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ABACUC

Regia: Luca Ferri

Anno: 2015

Durata: 85′

Nazione: Italia

Interpreti: Dario Bacis

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RECENSIONE

Tra le rivelazioni delle uscite degli ultimi mesi, “Abacuc” di Luca Ferri (nelle sale dal 2 novembre) riprende in mano il filo reciso del cinema cosiddetto sperimentale per costruire, o decostruire, un viaggio grottesco nel Nord Italia dominato da scempi urbanistici e edili di ogni tipo, viaggio al termine della notte alla fine del quale non rimane che rifugiarsi nel cimitero, luogo-simbolo della morte di ciò che è stato definito postmoderno (e, per dirla con l’ultimo Houellebecq, morte dell’intera civiltà occidentale, finalmente accordata all’etimo che la vuole assimilata al concetto di tramonto). Un tramonto ferocemente iconoclasta, quello intessuto dalle immagini in bianco e nero girate in super8 da Ferri e dalla colonna sonora analogica e post-atomica del compositore Dario Agazzi, che non rinuncia però al taglio sarcastico fatto di fendenti ora apparentati al teatro dell’assurdo (“Io leggo Lacan”, ci confessa lo scheletro affrescato) ora provocatori (“Chi ascolta jazz è un eiaculatore precoce”; ”Paradossi delle reliquie: i prepuzi di Gesù erano dodici”).

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Film sulle rovine e sulla monumentalità della rovine, come ha avuto modo di scrivere il suo autore, Abacuc vede come protagonista un uomo di duecento chili, quasi immobile, lontano dalle emozioni e dalla parola, protagonista di una sorta di remake di “L’ultimo uomo sulla terra”; Abacuc è un Buster Keaton oltre il declino, è il cadavere di Keaton che si aggira in un Paese ormai tumefatto. Come il Jack Nance di Eraserhead, vive in una piéce che ne racconta allo stesso tempo la condizione di superstite e di testimone dello stato terminale di un’epoca: non rimane che sperare, spogliando un petalo dopo l’altro una margherita nel mi-ama-non-mi-ama fanciullesco, che ci sia (ancora) qualcuno ad amarlo.

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Abacuc si pone, o è posto, a tutti gli effetti come una marionetta senza spettatore, catapultato al centro di un teatro finzionale che cortocircuita con la realtà, squarciandola e rivoltandola su se stessa. Nessun tipo di costruzione narrativa è più possibile: ad Abacuc e al suo vago pellegrinare non resta che ascoltare una voce meccanica ad una cornetta che, attraverso la reiterazione di citazioni del passato, lo conduce ad un continuo e inesorabile vicolo cieco, al termine del quale il linguaggio perde la sua valenza di segno e di testimonianza. Cosa rimane? Rimangono la contemplazione estetica, le macerie dei secoli, i volti dei defunti esposti sulle lapidi accompagnati da improbabili storie, montate e rimontate casualmente come in una letteratura combinatoria mortifera. Non è finzione e non è documentario: siamo nella frattura, nella lacuna, nel buco nero del linguaggio.

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“La musica, come tutte le arti, ha l’umile compito di descrivere la propria fine”, ci suggerisce la voce meccanica che accompagna l’esistenza di Abacuc. E il cinema di Ferri sembra voler inseguire il suo protagonista, la sua marionetta, proprio verso la fine di ogni modalità della rappresentazione. L’arte cinematografica deve implodere in se stessa, ricercare le proprie rovine (si agita il cadavere di Walter Benjamin) e, una volta trovata la propria estinzione, sperare in una rinascita. Abacuc si pone in questo senso come un superamento totale (e totalizzante) della storia del cinema: è slapstick comedy ma è oltre, è cinema delle avanguardie ma è oltre, è documentario ma è oltre, è soprattutto racconto post-moderno, ma oltre. Col suo lungo canto funebre, in questo Kaddish per immagini e musiche, Ferri firma un atto fortemente politico, uno sguardo allarmato e provocatorio sul cinema contemporaneo, spogliandolo delle facili epiche quotidiane e riportando l’attenzione sulla funzione espressiva e quasi oltraggiosa dell’occhio cinematografico, che qui assume le sembianze del volto incancellabile di Abacuc.

Voto: 8

Stefano Malosso

20.000 DAYS ON EARTH

Regia: Iain Forsyth, Jane Pollard

Sceneggiatura: Iain Forsyth, Jane Pollard, Nick Cave

Anno: 2014

Durata: 97’

Produzione: Gran Bretagna

Fotografia: Erik Wilson

Montaggio: Jonathan Amos

Scenografia: Simon Rogers

Colonna sonora: Nick Cave, Warren Ellis

Interpreti: Nick Cave, Warren Ellis, Kylie Minogue, Blixa Bargeld, Ray Winstone

TRAMA

Nick Cave racconta il ventimillesimo giorno della sua vita, combinando realtà e finzione.

RECENSIONI

Nel 20.000 giorno della sua esistenza Nick Re Inchiostro Cave ci racconta e si racconta, a tratti come sul lettino dello psicanalista, aprendo le porte del suo rifugio familiare very british a Brighton. Scordatevi il nero traghettatore degli inferi: Cave, superati gli estremi anni ottanta e le inquietudini lisergiche dei primi novanta, si presenta come un signore di indubbia eleganza e annessa riflessività, che sembra essersi lasciato alle spalle i demoni del passato. Una moglie amorevole, due figli (con i quali guarda la tv gustandosi una pizza), un metodo di lavoro ferreo e ordinato; la scapigliatura maudit degli esordi post-punk hanno così lasciato spazio ad un songwriting raffinato e posato, come confermano le immagini in studio durante le incisioni dell’ultimo delicatissimo Push the sky away. Psicanalisti/fantasmi che interrogano Cave sulla sua vita sono alcuni amici, soprattutto provenienti dal passato: le apparizioni, e sparizioni, di Kylie Minogue e Blixa Bargeld sull’auto guidata da Cave appaiono così come voci parlanti interne, sovrapponendo alla struttura del documentario numerosi inserti di pura fiction; la regia di Iain Forsyth e Jane Pollard lavora dunque a tutti gli effetti sul piano della docufiction, azzerando il confine fra realtà e finzione e utilizzando, come vedremo con non poco stupore nei titoli finali, persino parti scritte dallo stesso Cave. E l’impronta in fase di scrittura della rockstar australiana si sente, eccome: i siparietti comici col fedele compagno artistico Warren Ellis, la quasi totale mancanza di materiali storici che rischierebbero di provocare un inutile effetto nostalgia e alcuni lampi di poesia notturna e purissima sono chiaramente impronte dello stesso Cave. I paesaggi, tutti girati fra Brighton e la Francia, sono certamente deliziosi, così come la scandagliatura quasi analitica del processo di scrittura e di registrazione dei brani fino all’esibizione live; la regia e il montaggio sono di pregevole qualità, la colonna sonora ça va sans dire. Certo, molto è stato omesso: stupisce non sentir parlare degli incontri artistici e sentimentali con PJ Harvey e Lydia Lunch, vedere i Bad Seeds ridotti a qualcosa di microscopico, non sentire pressoché nulla della scena musicale nella quale i Birthday Party hanno mosso i primi passi, sapere troppo poco delle ossessioni di Cave, dalla droga alla Bibbia. Quando si cita un pezzo storico come Deanna non ci si può trattenere dal provare un bisogno quasi fisico di ascoltarne almeno due note, ma niente, bisogna subirsi il vicino di poltrona che prova a canticchiarla sottovoce per consolarsi. Tutto resta molto abbottonato, rigoroso; è solo il 20.000 giorno nella vita di Cave: ma certo è difficile non volerne sapere di più. Tutto scorre via un po’ speditamente, ma senza dubbio si tratta di una scelta programmatica in fase di scrittura del film; va rispettata la scelta stilistica, e va raccolta l’essenza profonda del Cave di oggi, del suo sbilenco equilibrio, della sua redenzione finale se così si può dire.

Al giornalista di Repubblica che recentemente l’ha raggiunto telefonicamente per un’intervista chiedendogli se fosse possibile raggiungerlo nella sua dimora, Cave ha risposto “Per parlare o per drogarci?” scoppiando poi in una risata, consapevole della caricatura grottesca dettata dal suo personaggio nei decenni. E forse il senso di questo curioso 20.000 Days on Earth sta proprio in quella fragorosa risata del King Ink, che sembra definitivamente scagliare un sasso sulla propria statua di nero cristallo per affermare la dignità di uno strano essere che ha trovato finalmente la propria serenità.

 Voto: 7

 Stefano Malosso


I’m transforming / I’m vibrating
I’m glowing / I’m flying
Look at me now / I’m flying
Look at me now

Nick Cave si alza al mattino e si guarda allo specchio. Noi spettatori, che conosciamo già ogni ruga di quel viso e ogni vibrazione della sua voce, lo seguiamo e partecipiamo volentieri a questo gioco autocelebrativo. Giunto al ventimillesimo giorno della sua vita, uno degli artisti contemporanei più profondi e poliedrici si confessa al suo pubblico a metà fra un Narciso e un Amleto che, davanti a uno specchio, recita scevro da dubbi “essere, essere, essere”: la parola d’ordine del songwriter è vivere e trasformarsi attraverso il filtro della memoria – perché vivere e cantare consistono in esercizio quotidiano e disciplinato di cannibalismo e di metamorfosi, che recupera le immagini del passato per sublimarle in una forma nuova.

Nick Cave è l’angelo nero del rock che cerca, col suo sguardo essenzialmente verticale, di mediare fra la terra e il cielo, fra l’alto e il basso, immergendosi fino a fondersi col suo pubblico o col mare di Brighton. Scrivere per lui significa lanciare una coperta sull’invisibile per dargli forma e lineamenti: una possibile chiave di lettura del film e della sua opera risiede proprio in quest’apertura al trascendente, che consiste nell’indossare una maschera e diventare altro, come fece il padre la prima volta che gli lesse l’allitterato incipit di Lolita (mentre Nick, al massimo, ai figli vestiti da damerini fa imparare a memoria i dialoghi di “Scarface” mangiando popcorn davanti alla tv) e come fa Cave ogni volta che sale sul palco e si trasforma nel nostro King Ink.

20.000 Days on Earth non si offre come documentario ma come seduta psichiatrica – aspetto rimarcato in modo superfluo dalla figura piuttosto goffa dello psicanalista – che non vuole descrivere ma solo evocare le varie e contrastanti dimensioni della vita e dell’opera di Cave, riconfigurandole in un contesto totalmente artificiale (ogni ambiente è ricostruito ad arte, tranne la stanza da letto della scena iniziale, che rimanda alla copertina di Push the Sky Away). Una seduta alla quale partecipano vari compagni di viaggio – dal grande Blixa Bargeld a una deliziosa e inutile Kylie Minogue di memoria “caraxiana” – come dei fantasmi che siedono comodi sul sedile posteriore della sua auto e non disturbano: parlano, ma di discorsi fatti di fumo, che servono solo a raccogliere le confessioni dell’unico protagonista. La sceneggiatura e i dialoghi hanno la forma del romanzo e alternano toni surreali, ironici, intensi e allo stesso tempo forzati, mentre la fotografia produce un effetto avvolgente.

20.000 Days, alla fine dei conti, riesce sapientemente a giocare con l’esposizione dell’immagine di Cave mantenendo intatta quella distanza di cui si nutre la sua aura. Usciti dal cinema come da una sala degli specchi, si sono riusciti a scorgere decine di riflessi diversi, ma non il volto autentico di Nick Cave, che rimarrà sempre celato al nostro sguardo. Il limite principale dell’operazione sembra risiedere, paradossalmente, proprio in questa eccessiva autoconsapevolezza della solidità della propria poetica e della propria immagine. Questo film si rivolge autoreferenzialmente agli amanti di Cave, senza rischiare nulla: il fan uscirà dal cinema coccolato dal timbro della sua voce e dalla comodità delle poltrone, ma forse avremmo preferito un seme più velenoso, che tornasse a infiammarci come la prima volta che si siamo seduti sul trono della misericordia.

And anyway I told the truth/ But I’m afraid I told a lie

Voto: 6,5

Patrick Martinotta


VOTI

Stefano Malosso: 7

Patrick Martinotta: 6,5