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IL SALE DELLA TERRA

Titolo originale: The Salt of the Earth

Regia: Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado

Sceneggiatura: Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado, David Rosier, Camille Delafon

Anno: 2014

Durata: 106’

Nazione: Brasile, Italia, Francia

Fotografia: Hugo Barbier, Juliano Ribeiro Salgado

Montaggio: Maxine Goedicke, Rob Myers

Colonna sonora: Laurent Petitgand

Interpreti: Juliano Ribeiro Salgado, Wim Wenders, Sebastiao Salgado

TRAMA

Un documentario che ripercorre e osserva la vita e le opere del fotografo brasiliano Sebastiao Salgado, esponente eminente di reportage socialmente impegnati e fotografo celebrato in tutto il mondo per la sua estetica e intensità visiva.

RECENSIONE

Non è raro che davanti a certe fotografie, chi le osserva si interroghi sulla storia che si cela dietro l’immagine per la quale è rimasto colpito. Nonostante l’aiuto di didascalie, biografie o testimonianze, la curiosità non è mai soddisfatta in pieno. Ne Il sale della terra, Wim Wenders riesce a documentare il lavoro di uno dei più acclamati fotografi del novecento, il brasiliano Sebastiào Salgado. Lo spettatore è chiamato a seguire un duplice racconto, che coniuga il particolare con l’universale. Da una parte Wenders mostra la vita dell’artista: l’infanzia nel prospero verde della natura brasiliana, l’emigrazione assieme alla moglie prima a Parigi e poi a Londra in qualità di economo e il successivo radicale cambio di vita fatto da Salgado che lo vedrà viaggiatore e testimone per immagini di popolazioni e luoghi tra i più disparati e incontaminati nel mondo. Dall’altra la successione delle immagini degli scatti realizzati da Salgado ha il potere di infondere un sentimento senza tempo riguardo l’essere umano e la propria dignità. I dialoghi tra regista e fotografo, così come tra aiuto regista (il figlio stesso di Salgado) e fotografo, non si limitano solo a raccontare le fotografie conferendo loro movimento, ma arrivano a toccare implicitamente tematiche dalle sfumature esistenzialistiche applicabili a qualsiasi individuo abbia abitato in un qualsiasi “dove” del pianeta.

il sale della terra

Premettendo che la sostanza e la vastità caratterizzante la poetica di un artista come Salgado sia di per sé un nucleo semantico dalle dimensioni sconfinate, Wenders riesce a sfruttare al meglio il soggetto da lui scelto nel offrire allo spettatore un’esperienza che rappresenta anche uno dei pilastri del cinema stesso, quella del viaggio. Assistere al passare in rassegna sul grande schermo di così tanti luoghi, popolazioni e momenti vissuti e visti da Salgado comporta un’inevitabile immedesimazione negli occhi del fotografo ed è simile all’essere davanti ad una popolazione peruviana, immergersi nel petrolio mediorientale o toccare i freddi ghiacci antartici. L’ammirazione di Wenders nei confronti del fotografo è palpabile, così come l’attaccamento del figlio verso il padre. Tuttavia l’artista brasiliano non nasconde alla telecamera occhi sfuggenti, assorti nella tragicità delle sofferenze dell’uomo e ricchi delle bellezze inenarrabili dell’essere umano. Salgado ha vissuto la vita e la morte, fotografandola in ogni posto dove sia andato. Questo documentario, senza sentimentalismi, colpisce per la sua umanità e porta a riflettere sull’idea di bello e brutto.

Salgado è riuscito a conferire magnificenza ad ogni suo scatto, non importa che si tratti di un primo piano di un indigeno indocinese, di una madre con in braccio il figlio morente nell’Africa piegata dalla carestia o di qualche scimpanzé della jungla. Wenders è riuscito a creare non solo un documentario, ma un manifesto visivo per il diritto alla vita di ogni essere vivente.

Voto: 9

Mattia Maramotti

GIOVANE E BELLA

Regia: François Ozon

Sceneggiatura: François Ozon

 Anno: 2013

 Durata: 90

 Produzione: Francia

 Fotografia: Pascal Marti

 Montaggio: Laure Gardette

 Scenografia: Katia Wiszkop

 Costumi: Pascaline Chavanne

 Colonna sonora: Philippe Rombi

 Interpreti: Marine Vacth, Géraldine Pailhas, Frédéric Pierrot, Charlotte Rampling

TRAMA

Isabelle, una giovane e bella ragazza parigina, inizia una seconda vita fatta di prostituzione a seguito delle prime esperienze sessuali. Uscire dal vortice entro cui si è spinta non sarà facile, nonostante l’aiuto della famiglia e la propria volontà di giovane donna.

 RECENSIONE

Quale sia il confine che separa malizia e perversione da una più semplice, per quanto peculiare, brama di scoperta sia fisica che interiore è qualcosa di difficilmente catalogabile. Innumerevoli sono le chiavi interpretative che dovrebbero essere giudicate più dalla singola soggettività che da prestabilite regole sociali.

Con la pellicola Jeune et jolie, il regista François Ozon si avventura  nell’osservare le stagioni che scandiscono un periodo di cambiamento nell’adolescenza della protagonista Isabelle (Marine Vacht). La diciassettenne, a seguito della prima esperienza sessuale, intraprende un percorso che la porta a prostituirsi nella Parigi dei giorni nostri. Una decisione forte, non dettata dal bisogno economico né tantomeno perché priva di corteggiatori suoi coetanei. Tuttavia una più o meno consapevole spinta a conoscere il proprio corpo e quello dei più disparati partners occasionali la trascina in un turbinio di incontri del quale non riesce fare a meno.

Una pellicola forte e mai giudicante, che riesce a mantenere un tatto dignitoso anche nelle scene più esplicite e forti dove il confronto tra il corpo giovane e acerbo di Isabelle si sovrappone con quello maturo e avvizzito dei suoi clienti. Il regista, navigato nell’occuparsi di tematiche considerate tabù sociali, è in grado di contestualizzare il punto di vista della protagonista con quello di una società, metaforicamente impersonata anche dalla madre (Geraldine Pailhas), dal fratello (Fantin Ravat) e dalle persone a lei più vicine. Una fitta rete di opinioni e reazioni si interseca con la condotta di vita di Isabelle e spinge lo spettatore a farsi della domande, a mettere in discussione le proprie convinzioni e crearsi un’opinione più coerente su fenomeni sociali come questo, che accadono sempre più spesso in questo periodo storico, anche forse a causa di tecnologie e social media sempre più insinuati nell’ordinario.

Un film tributo al cult di Luis Bunuel Belle de Jour, che, senza troppe provocazioni, riportava una storia fuori dal comune che mantiene ad ogni modo gli intrecci narrativi tipici del romanzo di crescita. Nuove esperienze accostate al cambiamento fisico portano inevitabilmente anche la mente a vivere  mutamenti. Le reazioni possono essere innumerevoli e talvolta le più inaspettate.

Così come la macchina da presa indugia sulla spontaneità e la naturalezza di Isabelle nel fare ciò che fa e si interroga sul suo sguardo così malinconico e sfuggente, anche per lo spettatore può essere un’occasione di riflessione piuttosto che di mera condanna o comprensione.

Voto: 7

Mattia Maramotti

KABOOM

Regia: Greg Araki

Sceneggiatura: Gregg Araki

Anno: 2010

Durata: 85′

Produzione: USA, Francia

Fotografia: Sandra Valde-Hansen

Montaggio: Gregg Araki

Scenografia: Todd Fjelsted

Costumi: Trayce Gigi Field

Colonna sonora: Ulrich Schnauss, Mark Peters, Vivek Maddala, Robin Guthrie

Interpreti: Thomas Dekker, Haley Bennett, Chris Zylka, Roxane Mesquida, Juno Temple

TRAMA

Smith è un diciottenne studente di cinema che non sa di avere dei poteri paranormali. Ad una festa è convinto di aver visto l’omicidio di una ragazza dai capelli rossi che non conosce, ma che ha sognato in maniera ricorrente.

RECENSIONE

Kaboom è forse uno dei titoli più efficaci nella filmologia del regista losangelino Gregg Araki. Il termine, che in chiave onomatopeica rievoca lo scoppio di un disastro, si sposa alla perfezione con i meccanismi narrativi della sceneggiatura (realizzata dallo stesso Araki), dando vita ad un climax di ironia e mistero, per poi culminare in un inaspettato epilogo.

Kaboom è uno stato d’animo, come lo è l’inizio dell’università per Smith (Thomas Dekker), il giovane protagonista della pellicola che, caratterizzato dall’impronta dell’antieroe postmoderno arakiana, si sta per spingere nella sperimentazione di tante nuove esperienze, dal sesso alle droghe, sullo sfondo di una vita universitaria caratterizzata da misteriose lettere e sogni troppo vividi per essere solo verisimili. Kaboom è un’esplosione che arriva a tingere alcuni espedienti tipici della fiaba classica con tonalità grunge, creando così un mondo dove la normalità e lo strano convivono insieme. Kaboom è il suono della curiosità che spinge Smith e le sue due amiche Stella (Haley Bennet) e London (Juno Temple) a fare luce sulla misteriosa scomparsa di una ragazza, la stessa presente nei suoi sogni, che Smith sostiene di aver visto uccidere da un gruppo di assassini mascherati.

Gregg Araki ricrea due filoni narrativi che procedono in parallelo: la sete di scoperte tipica dei 19 anni e un intreccio dove ogni persona e avvenimento ha a che fare con la risoluzione del mistero. Realtà e sogno vengono legati tra loro da quell’ironia tipica del cinema anni novanta, tanto cara alla poetica del regista, senza che tuttavia vadano intaccati i pilastri concettuali della storia. La serietà di certe battute e scene è costantemente contaminata da particelle di demenzialità e sensualità che se da un lato solcano la storia con ritmi incisivi, dall’altro rappresentano l’elemento di fascino della pellicola.

Nella propria peculiarità l’opera mantiene una sua imprevedibile coerenza anche sul piano tecnico; basti pensare ai continui flashback metanarrativi che richiamano lo spettatore a fare costantemente il punto della situazione e agli innumerevoli primi piani che si nsinuano qua e la all’improvviso arricchendo le sfumature semantiche di fruizione. Allo stesso modo anche il soundtrack contribuisce a delineare momenti e personaggi, in un’andatura leggera e senza troppe pretese ma allo stesso tempo ricca di sottili spaccati sociali e critiche generazionali. In un’epoca in cui la crisi dei valori e gli interrogativi su un amaro collasso del pianeta si fanno sempre più dilaganti, Gregg Araki ha proposto, tramite una mise-en-scéne dell’assurdo, una sua personale visione di questi temi che, a prescindere da quelli che siano i personali gusti cinematografici, merita di nota.

Voto: 8

Mattia Maramotti