio orientali, o di chi provenga da nazioni martoriate divise da violenti conflitti e soprusi. E’ straziante perché sembra farsi carico di tutta l’angoscia di un’infanzia violata, è uno sguardo  svuotato di qualunque dolcezza infantile, che cela rancore, proprio perchè sta perdendo così prematuramente l’innocenza. E’ conscio di ciò che lo aspetta e sembra promettere vendetta.

Il regista Villeneuve è abilissimo nella rappresentazione del dolore profondo, ogni centimetro della pellicola è intriso di odio verso la guerra, e quello sguardo di bambino è talmente dilaniante che arriva ad avere una potenza ancor più devastante di spettacolari scene di battaglia hollywoodiane.

“La donna che canta” non è solo un film che mette in fila scenari di morte e  torture inflitte senza apparente pentimento, è molto di più. E’ la rappresentazione, portata in scena in modo magistrale ed assolutamente autentico dall’attrice belga Lubna Azabal, dell’infinito amore materno, del complesso rapporto madre-figli. Lubna interpreta con innegabile talento recitativo, molto intenso e mai sopra le righe, il ruolo di una donna piegata dalla rabbia per le sofferenze e le ingiustizie subite che hanno lasciato sul suo volto i segni di un dolore troppo immenso per trasfigurarsi in perdono.

Nawal, come ogni vittima di atroci barbarie, ad un certo punto finisce per nutrirsi dello stesso odio di cui è stata vittima, quasi come se l’unico atto di ribellione fosse la vendetta, che diviene sempre più pulsante a mano a mano che ci si avvicina al cuore della storia: lo strazio della perdita di un figlio, uno dei dolori più grandi per una madre,  appare inaccettabile e orgoglio e dignità non  sono sufficienti contro il timore della lontananza  definitiva. Ha intrapreso una ricerca senza sosta pur di ritrovarlo ma non vi è riuscita, ed ha riversato la sua protezione sugli altri due, portandoli lontano da quelle terre insanguinate. Li ha protetti da quel passato doloroso,  finchè non ha capito che questo non poteva più essere taciuto perchè nascondeva problemi irrisolti. E col tempo riesce anche a perdonare, e lo fa  attraverso le lettere che consegna al marito e al figlio. E’ lì che si svela l’umanità di Nawal, quasi una madre courage, che ad un certo punto si era persa lasciando il posto alla vendetta, ma che poi accetta il suo destino rompendo quella catena di odio che non vuole lasciare in eredità ai figli. Proprio come la terra del Libano, del Medio Oriente, o di un qualunque altro paese martoriato dalla guerra, che ha partorito dal proprio ventre sia il seme della violenza che quello della speranza. Ho l’impressione che all’acqua – le piscine dove nuotano Jeanne e Simon – venga attribuita una valenza di elemento purificatore, quasi a voler ricreare una sorta di protettivo utero materno.

“La donna che canta” è un film di altissima tecnica registica e fotografica e picchi di eccellenza nella recitazione di tutto il cast e in particolare – come già sottolineato – della bravissima Lubna Azabal, vincitrice del Premio Magritte come miglior attrice nel 2012. Un film straziante che per la sua crudezza ti entra fin nelle viscere più profonde. A mio parere inattaccabile.

Voto: 9

Agatha Orrico

MOMMY

Regia: Xavier Dolan

Sceneggiatura: Xavier Dolan

Anno: 2014

Durata:  139’

Nazione: Canada

Fotografia: André Turpin

Montaggio: Xavier Dolan

Scenografia: Colombe Raby

Costumi: Xavier Dolan

Colonna sonora: Noia

Interpreti: Anne Dorval, Anoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément

TRAMA

Diane è una madre vedova, quasi cinquantenne, che riottiene la custodia a tempo pieno del figlio quindicenne, Steve, affetto da un’iperattività incontrollabile. La vicina di casa, Kyla, si offre ad aiutarli per cercare di trovare un nuovo equilibrio.

RECENSIONE

Tutti noi nasciamo nella stupidità morale, prendendo il mondo come una mammella per nutrire i nostri ego supremi” (George Eliot, Middlemarch)

Non basta essere dei virtuosi con la macchina da presa e il montaggio, disponendo al contempo di un cast in stato di grazia, per fare un buon film. Xavier Dolan in “Mommy” (2014) fa bella mostra di dominare il mezzo registico, di avere un immaginario molto personale, inoltre è supportato da un terzetto di attori davvero ispirati e in parte. Eppure se questo tanto osannato “Mommy” non funziona, ciò lo si deve a un eccesso di ombelicalità adolescenziale che è davvero troppa anche per un regista venticinquenne.

Dolan non può marciare ancora per molto sull’aura dell’enfant prodige, visto che è coetaneo o quasi del Bellocchio dei “Pugni in tasca” e una spanna più anziano dell’ Harmony Korine di “Gummo” e del sottovalutato “Julien Donkey-Boy” (per amore della decenza preferisco non nominare Orson Welles), rispetto ai quali è meglio evitare il confronto per non deprimersi ulteriormente. Con un’aggravante, rispetto a questi suoi “coetanei”, quella di avere già quattro lungometraggi alle spalle. Un’esperienza non da poco, i cui risultati appaiono scarsi in un film dove ogni elemento sembra buttato lì, fine a se stesso e alla propria allure di fighettata al passo coi tempi, conformistica fino al midollo. Ma andiamo con ordine.

Il film è ambientato nel 2015, in un recentissimo futuro distopico in cui  le leggi del “nuovo governo” estremista del Canada consentono alle famiglie di far rinchiudere i figli con problemi comportamentali in degli istituti vecchio stile, forniti di camicie di forza anni ’50 (alla faccia della distopia!), una scelta che, una volta presa, è irrevocabile. Ora, una distopia di solito dovrebbe rappresentare un’esagerazione di una tendenza già riscontrabile nel presente, adoperando la classica formula del “se si continua così si finisce colà”. Dove mai allora esisterebbe in occidente una società oppressiva nei confronti di chi travalica determinati limiti imposti dal sistema? Forse nel Quebec? A me pare che gran parte della letteratura e del cinema d’autore occidentali degli ultimi decenni (e lo dico con un occhio di riguardo sulla dimensione distopica) abbia riflettuto esattamente sul contrario, ovvero su un sistema ideologico che ha eliminato ogni limite dell’ego, lasciando l’individuo solo di fronte alle sue voglie e trasformando ogni alterità in un nemico da abbattere.

Del resto tutto il film “Mommy” è una rappresentazione colpevolmente complice di questa ideologia. Un esempio significativo di questa sua natura lo si riscontra nel fatto che dell’adolescente protagonista non ci vengono mostrati i coetanei, se non come comparse sporadiche. L’unico coetaneo su cui ci si sofferma un po’ di più, tanto che ne conosciamo il nome, non si vede mai, ed è un tale Kevin che all’inizio il protagonista Steve avrebbe picchiato a sangue, lasciandogli poche probabilità di vita. Il regista in una scena emblematica, posta all’inizio del film, in cui la madre a scuola si confronta con il fattaccio, sembra far cadere tutto l’accento di commiserazione non sullo sventurato Kevin, di cui non ci vengono mai mostrati i malridotti connotati, ma sul povero Steve, affetto da una fantomatica (secondo una mia personalissima diagnosi) sindrome di iperattività (che poi tra tutti i disturbi tra cui poteva pescare, difficilmente Dolan avrebbe potuto trovare uno più facile da rendere trendy). Ovvio che si compatisca Steve, perché è lui il protagonista, il suo ego è al centro del film, ed è un ego che non ha rivali sulla scena, né tra i coetanei-comparsa, né tanto meno nello sciagurato Kevin che non compare mai.

Steve non è solo al centro del film, ma anche al centro di un triangolo che vede ai due lati opposti la madre Diane (detta Die), tanto più opprimente proprio in quanto “mamma per amica” portata alle estreme conseguenze, e la timida balbuziente Kyla, vicina di casa. Kyla ha un marito e una figlia piccola, che ovviamente vengono inquadrati sporadicamente perché non sia mai diventino anche loro rivali in scena della centralità assoluta di Steve.

Tutto il film è incentrato sul rapporto di amore-odio, fondamentalmente di fusionalità patologica, tra madre e figlio. Per rappresentare tale condizione soffocante il regista adopera un formato 1:1, che molto ha fatto gridare all’originalità e all’estro registico, tanto più perché lo schermo inaspettatamente si dilata in un momento in cui i personaggi si abbandonano ad un attimo di felicità. A me personalmente questa soluzione appare completamente fine a se stessa e all’effetto sorpresa degno di un videoclip della sopraccitata (e sovraeccitata) scena, dunque non di certo spia di una riflessione più approfondita. Aleksandr Sokurov in “Madre e figlio” (siamo nel 1997, ma qui parliamo dei vertici del cinema), per rappresentare la fusione materna aveva optato per la soluzione opposta, quella di un’identificazione dell’io con la totalità, un’assenza totale di limiti di fronte alla quale il limite supremo della morte diventa tragedia ineluttabile, altra cosa rispetto a questo banale formato I-Phone molto trendy e terribilmente superficiale.

Si sprecano i momenti in cui questo film sembra un insieme di videoclip di canzoni neanche troppo ricercate (gli Oasis!), famosissime quand’anche di tutto rispetto (Lana del Rey) e che in ogni caso veicolano emozioni troppo facili e telecomandate. In definitiva, si ha la sensazione di assistere alla trasposizione cinematografica dell’immaginazione di un ordinario preadolescente che ascolta la musica, una dimensione troppo immatura anche per un venticinquenne.

Ai critici che hanno abboccato in massa, assegnando a Dolan gli allori di nuovo “genio” della settima arte, rivolgo un consiglio. Se andate alla ricerca di un vero enfant prodige del cinema contemporaneo, guardate di che straordinaria maturità si è dimostrato capace lo sloveno Rok Biček (classe 1985) nello splendido “Class Enemy” (2013), e smettetela di alimentare l’ego, già irrimediabilmente ipertrofico, di Xavier Dolan.

Voto: 4

Angelo Grossi

MOMMY

Regia: Xavier Dolan

Sceneggiatura: Xavier Dolan

Anno: 2014

Durata: 134′

Produzione: Canada

Fotografia: André Turpin

Montaggio: Xavier Dolan

Scenografia: Colombe Raby

Costumi: Xavier Dolan

Colonna sonora: Eduardo Noya

Interpreti: Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément

Mommy, vincitore del Premio della giuria alla 67ª edizione del Festival di Cannes, è la prima opera di Xavier Dolan a giungere nei nostri cinema:  bambino prodigio, attore, sceneggiatore, doppiatore e regista attento e sensibile classe 1989, Dolan si era fatto notare con il bellissimo “Les Amours imaginaires” del 2010, ora, con Mommy, avrà modo di conquistare anche il pubblico italiano, l’unico che sembra non essersi ancora accorto del suo grande talento.

La mamma in questione è Diane, donna eccentrica, estrosa e soprattutto single che si ritrova da sola ad allevare un figlio quindicenne violento, con seri problemi mentali portandolo ad essere pericoloso e ingestibile. Un rapporto difficile fatto di continui litigi,  parolacce e urla, ma dove c’è anche spazio per un abbraccio e una carezza tra una madre e il proprio figlio pronti ad amarsi nonostante tutto. Uno spazio ristretto come l’insolito formato adottato dal regista, che comprime l’inquadratura e tutti i personaggi al suo interno, soffocandoli e obbligando lo spettatore a porsi sia come estraneo alle vicende sia come curioso testimone che sbircia dal buco della serratura.

Una scelta rischiosa, il pubblico è costretto a fare uno sforzo al quale non è abituato ma che sarà ricompensata da una scena tra le più belle degli ultimi tempi, così emozionante da fare quasi scattare un applauso in sala. Lo spettatore sgrana gli occhi e tira un profondo sospiro dopo l’apnea al quale era obbligato, liberandosi da quel crudele meccanismo registico che lo teneva imprigionato e, a fianco del giovane protagonista, assapora così la libertà.

Steve, il quindicenne disturbato è odioso, strafottente, maleducato e insopportabile e le sue smorfie fanno anche sorridere ma il più delle volte lo prenderesti a schiaffi; Diane, la madre, è sola, con i suoi abiti stretti, le minigonne, le sigarette e il whisky nascosto in lavanderia, ma non ti fa pena perché è una donna forte che ama il proprio figlio; Kyla la vicina di casa balbuziente, che completa il trio, è timida e impacciata ma è anche colei che saprà domare l’irrequietezza di quel giovane così arrabbiato. Tre anime che si completano, sgomitando per ritagliarsi uno spazio nel claustrofobico formato che raggiunge un breve equilibrio nella conquista del 16:9. Un film meraviglioso.

Voto: 8,5

Cinefabis