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ROOM

Regia: Lenny Abrahamson

Sceneggiatura: Emma Donoghue

Anno: 2015

Durata: 118′

Produzione: Irlanda, Canada

Fotografia: Danny Cohen

Montaggio:  Nathan Nugent

Scenografia: Ethan Tobman

Costumi: Lea Carlson

Colonna sonora: Stephen Rennicks

Interpreti: Brie Larson, Jacob Tremblay, Joan Allen, William H. Macy.

TRAMA

Joy e Jack vivono un’esistenza parallela all’interno di una piccola stanza, lontani dal mondo e impossibilitati ad uscire da “Vecchio Nick”, che li tiene sotto prigionia da ormai molti anni. Joy inventa per Jack un mondo immaginario, in modo tale che possa vivere quella segregazione nel modo più bello possibile.

RECENSIONE

Adattamento cinematografico del romanzo “Stanza, letto, armadio, specchio”, scritto dalla stessa curatrice di sceneggiatura del film, Emma Donoghue. Il romanzo è a propria volta liberamente ispirato al caso Fritzl, che tanto sconvolse l’opinione pubblica.

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Room si apre con il piccolo Jack che dispensa buongiorno agli oggetti dentro la stanza: lampada, armadio, sedia numero uno, sedia numero due. Quello il suo microcosmo, quella la sua unica realtà. Scopriamo la loro storia attraverso gli occhi sognanti di Jack, la sua potente immaginazione. Un bambino di soli cinque anni che, nonostante la segregazione subita a sua insaputa, ha un profondo attaccamento alla terra e agli esseri viventi. Joy, madre devota, reinventa per il figlioletto il senso dell’esistenza: perfino tutto ciò che si vede in televisione è frutto di finzione, ma loro due soli sono reali, concreti. Loro due e Vecchio Nick, che periodicamente irrompe nella quiete quasi magica e ferma della stanza, per abusare sessualmente di Joy mentre Jack sta al riparo dentro il suo armadio.

Joy, ormai distante dalla civiltà ormai da più di sette anni, decide che Jack sia intelligente abbastanza e pronto ad interiorizzare una grande verità: non sono soli, la stanza non è tutto il mondo, e fuori da quei pochi centimetri ci sono cieli grandi, alberi, altri bambini, una grande casa con l’amaca, tante cose da scoprire e da fare. L’elaborazione del piano di fuga – che prevede la messa in scena della morte di Jack in seguito ad una brutta febbre non curata – ha una forte carica di ansia, capace di mettere a dura prova qualsiasi tessuto emotivo. Sarà Jack, avvolto in un vecchio tappeto, a riuscire la sua evasione, a correre per la salvezza, con le istruzioni di Joy sempre in testa come un mantra: rotola, salta, corri, chiedi aiuto a qualcuno.

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Punto di forza di questo film è la capacità lirica dei monologhi di Jack, intensi e sognanti; per tutta la narrazione lo spettatore viene accompagnato e condotto dallo sguardo di Jack sui mutamenti delle vicende, sulla rinascita e la salvezza, ma anche sull’accettazione necessaria e difficile della sofferenza, l’elaborazione non di certo istantanea della pura realtà fatta di violenza, rapimento, bugie per sopravvivere e tutta quella vastità di mondo sconosciuto, lì fuori. Rumori, macchine, telefoni, cani, banalità della vita scoperte tutte in poche ore, sconvolgono e mettono a soqquadro il sentire di Jack, e anche quello di Joy, che dovrà lottare con la metabolizzazione finale della sua tragedia. Jack scoprirà di potere avere altri affetti oltre la madre: dei nonni, dei vicini di casa, degli amici. Sarà proprio lui, ancora una volta, a regalare la necessaria grinta a Joy, per poter ricominciare una vita normale, esattamente come a noi spettatori vengono regalate scene emozionanti, cariche di pathos, capaci di far rivalutare il senso della vita stessa, della fortuna dello stare al mondo, di esserci, semplicemente.

Azzeccatissima la scelta del casting. Non immaginerei nessun altro bambino capace di entrare nel ruolo così alla perfezione, come fosse cucito addosso appositamente per lui, giustamente equilibrata anche la drammaticità di Brie Larson con conseguente e meritata nomination all’oscar come miglior attrice protagonista. Oltre alla recitazione, la narrazione viene valorizzata dall’ottima colonna sonora e dalla brillante regia di Abrahamson, che valorizza al meglio il contrasto fra scene chiuse e scene all’aperto. L’equilibrio fra questi elementi rende Room un ottimo cavallo da corsa su cui puntare in vista della notte d’oro del cinema.

Voto: 8

Alessandra Buttiglieri

THE BUTLER

Regia: Lee Daniels

Sceneggiatura: Lee Daniels, Danny Strong

Anno: 2013

Durata: 113′

Produzione: USA

Fotografia: Andrew Dunn

Montaggio: Joe Klotz

Scenografia: Tim Galvin

Costumi: Ruth E. Carter

Colonne sonore: Rodrigo Leao

Interpreti: Forest Whitaker, Oprah Winfrey, David Oyelowo, Lenny Kravitz,

TRAMA

Film tratto dalle reali vicende accadute a Eugene Allen, maggiordomo di origine afroamericana, scampato ai campi di cotone e preso a lavorare alla Casa Bianca per oltre trent’anni, nel periodo in cui il pregiudizio razziale e la discriminazione regnavano sovrane.

RECENSIONE

Panoramica di un mondo che difficilmente muta –  quella di Daniels –  partendo dagli anni 50 coi campi di cotone, col padrone bianco pronto a usare, consumare, denigrare il negro lavoratore, alle rivolte nelle strade americane, i movimenti dei freedom writers, le provocazioni e poi ancora le violenze, nel senso stretto del termine, del significato: violentare vite di colore diverso, stretti in pugni di pregiudizi ignoranti, radicati, terroristici. Poi Cecil Gaines, e la sua arrampicata sociale da negro di casa di una famiglia di possidenti terrieri, a cameriere in un prestigioso hotel, fino ad arrivare fino alla Casa Bianca, centro nevralgico del potere politico statunitense. Uomo di fiducia per ben trent’anni, sotto i suoi occhi e le sue premure passano ben sette presidenti, sette storie, e mille i tentativi di cambiare le sorti di minoranze in un paese grande ma schiacciato dalle cattiverie. La storia di questo film ripercorre una fetta sostanziosa della Storia d’America, dai cappucci del Ku Klux Klan, all’uccisione di King e Kennedy.

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In primo piano uno straordinario Whitaker, tramite lui, l’indagine su quel diverso metodo di far rivalutare la propria condizione, avvicinarsi alla distruzione del preconcetto tramite il pacifico senso del dovere, con la serietà di un lavoratore orgoglioso, forse quasi disilluso, che crede ancora nelle istituzioni. Si insegna, passo passo, la delicatezza ostinata della pazienza, che sa essere anche forza, che sa essere anche cambiamento. Tensione ed emozione attraversano l’intera pellicola, che è allo stesso tempo biografica e documentaria. Non mancano picchi di alta drammaticità, magistralmente gestiti da personaggi come Gloria (Oprah Winfrey). Daniels racconta la storia in modo lineare, coerente e verosimile, pur con un profumo di pulito e di ottimismo.

The Butler è uno di quei film necessari a ricordare una storia purtroppo ancora attuale, a insegnare il dolore perché ci interroghi ancora su quanto lentamente il mondo abbia progredito. In questo senso il film non può non ricordare Dodici anni schiavo, Selma o l’indimenticabile Colore viola – per la loro capacità di accendere dibattito e di provocare.

Voto: 7 +

Alessandra Buttiglieri

UNA GIORNATA PARTICOLARE

Regia: Ettore Scola

Sceneggiatura: Maurizio Costanzo, Ruggero Maccari, Ettore Scola

Anno: 1977

Durata: 110′

Produzione: Italia, Canada

Fotografia: Pasqualino De Santis

Montaggio: Raimondo Crociani

Scenografia: Luciano Ricceri

Costumi: Enrico Sabbatini

Colonna sonora: Armando Trovajoli

Interpreti: Marcello Mastroianni, Sophia Loren

TRAMA

6 maggio 1938, Hitler fa visita ai cittadini romani. Tra i pochi a non prendere parte all’importante parata ci sono Gabriele e Antonietta, dirimpettai. I due si incontrano e cominciano a domandarsi l’uno della vita dell’altra, fin quando Gabriele rifiuta le avance di Antonietta e confessa la sua difficile situazione di giornalista omosessuale oppresso dal rigore fascista.

RECENSIONE

Il film si apre con la sveglia da parte di Antonietta di marito e numerosi figli, tutti da preparare per l’evento della parata. Si evince subito il ruolo di moglie sottomessa e servile di Antonietta, regina della casa e del focolare, ligia ad adempiere il proprio dovere coniugale e a tenere fede al partito fascista, di cui il proprio marito è membro, soffocando e nascondendo le proprie inclinazioni e i propri ideali, vicini al partito solo per osmosi, per accondiscendenza. Dietro i suoi silenzi si nasconde una fitta coltre di solitudine, una triste rassegnazione a quella che è diventata (o è sempre stata?) la sua esistenza di donna. Appena svuotatasi la casa e tutti i palazzi del circondario comincia l’opera, in un gioco di riprese appassionante e ben studiate. Per un caso fortuito, Antonietta scampanella alla porta di Gabriele, fermandolo nel suo tentativo di suicidio. Antonietta pare particolarmente incuriosita dall’atteggiamento di quello strano dirimpettaio, così diverso dall’ideale di uomo dell’epoca e così lontano dagli stereotipi mascolini preimpostati.  La Loren, spinta dall’attrazione verso quella sua nuova e inconsueta compagnia, si spinge in dichiarazioni e tentativi di provocare Gabriele, di ricevere un suo bacio: è ormai un cult la scena del terrazzo, durante la quale, stendendo i panni, violenza, rabbia, frustrazione e verità vengono vomitate fuori, in un parossismo di bellezza cinematografica e di vita vissuta, fino ad arrivare alla confessione brutale, esasperata, della sua omosessualità.

Una giornata particolare 2

Antonietta, la stessa che svenne vedendo passare il Duce a Villa Borghese (episodio autobiografico, in quanto la stessa vicenda capitò a sua madre) decide di stare, comunque, vicino al suo Gabriele, di cui apprezza i gentili modi e la diversità, quasi come se, tale diversità, le desse la sensazione di essere libera, slegata dall’infelice matrimonio con il fascistissimo Emanuele, come se trovasse in quella conoscenza fortuita una possibilità per cambiarsi da dentro. Nel rumore di piatti di un pranzo a due, consumando una frittata (guarda caso, una scena simile, sempre con gli stessi interpreti, si vede anche ne I girasoli di Vittorio De Sica) cascano i fronzoli e le imposizioni strutturali e i due fanno l’amore, lontani da idee politiche e scelte sessuali, vicini solo a livello sentimentale, uniti in quella stretta che li vede uniti, diversi, uguali. La storia di un riscatto, quella di Antonietta, che l’ha vista, anche solo per un giorno, una donna capace di rischiare, di nuotare verso la novità, disinibita e piena di pulsioni sotterrate.

Particolarmente affascinante e astuta la tecnica registica con cui Scola ci permette di spiare – quando dalla finestra di Antonietta, quando dalla finestra di Gabriele – la casa vuota dell’altro, come se da altre prospettive si potesse ben vedere lo scenario in cui si consuma la tristezza mascherata di un complesso vissuto quotidiano.

Una giornata particolare 1

Belle scelte registiche, eleganti dialoghi, immense interpretazioni di due personaggi ormai cari al tessuto del cinema d’autore e particolari studiati con attenzione (dai quadri futuristi in casa di Gabriele alle inquadrature sulle scale): un film bellissimo, da cui ha preso spunto Ferzan Ozpetek nel suo la finestra di fronte. Scola si conferma un maestro e il suo lavoro un cumulo di emozioni al dettaglio.

Voto: 9

Alessandra Buttiglieri

GONE GIRL – L’AMORE BUGIARDO

Regia: David Fincher

Sceneggiatura: Gillian Flinn

Anno: 2014

Durata: 149′

Produzione: USA

Fotografia: Jeff Cronenweth

Montaggio: Kirk Baxter, Angus Wall

Scenografia: Donald Graham Burt

Costumi: Trish Summerville

Colonne sonore: Trent Reznor, Atticus Ross

Interpreti: Ben Affleck, Rosamund Pike, Carrie Coon, Kim Dickens

TRAMA

Al quinto anno di matrimonio con Amy, Nick perde il suo lavoro di scrittore e decide di trasferirsi in Missouri per aprire un bar insieme alla gemella Margot. Ma all’anniversario di nozze Amay sparisce nel nulla.

RECENSIONI

Il giorno del loro quinto anniversario l’improvvisa e inaspettata scomparsa di Amy Dunne rompe la consuetudine di un matrimonio, che agli occhi di tutti sembrava perfetto. Ma niente è ciò come sembra e l’ombra del dubbio si allunga sulla felicità della loro unione e sulla figura del marito.

Gli indizi si accumulano, gli investigatori sono alla ricerca di un colpevole, i media alla disperata caccia di un capro espiatorio, e il puzzle piano piano si configura. L’ameno paesino di provincia americana con le case bianche e i vialetti ben curati che sonnecchiava in letargo si tinge di quelle tinte cupe che solo Fincher sa dare e ben presto l’interesse morboso della comunità su cui soffia l’attenzione ossessiva dei media solletica le violenze più latenti. Ma nulla è come sembra.

Si tratta di un film perfetto, anche troppo. Fincher gioca con virtuosismo con i generi e i personaggi, invertendo più volte vittima e carnefice e trasformando proporzionalmente ai colpi di scena il registro della pellicola, che da thriller diviene Noir, per poi sfiorare l Horror e terminare in una Dark commedy graffiante sul matrimonio, descritto come luogo di manipolazioni e compromessi narcisistici ma ancor di più sulle sproporzioni e sui non luoghi dell’intimità ormai cannibalizzati dalla ferocia delle regole dell’apparenza e dei media.

Il film ha ritmo, una bellissima atmosfera, dialoghi intelligenti ed un estetica perfetta ma non coinvolge fino ino in fondo ed è quasi corrotto dalla stessa bravura e dalla vanità celebrale del suo regista che è la croce e la delizia di un’opera che lascia allibiti ma non emoziona che è indiscutibile ma non riesce a diventare un capolavoro.

Voto 7,5

Luca Del Vescovo

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Come spesso accade, il titolo originale, seppur più sbrigativo e impersonale, surclassa quello tradotto in italiano, che, riecheggiando un genere di film romantico e strappa lacrime, incuriosisce solamente quella fetta di pubblico dai gusti meno ricercati. Lo stesso incipit si presenta, ingannevolmente, talmente lezioso e sdolcinato da far invidia alla migliore lovestory hollywoodiana. Attraverso un flash-back, la protagonista Amy (interpretata da Rosamund Pike) ci regala squarci del suo passato: l’incontro con Nick (Ben Affleck), il primo bacio, la prima notte e la proposta di matrimonio; il tutto sfumato in una realtà dai contorni onirici, favolistici. Siamo di fronte a un Amore astratto, velleitario, retorico, il cui oggetto non è tanto la persona concreta ma la proiezione del desiderio di perfezione, di elevazione rispetto al grigiore della quotidianità. E come in ogni favola che si rispetti, anche questa storia “è troppo bella per essere vera”, e da una pioggia di zucchero filato si passa brutalmente al presente e a schizzi di sangue fresco sul fornello della cucina. Dov’è Amy?

Thriller, giallo che prevarica i limiti del genere e sfocia nel noir, Gone Girl ha un intreccio complesso, un’architettura labirintica, in alcune parti fin troppo contorta. Alla fine lo stesso David Fincher sembra aver perso qualche filo (non stupitevi se alcuni passaggi rimarranno irrisolti e in sospeso), senza però compromettere la struttura logica generale del film.

Tutta la vicenda si snoda intorno a Amy, che catalizza l’attenzione del pubblico su di sé, lasciando in ombra gli altri personaggi. Rosamund Pike interpreta un personaggio camaleontico: dalla “super figa che mangia pizza fredda e rimane una 42” alla casalinga depressa e frustrata. Dalla cattiva ragazza che beve birra e mangia junk food a donna cruenta, senza scrupoli e pietà. La protagonista calza a pennello in ognuno di questi ruoli e allora sorge naturale chiedersi: ma chi è veramente Amy? Depredata della sua vera identità, che ha affibbiato alla sua controparte letteraria “la mitica Amy”, si è spersonalizzata, svuotata: può essere solo ciò che gli altri vogliono che ella sia. Accanto a un personaggio così sfaccettato contrasta un Ben Affleck inetto, preda degli eventi, incapace di prendere decisioni autonome, pavido burattino mono espressivo.

David  Fincher inscena un finto “delitto perfetto”, che, come Hitchcock insegna, è per sua natura “imperfetto” e la verità, inesorabile, viene a galla. Ma se il pubblico e i personaggi del noir in bianco e nero erano affamati di verità, in Gone Girl non è così. Non c’è più posto per il vero, per l’autentico. La verità rimane latente, svilita e subordinata a un ordine superiore di luccicanti menzogne.

Voto: 7,5

Camilla Longo Giordani

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Questa pellicola propone un’interessante panoramica della vita coniugale nelle sue contraddizioni e nei suoi agi, tra le bugie e il fallimento amoroso e la mancata realizzazione del sogno di coppia, e che coppia, poi, con due protagonisti di questo calibro. Belli e affascinanti, talmente tanto che il buon Fincher dedica una serie infinita di inquadrature ai vari profili di Affleck, mostrato in tutta la sua beltà da muscoloso Adone Casanova, meno alla Amy interpretata da Rosamund Pike (scelta, pare, tra svariati nomi importanti, come quello di Charlize Theron) quasi da accentuarne l’oscurità del personaggio, da rendere ancora più marcato l’alone di indefinito mistero intorno alla sua magra figura. Insomma, belli e affascinanti – abbiamo detto – ricchi, giovani, interessanti: tutti gli ingredienti per arrivare al famigerato american dream. Ma cosa va storto? Dov’è l’inghippo? Più radicato di un qualsiasi disagio, più particolare di una qualsiasi nevrosi: l’insoddisfazione perenne che muove intricatissimi fili di disamore, disistima e rabbia, fino ad arrivare al punto di rottura di un delicato raso che mantiene l’unione, fino all’ossessione del rimanere uniti nonostante tradimenti e stanchezza, per una serie di ben architettate pressioni psicologiche, violenze mentali che portano alla destrutturazione non solo del personaggio, ma dell’io proprio ed unico di tutti e ognuno.

Un Fincher assolutamente inusuale, questo di Gone Girl, lontano dalla raffinata crudeltà di Seven, distante dalla cruenta schizofrenia di fight club, come unico condivisibile scenario: l’animo umano, nelle sue più cavernose contraddizioni. Belle le riprese a due respiri, la storia battuta in due tempi, da una parte, Nick che si angoscia per uscire pulito dalle probabile accuse, mentre la Amy ormai lontana sorseggia il suo drink, in piscina, godendosi le altrui angosce. Fincher frega ancora, fino alla fine, il proprio spettatore, che si scervella per arrivare a carpirne il possibile sbocco. La conclusione del film lascia con il classico amaro in bocca, l’impossibilità di uscire da una gabbia matrimoniale soffoca e inquieta, e soprattutto inquieta come tutta la narrazione sia mossa e manipolata da faziosi mass media che gestiscono ad hoc le situazioni e le verità, siano queste presunte o tangibili. Contestualmente, però, è un film sopravvalutato dal quale ci si aspetta certamente di più, almeno per il buon nome del regista che lo coordina, almeno per sopperire ai tempi lunghi di immagini ridondanti a cui si è costretti, che sforano di poco l’obbiettivo di portare in scena un così delicato ecosistema, e di poco si sfiora anche l’Oscar, nonostante le svariate nomination.

Voto: 7

Alessandra Buttiglieri

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“Quando penso a mia moglie, penso sempre alla sua testa. Immagino di aprirle quel cranio perfetto e srotolarle il cervello in cerca di risposte alle domande principali di ogni matrimonio: a cosa pensi? Come ti senti? Che cosa ci siamo fatti?”. Ispirato al bestseller americano di Gillian Flynn, Gone Girl propone in chiave drammatica i retroscena più oscuri di un matrimonio ormai al capolinea, interpretati e veicolati non solo attraverso i racconti e il vissuto dei due protagonisti, ma anche tramite l’occhio implacabile e accusatorio dei media americani. Nick ed Amy, in apparenza felicemente sposati, sono in realtà, come ogni altro personaggio di Fincher, figli di un’epoca contraddittoria, che vuole soap opera a lieto fine – qui rappresentato dall’ideale di un matrimonio perfetto. Un matrimonio fatto di tradimenti, bugie, inganni, dubbi, verità celate che si insinuano nel rapporto tra i coniugi e ne determinano il fallimento. Ma è di una soap che si parla: niente è perduto! I due amanti, nonostante le problematiche matrimoniali, sono destinati a riconciliarsi e a vivere felici nonostante tutto. È così che deve andare. È questo che il pubblico americano vuole ed è questo che Nick ed Amy daranno in pasto ai loro famelici seguaci. Film drammatico reso accattivante da un pizzico di suspense e mistero, Gone Girl cerca di andare oltre le felici apparenze coniugali per svelarne l’essenza, spesso cruda, e i compromessi che le verità celate comportano.

Voto: 6

Martina Malavenda

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Centro di falsità permanente

Dimensione privata e dimensione pubblica, verità e menzogna, fedeltà e tradimento, perdono e vendetta. Fincher torna nella calda culla del genere Thriller per raccontarci la crisi della coppia moderna, tra recessione economica e tradimenti. La deriva dell’amore, fino all’estremo.  Ma forse c’è di più. Dall’idilliaco primo bacio avvolto (letteralmente) in una nuvola di zucchero Nick e Amy imboccano una strada che li porterà dritti all’odio reciproco, con sacrifici mal digeriti, cappi psicologici, ricatti economici e menzogne. La coppia si sgretola. Tutto ciò che segue è un racconto ad orologeria, con forzati sviluppi narrativi e personaggi caricaturali che trasformano nel bene e nel male il semplice thriller in dramma grottesco, toccando corde dissonanti. Si percepisce l’ingombrante doppio ruolo della sceneggiatrice (già autrice del best seller di partenza) che fa pesare la matrice del film. Espedienti come la lettura del diario e la caccia al tesoro sembrano ricalcare il tedioso Lettere da una sconosciuta (Max Ophuls, 1948), lasciando un sapore letterario al palato, portando a percepire il peso della pagina a scapito delle immagini. La falsità, come male sociale, cinge l’universo di Gone Girl. In ogni suo aspetto la corruzione è totale, non c’è scampo per niente e nessuno e l’ovvia soluzione psichica di difesa dell’uomo appare “mal comune mezzo gaudio”, così va il mondo. Fincher non ci sta, ci racconta i retroscena e fa emergere una verità che spesso resta chiusa tra quattro mura, ci permette di entrare nelle teste dei protagonisti per darci l’inequivocabile verità e la confronta con la verità presunta, quella sociale. Il risultato è un evidente scarto.

Quest’affresco sociale risulta però in qualche modo incompiuto: si prova fatica a seguire i processi che costruiscono questo mondo malgrado siano fondamentali per la percezione reale, gli attanti non creano coinvolgimento e trasformano i propri, complessi, pensieri in novelle rappresentazioni delle maschere della commedia dell’arte, creando  contrapposizioni nette e semplificate (buono-cattivo, ingenuo-manipolatore).

Personaggi esageratamente stereotipati come le conduttrici di talk show fanno pensare che la lettura debba prendere nuove direzioni, uscire dall’empatia che il thriller crea necessariamente con determinati personaggi, allo scopo di assumere una visione sopraelevata della vicenda, distante dal sentimento. Lo straniamento che ne consegue è indispensabile per creare la condizione adatta alla percezione della critica alla società, che Fincher non voleva sottacere. Siamo schiavi della nostra immagine e dei processi che la costruiscono e  la demoliscono. La verità non è importante e forse non lo è mai stata; stiamo vivendo il  passaggio evolutivo che ci porterà ad essere solo ed esclusivamente immagini, il nostro alter ego. Si esce dall’universo reale e si entra in quello della finzione. L’ipocrisia regna in questo nuovo mondo e non possiamo far altro che stare al gioco, accettando il fatto che non esiste l’amore ma solo una rappresentazione dello stesso. La famiglia, punto cardine della società, è un simulacro, una messa in scena: simbolo vuoto dello smarrimento della società occidentale che, vittima di se stessa, è costretta a replicare immagini ormai prive di senso.

Il sorriso ebete di Nick (un Ben Affleck molto a suo agio nel ruolo), mantenuto anche in circostanze inopportune (vedi la veglia), sarà una delle pietre che affosseranno la sua immagine. Perché ciò che appare, è. Forse è per far emergere questo concetto che Fincher ha volutamente lasciato buchi nella storia senza calcare la mano sull’approfondimento dei personaggi; da questo punto di vista le varie incongruenze narrative (peccato capitale per un thriller) non sono così gravi. Ma oltre a questa critica, per altro banale, cosa ci lascia questo film? Un buon ritmo ma con forzati espedienti, frivole citazioni (dalla rapina di Amy – Thelma e Louise, all’assassinio di Desi Collings – Basic Instinct), buone prove attoriali e poco altro.

Voto 5,5

Manuel Lasaponara

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L’amore bugiardo mi è piaciuto anche se mi ha fatto temere il peggio a causa di un inizio non esattamente all’altezza delle mie aspettative. Amy e Nick, belli e ricchi, incarnano la coppia felice e innamorata. Sposati da cinque anni, lasciano la caotica New York per la più tranquilla provincia americana del Missouri dove lui è cresciuto. Il loro rapporto, all’apparenza perfetto, nasconde una ostilità crescente enfatizzata dalla crisi economica che ha frenato le ambizioni di questi due giovani e promettenti scrittori, trasformandoli in una casalinga annoiata lei e uno svogliato proprietario di un bar lui. Il giorno del loro quinto anniversario Amy scompare in circostanze misteriose e tutti, media e polizia compresi, sono convinti che sia stato Nick ad ucciderla. Per la prima ora si assiste ad un thriller piuttosto fiacco in cui il marito, dall’aria troppo rilassata e dal comportamento sempre pacato che non lo fa cedere mai a pianti e scenate isteriche, sembra l’unico vero colpevole.  Se l’assassino è stato ben presto individuato, le ragioni della sparizione di Amy nascondono invece molti dubbi e perplessità. In questa prima parte, dove scarseggiano i colpi di scena e tutto scivola tra le più ovvie previsioni, ci si chiede dove sia finito il David Fincher che tutti noi conosciamo e come sia stato possibile confezionare un thriller così palesemente banale. Fortunatamente tutte le carte vengono ridistribuite e allo scoccare della prima ora inizia un nuovo film, cambiano i punti di vista e si comincia a fare sul serio! La bella Rosamund Pike sembra uscita da un film di Hitchcock- bionda, pazza e misteriosa come Kim Novak ne La donna che visse due volte, ma anche sexy e diabolica come Marilyn Monroe in Niagara di Henry Hathaway – Ben Affleck cambia espressione (e non è roba da poco dato che, salvo rare eccezioni, fa sempre la stessa faccia dai tempi di Pearl Harbor, anche se ultimamente lo sto rivalutando), la storia finalmente ingrana, anzi, esplode in un susseguirsi di giochetti ad incastro, nuove piste e inganni. Da thriller svogliato dalla struttura debole si trasforma finalmente in quel film che mi aspettavo di vedere, in cui si svelano le reali intenzioni di quella coppia che non è come vuole apparire perché ad unirli non è l’amore, ma solo il sospetto, la paura e soprattutto la vendetta. Sotto lo sguardo cinico dei media, capace di distruggere l’immagine di un uomo additandolo come colpevole e creare personaggi di cui si sente la necessità di conoscere ogni più piccolo particolare della vita privata,  la storia di Amy e Nick viene chirurgicamente sezionata, aperta ed esplorata come un cadavere dopo un’autopsia per poi essere malamente ricomposta e ricucita. L’ immagine pubblica è la sola che conta, i media sono gli unici in grado di decidere chi è il colpevole e chi la vittima, cambiando velocemente idea senza cercare la verità ma solo seguendo la scia degli eventi con ceca convinzione. Lo schema logico si fa imprevisto e tu, spettare che nel buoi della sala osservi le vite degli altri, a questo punto sei nel mezzo di tutto questo fragore mediatico, sei confuso e tutto quello che ti è stato raccontato per tutta la prima ora a questo punto ha ben poca importanza… David Fincher te l’ha fatta di nuovo ed esci dal cinema soddisfatto!

Voto: 8

Cinefabis


Luca Del Vescovo: 7,5

Camilla Longo Giordani: 7,5

Alessandra Buttiglieri: 7

Martina Malavenda: 6

Manuel Lasaponara: 5,5

Cinefabis: 8

Patrick Martinotta: 6,5

Giuseppe Argentieri: 8