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PONYO SULLA SCOGLIERA

Titolo originale: Gake no ue no Ponyo

Regia: Hayao Miyazaki

Sceneggiatura: Hayao Miyazaki

Anno: 2008

Durata: 100’

Nazione: Giappone

Fotografia: Atsushi Okui

Montaggio: Hayao Miyazaki, Takeshi Seyama

Scenografia: Noboru Yoshida

Colonna sonora: Joe Hisaishi

TRAMA
Sosuke è un bambino di cinque anni che vive con la madre in una casa in cima ad una scogliera, non lontano da un grazioso villaggio di mare. Un giorno trova per caso sul bagnasciuga una pesciolina con la testa dalle fattezze umane incastrata in un barattolo di vetro, scampato per miracolo alle reti dei pescatori. Sosuke, dopo averla liberata, le dà un nome, Ponyo, e la porta con sé dopo averla messa in un secchiello pieno d’acqua. Lo stregone marino Fujimoto però, il padre di Ponyo che una volta era umano, riporta la figlia con sé nella sua casa sott’acqua. Laggiù la piccola riesce a bere l’Acqua della Vita e tenta di fuggire dalla casa di suo padre con l’intento di ritrovare Sosuke in superficie. Ma, durante la fuga, Ponyo versa un po’ dell’Acqua della Vita in mare provocando così un violento tsunami fatto di onde gigantesche a forma di pesce, sulle quali la piccola corre spensierata, ma che devastano completamente il grazioso villaggio marino. Ponyo vuole a tutti i costi rimanere accanto a Sosuke, ma Fujimoto non sembra intenzionato a lasciare che sua figlia diventi un’umana a tutti gli effetti. Riuscirà a riportarla con sé in mare? E che ne sarà del villaggio, continuamente investito dalle onde gigantesche lanciate dallo stregone?
RECENSIONE
Gli elementi autobiografici hanno sempre contraddistinto le opere del maestro, ma mai come in questo film si respira una nostalgia per l’infanzia così forte, espressa in maniera evidente dai continui richiami alla figura materna che Miyazaki perse troppo presto (Lisa,  Gran Mamare e la vecchia Yoshie sono tutti aspetti che descrivono sua madre: una donna forte, premurosa, ma che nella malattia divenne un po’ scorbutica a causa dell’immobilità forzata). Bambini e figure femminili come protagonisti: un film di Miyazaki a tutti gli effetti che, però, forse, per la prima volta, vuole essere dichiaratamente un prodotto per l’infanzia: a differenza delle protagoniste Mei e Satsuki de Il mio vicino Totoro (Tonari no Totoro, 1988) che trovavano nello spirito della foresta Totoro un fedele compagno che potesse distrarle dal dolore causato dall’assenza della madre malata (ancora l’elemento autobiografico che ritorna); o a differenza di Kiki (Kiki’s Delivery Service – Majo no Takkyubin, 1989) che si ritrova da sola nella grande città, ma supportata dalla magia e dalla gente che l’accoglie calorosamente; a differenza di questi lavori, dicevo, Miyazaki mette in scena una vicenda in cui i bambini finalmente si trovano in una posizione tale da poter decidere delle proprie sorti autonomamente, divenendo così i principali fautori del proprio destino (una naturale evoluzione della figura di Chihiro de La città incanatataSen to Chihiro no Kamikakushi, 2001- la quale si trova nella condizione di dover sopravvivere nel gigantesco villaggio termale, con tutte le sue regole talvolta incomprensibili, ma con in mente sempre un obiettivo impostole, però, da qualcun altro).
Un esplicito richiamo all’infanzia, una dichiarazione d’intenti che si intuisce anche dalle particolari decisioni prese per quanto riguarda la messa in scena: il sacrificio di qualche frame che rende l’animazione meno fluida rispetto agli ultimi lavori e che richiama lo stile tipico (anche per esigenze economiche) delle produzioni seriali del passato; la volontà di utilizzare sfondi acquerellati e molto meno particolareggiati (che ricordano molto da vicino le illustrazioni dei libri per l’infanzia), ma mai banali; la volontà ferma da parte di Miyazaki di non utilizzare la computer grafica (un altro espediente per non “raffreddare” l’animazione), ma di affidarsi totalmente alle capacità degli animatori guidati ogni giorno dal suo severissimo sguardo.
Un film gradevole, ben realizzato, in cui il mutamento sembra essere la chiave di lettura ottimale: Ponyo è una pesciolina che diventa un essere umano; Sosuke è un bambino che si comporta come un adulto; Fujimoto è un uomo che ha deciso di diventare un pesce; il mondo marino che ha deciso di fondersi con quello terrestre grazie alla volontà di una bambina, capace di correre sulle onde del mare in tempesta.
Voto: 8
Giorgio Mazzola

MAD MAX – FURY ROAD

Regia: George Miller

Sceneggiatura: George Miller, Byron Kennedy

Anno: 2015

Durata: 120’

Nazione: Australia, USA

Fotografia: John Seale

Montaggio: Jason Ballantine, Margaret Sixel

Scenografia: Colin Gibson

Costumi: Jenny Beavan

Musiche: Junkie XL

Interpreti: Tom Hardy, Charlize Theron, Nicholas Hoult, Hugh Keays-Byrne, Rosie Huntington-Thiteley, Megan Gale

TRAMA

In un futuro post-apocalittico la Terra è ridotta a un deserto arido a causa di uno sconvolgimento nucleare. La civiltà è semplicemente scomparsa e vige la legge del più forte. Max si sposta solitario a bordo della sua automobile in questo mondo devastato, perseguitato dai fantasmi dei suoi familiari che non è riuscito a salvare dalla furia della violenza. Un giorno, mentre sta sostando su un dirupo, viene colto di sorpresa dall’arrivo dei Figli di Guerra, un’armata di combattenti capeggiata dal malvagio Immortan Joe, che lo inseguono, lo fanno capottare con l’auto e lo rapiscono. Max viene così imprigionato e usato come “sacca ambulante” di sangue per il giovane, ma già malato, guerriero Nux. Nel frattempo, dalla cittadella militare dei Figli della Guerra, l’Imperatrice Furiosa esce con la gigantesca autocisterna blindata, scortata da alcuni guerriglieri, per andare a fare rifornimento di carburante a Gas Town. La donna, però, cambia improvvisamente direzione, dirottando il convoglio verso la meta che si era prefissata, ovvero le Terre Verdi, la sua terra d’origine dalla quale fu prelevata con la forza da piccola. Un vero e proprio ammutinamento aggravato dal fatto che Furiosa ha deciso di salvare, facendole evadere e portandole con sé, le quattro generatrici, ragazze bellissime tenute prigioniere e “utilizzate” per la procreazione del malvagio Immortan. Inizia così l’inseguimento dei Figli di Guerra, compreso il malato Nux che si porterà dietro il povero Max come sacca per il sangue, legato al cofano dell’automobile. A un certo punto però i protagonisti si imbattono in una tremenda tempesta di sabbia nella quale molti perdono la vita. Al termine del disastro Max è ancora vivo. Si alza in piedi e vede di fronte a sé Furiosa…

RECENSIONE

Con Mad Max – Fury Road, George Miler fa risorgere dalle ceneri (e dalla polvere) Max Rockatansky, il personaggio che contribuì più di tutti alla sua notorietà come regista in tutto il mondo, e che lanciò definitivamente un giovanissimo e sconosciuto Mel Gibson nello star system internazionale. Un tam tam mediatico fatto di indiscrezioni, immagini rubate e trailer mozzafiato ha anticipato l’uscita col botto di un film il cui ritorno, a quanto pare, in moltissimi aspettavano con speranza e trepidazione, come si può evincere anche dall’accoglienza trionfale all’ultimo Festival di Cannes.

Come più volte sottolineato dallo stesso Miller, Fury Road è una rivisitazione dell’immaginario legato alla trilogia dedicata al Guerriero della strada. Per cui chi in questi giorni sta storcendo il naso di fronte all’eventuale mancanza di continuità filologica ed estetica con i capitoli precedenti (troppi effetti speciali… troppo ben confezionato…) dovrebbe fare un passo indietro e riflettere con serietà su questa epopea post-atomica partorita dal regista australiano ormai 36 anni fa. Si dovrebbe riflettere innanzitutto sul fatto che non c’è mai stata una vera e propria continuità tra i film della saga (altra dichiarazione di Miller), tenuti insieme forse unicamente dalla presenza di Max, il protagonista che, più che un personaggio reale, diventa la rappresentazione corporea di un’emanazione, di uno spirito evocato ogni volta che se ne pronuncia il nome. D’altronde, i capitoli di questa involontaria epopea sono da intendersi come compartimenti stagni anche dal punto di vista del genere a cui ognuno di loro si rifà. Il primo, Interceptor – Mad Max (1979), racchiude in sé soprattutto gli elementi tipici degli action-thriller di quegli anni – come Duel (id. 1971) o i successivi Terminator (id. 1981) e Cobra (id. 1986) – che fanno emergere una visione del mondo pre-apocalittica in cui i segni di una probabile distruzione totale iniziano ad intravvedersi, e in cui la violenza soggiace e accompagna le vicende senza mai esplodere definitivamente, con il conseguente effetto di produrre una tensione ansiogena costante. Il secondo capitolo, Mad Max – Il guerriero della strada, dà ampio spazio a una violenza ormai priva di ogni tensione generatrice, ma tuttavia elevata al rango di unica spinta alle azioni e alle relazioni tra gli uomini, con un chiaro omaggio alle selvagge ambientazioni senza punti di riferimento tipiche degli spaghetti western alla Leone, con protagonisti senza pietà che parlano attraverso sguardi e gesti, più che con le parole. E infine il terzo capitolo, Mad Max – Oltre la sfera del tuono (1985), forse l’unico che può essere inserito completamente nel genere “fantascienza”, carico di quel sensazionalismo spettacolare che molte pellicole del genere si portavano dietro dagli anni ’80 – come Alba d’acciaio (Stealing Dawn, 1987), Giochi di morte (The Blood of Heroes, 1990) e Waterworld (id., 1995) – e che in quegli anni aveva generato lo stesso tipo di critiche rivolte oggi a Fury Road (troppo hollywoodiano, troppe star, travisato lo spirito originale dell’opera…).

Mad Max – Fury Road non ha continuità con gli altri film e questo è paradossalmente un primo elemento coerente con lo spirito dell’opera. Intanto il genere: certamente un action-movie dai ritmi frenetici (quasi affannosi), ma questa volta con più di un riferimento al genere horror anni ’70 – protagonista di alcuni celebri remake come nel caso di Le colline hanno gli occhi (The Hills Have Eyes, 1977/2006) o Non aprite quella porta (The Texas Chain Saw Massacre, 1977/2003) – e con alcune soluzioni estetiche che ricordano molto lo stile di Aronofsky in Il cigno nero (The Black Swan, 2010) o Noah (id. 2014) – come nel caso dell’inquietante bambina fantasma che perseguita i sogni di Max. Eppure, forse data l’età del regista, il quarto capitolo della saga sembra quasi un affettuoso commiato di Miller a quello che è stato il suo film più celebre, proprio per l’attenzione con la quale diversi elementi stilistici (e anche extra-diegetici) sono stati inseriti qua e là nell’opera, facendo di quest’ultimo capitolo uno dei più piacevoli e funzionali esempi di autocitazionismo al cinema: intanto la V8 Interceptor – la celeberrima automobile di Max – che compare per pochissimo nel film, quasi un cammeo per omaggiare i primi due capitoli dell’opera (nel terzo era trainata da cammelli); la presenza di attori australiani e, in primis, di una stagionata eppur sempre bellissima Megan Gale; sempre parlando di attori, non si può non citare Hugh Keays-Byrne – il terrificante Immortan Joe – che compariva anche nel primo capitolo della saga, interpretando anche lì il nemico principale, ovvero Toecutter. Tornano elementi apparentemente insignificanti come il carillon che una delle generatrici suona sull’autocisterna blindata durante un inseguimento, proprio come faceva uno della tribù dei bambini selvaggi in Mad Max – Oltre la sfera del tuono. E a tornare è anche una tecnica di ripresa che, se nei primi capitoli della saga era dettata da un’esigenza in termini economici, in Fury Road diventa di nuovo una citazione, per di più carica di ironia: mi riferisco all’accelerazione dello scorrimento della pellicola per aumentare la percezione della velocità. Rivedendo i primi due capitoli si capisce come l’accelerazione fosse utilizzata per aumentare la velocità stessa dei veicoli nelle scene d’azione – con lo spiacevole effetto di avvicinarle pericolosamente alle gag comiche dei film muti. In Fury Road invece – presente per esempio nel tentativo di fuga di Max dai sotterranei, appena dopo essere stato catturato dai Figli di Guerra – diventa una sorta di rassicurazione da parte del regista, la garanzia allo spettatore che quello in cui è immerso è, sì, un Mad Max più spettacolare e dispendioso, ma che comunque non ha dimenticato le sue origini “povere” e “rustiche”.

Mad Max – Fury Road non è quindi solo una rivisitazione, ma forse è proprio la rappresentazione di tutte le parti migliori di questa saga iniziata ormai quasi quarant’anni fa e che non sembra aver perso il suo potere suggestivo – vuoi per la continuità registica; vuoi perché, forse, siamo in un periodo storico in cui, proprio come 36 anni fa, non è così difficile immaginarsi un destino apocalittico per questo mondo.
Da sottolineare l’efficacia di Tom Hardy come nuovo Mad Max (e chi dice che parla troppo poco vada a cronometrarsi il minutaggio dei dialoghi di Mel Gibson), ma soprattutto la perfetta e struggente interpretazione di Charlize Theron nei panni di Furiosa, incarnante il vero spirito malinconico della pellicola che, in un inquietante gioco meta-cinematografico, non può fare a meno di confrontarsi ogni istante con la sua dolorosa storia passata.

Voto: 8,5

Giorgio Mazzola

INTO THE WILD

Regia: Sean Penn

Sceneggiatura: Sean Penn

Anno: 2007

Durata: 140’

Nazione: USA

Fotografia: Eric Gautier

Montaggio: Jay Cassidy

Scenografia: Derek R. Hill

Costumi: Mary Claire Hannan

Colonna sonora: Michael Brook, Eddie Vedder

Interpreti: Emile Hirsch, Marcia Gay Harden, William Hurt, Jena Malone

TRAMA

Il film racconta la storia vera di Christopher McCandless, un ragazzo di famiglia benestante il quale, dopo la laurea conseguita nel 1990, decide, prima, di donare tutti i suoi risparmi in beneficenza e, in seguito, di partire per un viaggio lunghissimo negli USA, dal Messico all’Alaska. Christopher, di fatto, scompare da tutto e da tutti, decidendo di adottare lo pseudonimo di Alexander Supertramp dopo aver distrutto tutti i suoi documenti. Lo attende un viaggio incredibile, costellato di incontri che gli cambieranno la vita, alla scoperta delle terre selvagge degli Stati Uniti.

RECENSIONE

Quarto film da regista per Sean Penn e sicuramente il più travagliato, sia prima che durante la sua lavorazione: un’incubazione di almeno 15 anni; le difficoltà nel convincere la famiglia Mc Candless ad acconsentire uno sceneggiato sulla vita del figlio; le condizioni proibitive nelle quali la troupe si è trovata a dover girare, tra deserti caldissimi e gelide foreste del nord. Un lavoro estenuante che ha comunque prodotto un film di spessore grazie soprattutto alla determinazione di Penn, innamoratosi del soggetto dopo aver letto il romanzo di John Krakauer da cui è stato tratto, ovvero Nelle terre estreme (Into the Wild, 1997).

Un film di spessore, dicevo. Una fotografia mozzafiato di Eric Gautier che già aveva dato prova di bravura in I diari della motocicletta (Diarios de motocicletta, 2004) e che qui si trova costretto a dare il meglio di sé per descrivere i veri protagonisti di questa pellicola, vale a dire gli stupendi paesaggi naturali americani. Il fascino di una storia vera; l’intensità dell’ambientazione; la suggestiva divisione in capitoli “trascendentali”; il ritmo narrativo che si appoggia a quello trascinante delle canzoni di Eddie Vedder e delle musiche di Michael Brook e Kaki King; elementi importanti e caratteristici che sembrano elevare questo film a un livello di tutto rispetto, ma che in realtà ne costituiscono impietosamente la vera e un po’ misera essenza. Se durante la visione del film, infatti, si passa gran parte del tempo ad ammirare montagne, laghi, deserti, animali di qualsiasi tipo; e ad ascoltare l’infinita sequela di massime che escono dalla bocca del protagonista, in un generale e invadente revival hippy neanche troppo celato, allora mi nasce quantomeno il sospetto che tutto sia finalizzato a oliare la gigantesca macchina della suggestione che sembra stare alla base di tutto il lavoro. L’impressione è quella di star di fronte ad un gigantesco videoclip ad altissimo budget, dato che risulta talvolta difficilissimo riuscire a capire se siano le musiche a supportare la storia o viceversa. Nel tripudio anticapitalista (definizione generosa) che pervade il film, infatti, la voce di Eddie Vedder sembra quasi sgomitare per ottenere un’attenzione maggiore, rivendicando in qualche modo il ruolo di “bandiera della ribellione contro la società” che si era illusa di incarnare quando ancora era parte del sound dei Pearl Jam. E’ proprio l’insopportabile e costante insistenza sul trinomio “musica ribelle – natura selvaggia – protagonista contro le regole” che rende questa pellicola una sorta di gigantesco meccanismo atto a soddisfare il sentimento di “vaffanculo al mondo” che sicuramente sarà stato presente in molti di quelli che avranno amato questo film.

Non sto giudicando i fan di Into the Wild, ma sto esprimendo le mie perplessità nei confronti di chi l’ha giudicato un prodotto assolutamente magnifico e privo di ogni difetto. Il film in sé è molto ben strutturato, visivamente impeccabile e astutamente sorretto da una colonna sonora magistrale. Ma se tutto questo, come dicevo in precedenza,  è finalizzato solamente ad alimentare e solleticare la suggestione e le fascinazione del pubblico, allora il punto di vista cambia e non può che essere negativo. Approvo il film in sé, ma lo boccio prendendomi tutta la responsabilità di un processo alle intenzioni.

Giorgio Mazzola di HostClub

Voto: 6

JODOROWSKY’S DUNE

Regia: Frank Pavich

Soggetto: Frank Pavich

Sceneggiatura: Frank Pavich

Anno: 2013

Durata: 90’

Nazione: USA, Francia

Fotografia: David Cavallo

Montaggio: Paul Docherty, Alex Ricciardi

Musiche: Kurt Stenzel

Interpreti: Alejandro Jodorowsy, Michel Seydoux, H.R. Giger, Chris Foss, Nicholas Winding Refn, Amanda Lear, Richard Stanley

RECENSIONE

Nel 1975, il regista cileno Alejandro Jodorowsky viene scelto per dirigere il film tratto da uno dei capisaldi della fantascienza mondiale, ovvero Dune, il romanzo di Frank Herbert del 1965. Il visionario regista inizia così una delle più interessanti e coinvolgenti ricerche di collaboratori che si sia mai vista. Mick Jagger, Salvador Dalì, Orson Welles, Gloria Swanson e David Carradine tra gli attori; Pink Floyd per le musiche; H. R. Giger, Chris Foss e Moebius per le scenografie, il character design e lo storyboard; Dan O’Bannon per gli effetti speciali. Un vero e proprio cast stellare al servizio di quello che doveva essere il più importante e controverso film di fantascienza di tutti i tempi, ma che invece è sempre e solo rimasto un grande script su carta per colpa della fredda accoglienza da parte di Hollywood che non concesse il finanziamento necessario per la sua realizzazione.

Presentato al Festival di Cannes del 2013, Jodorowsky’s Dune è un avvincente documentario che accompagna lo spettatore nel magico mondo di quello che sarebbe potuto essere il più grande film di fantascienza di sempre (o almeno degli anni ’70). A scandire il magico ritmo è lo stesso Jodorowsky che racconta le vicende e le vicissitudini della preparazione del film alternando il suo grottesco inglese al nativo spagnolo, in una sorta di piccolo e simpatico turbine poliglotta dall’appeal irresistibile. Frank Pavich dirige un viaggio esplorativo che cresce d’intensità lungo tutta la sua durata, alla scoperta di progetti di astronavi, di storyboard ultra dettagliati – che Syd Garon ha animato con risultati suggestivi –, di costumi provocatori, di illustrazioni mozzafiato (Giger su tutti) e aneddoti riguardanti gli interpreti (il “corteggiamento” di Jodorowsky a Orson Welles, quest’ultimo convinto a partecipare al film grazie alla promessa di avere uno chef stellato sul set che gli preparasse da mangiare; e i capricci di Dalì che voleva essere pagato centomila dollari al minuto). Un turbine di meraviglie e di aspettative grandiose che purtroppo finisce con lo scaturire nello spettatore un senso di spaesamento e di entusiasmi stroncati ogni volta sul nascere, a causa dell’onnipresente conclusione che aleggia senza pietà nell’aria: questo film non è mai esistito, se non nella testa del suo carismatico regista – sensazione che in ogni caso è in perfetta armonia con il rimpianto rabbioso che trasuda dalle parole di Jodorowsky, soprattutto al termine del film, quando si scaglia contro la vigliacca miopia di Hollywood. Cosa è rimasto, dunque, di questa eterna promessa? Innanzitutto un gigantesco volume cartaceo con tutti gli storyboard, i disegni, i dati tecnici di funzionamento dei robot e delle astronavi, ma anche una sequela di geniali e innovative soluzioni formali e linguistiche, specchio inequivocabile del genio del regista cileno. Un volume che, a detta di Jodorowsy, tutti gli studios conserverebbero nei loro archivi e dal quale pare abbiano ampiamente attinto per realizzare molti dei film fantascientifici degli anni a venire (non sfugge nessuno: da Star Wars a Terminator, non c’è n’è uno che non abbia in sé anche solo una particella di Dune). Il colpo di grazia arriva però alla fine (si sa, la vendetta è un piatto che va servito freddo), quando il viso di Jodorowsy si distende in un sorriso liberatorio, mentre racconta la sua sofferente visione al cinema del Dune di David Lynch: dapprima affranto, il regista cileno non può che gioire per quanto il film del suo collega fosse orrendo – forse il suo peggiore in assoluto – tanto da esser chiaro alla prima visione che non sarebbe stato altro che un fallimento, un drammatico flop. Un finale dolceamaro che sicuramente non consola e non giova a nessuno e in cui tutti risultano sconfitti.

Il documentario di Pavich è un buon lavoro, che coinvolge lentamente e progressivamente lo spettatore alla maniera di un diesel. Ma che purtroppo ha al suo interno tutte le insopportabili ingenuità che i documentari made in USA si portano dietro, come l’eccessiva enfasi con la quale gli intervistati commentano ogni particolare della vicenda (dalla semplice trama del libro di Herbert, alla descrizione della carriera di Jodorowsy fino a quel momento) e la necessità primaria di comunicare allo spettatore quale grande magnificenza sta apprestandosi a vedere (una delle prime affermazioni, proprio all’inizio del documentario, è quella “misurata” di Nicolas Winding Refn il quale, con uno sguardo ipnotico da dietro i suoi occhiali, dopo aver raccontato di come Jodorowsy gli raccontò il suo Dune sfogliando insieme a lui lo script, a un certo punto esclama: «Quindi in un certo senso sono l’unica persona che abbia mai visto Dune di Jodorowsy. Sono l’unico spettatore che ha visto il film. E vi dirò una cosa: è meraviglioso»).

Il documentario finisce quindi con il costruire non la storia di un film mai realizzato, ma quella di un vero e proprio mito cinematografico, una sorta di spirito immanente grazie al quale tutti i film di fantascienza del Ventesimo Secolo hanno potuto essere realizzati con successo, proprio perché pregni della genialità del regista più visionario in circolazione in quel periodo. Possibile? Forse sì. Esagerato? Altrettanto probabile.

Voto: 6,5

Giorgio Mazzola

IL GIOVANE FAVOLOSO

Regia: Mario Martone

Sceneggiatura: Mario Martone, Ippolita Di Majo

Anno: 2014’

Durata: 137’

Produzione: Italia

Fotografia: Renato Berta

Montaggio: Jacopo Quadri

Scenografia: Giancarlo Muselli

Costumi: Ursula Patzak

Colonna sonora: Sascha Ring

Interpreti: Elio Germano, Michele Rondino, Isabella Ragonese, Massimo Popolizio

TRAMA

Il giovane Leopardi cresce in una casa-biblioteca, sotto lo sguardo severo del padre.

RECENSIONE

Vita del poeta italiano Giacomo Leopardi, dalla sua giovinezza nella casa di Recanati – sotto l’ossessiva protezione del padre Conte Monaldo, della gelida presenza dell’austera madre Adelaide, ma anche con  il sincero affetto di due dei suoi numerosi fratelli, Carlo e Paolina – fino alle peregrinazioni in giro per l’Italia assieme all’amico Antonio Ranieri, che lo portarono a Firenze, a Roma e in seguito a Napoli.

Con Il giovane favoloso, Martone mette in scena uno dei biopic più complessi e delicati che il cinema italiano ricordi. Una responsabilità enorme che però il regista affronta con una maturità e un’audacia che fanno dimenticare le piccole – seppur fastidiose – lacune che si palesano soprattutto nella seconda parte della pellicola, quando le linee guida della sceneggiatura e la coerenza nella costruzione del personaggio sembrano qua e là venire meno.  Le migliori ed emblematiche qualità del film trovano infatti il loro apice soprattutto nella parentesi dedicata alla giovinezza del Leopardi, nella prima metà del film, che vede il trionfo, nella tecnica registica, di una poetica e di un’estetica che non credo sia esagerato definire di stampo espressionista. Martone riesce infatti nell’impresa di non raccontare pedissequamente la vita di Leopardi scandita dalle sue opere, ma piuttosto la genesi e l’evoluzione della sua immanente sofferenza attraverso la rappresentazione visiva di alcuni suoi scritti più famosi – di particolare effetto la scena dedicata a L’infinito –, evitando in maniera magistrale il fortissimo rischio di trasformare il film in una sorta di docu-fiction in costume che soddisfacesse in gran parte le aspettative degli amanti del Leopardi in versi. Il film di Martone diventa un vero e proprio affresco, una garbata eppure incisiva stesura di colore scuro applicata su una tela pulita ma grezza, che incarna appieno l’acuirsi dell’incompatibilità profonda tra il poeta e le cose di questo mondo, in un vortice che trascina inesorabilmente verso l’abisso il protagonista e chi gli sta attorno. La vita di Leopardi diventa il racconto di una costrizione claustrofobica – sia fisica che psicologica – che traspare dagli occhi dell’ottimo Germano e che il regista non manca di descrivere con la più evidente caratteristica che contraddistingue la sua personale interpretazione del taglio delle inquadrature: il vero e proprio leitmotiv estetico – di stampo quasi smaccatamente wellsiano – che accompagna lo spettatore durante tutta la visione, si traduce nelle opprimenti inquadrature che ingabbiano il protagonista anche quando questi si muove entro spazi piuttosto ampi. Una caratteristica che si esplicita soprattutto in due momenti: il primo, all’interno della casa di Recanati, dove prevalgono le inquadrature dal basso che in qualche modo esasperano l’altezza di Germano per poi soffocarla subito dopo a causa dell’inevitabile presenza dei soffitti ogni volta più vicini e incombenti sopra la sua testa. Il secondo, gli esterni di Napoli, quando invece l’handicap fisico del poeta viene sottolineato dalle impietose inquadrature dall’alto che lo schiacciano ancora di più verso il terreno e che sembrano accanirsi una volta di più sulla schiena rovinata e piegata dalle deformità ossee – emblematica in tal senso la sequenza che vede il protagonista dialogare con un mendicante durante l’epidemia di colera a Napoli: i faticosi spostamenti di Germano vengono qui descritti da un’inquadratura dall’alto con un’angolazione talmente acuta che della vastissima Piazza Plebiscito nella quale si sta svolgendo l’azione si può solamente vedere il terreno e quasi nulla del resto.

Una claustrofobica rappresentazione del reale senza vie di fuga, in una magistrale traslazione del pensiero leopardiano in linguaggio cinematografico.

Le musiche di Sascha Ring (aka Apparat) cullano la vicenda con una nenia dolce e allo stesso tempo tetra, immergendola in un’atmosfera lugubre e crepuscolare. I brani sono del 2011 (contenuti nell’album The Devil’s Walk): una conferma del fatto che Martone abbia operato un’accurata selezione musicale sondando terreni tutt’altro che ovvi, al posto di appoggiarsi ad una colonna sonora di contorno senza alcuna velleità. Anche in questo caso l’audacia è stata premiata.

Giorgio Mazzola

SIN CITY I – SIN CITY II: A DAME TO KILL FOR

Regia: Robert Rodriguez, Frank Miller

Sceneggiatura: Robert Rodriguez, Frank Miller, William Monahan

Anno: 2014

Durata: 102’

Produzione: USA

Fotografia: Robert Rodriguez

Montaggio: Robert Rodriguez

Scenografia: Steve Joyner

Costumi: Nina Proctor

Colonna sonora: Robert Rodriguez

Interpreti: Michey Rourke, Eva Green, Jessica Alba, Joseph Gordon-Levitt, Juno Temple, Josh Brolin, Powers Boothe, Jaime King, Bruce Willis, Ray Liotta, Lady Gaga

TRAMA

A Sin City ognuno è preda dei propri demoni interiori. Dwight è vittima della passione per la bella Ava Lord, che gli chiede aiuto per liberarsi del marito violento. Johnny è un presuntuoso giocatore d’azzardo che vuole sfidare il potente Senatore Roark. E anche la ballerina Nancy medita vendetta.

 RECENSIONE

Città vecchia: d’amore, di morte e di altre sciocchezze

“Giallo in qualche pozzanghera”

Nove anni dopo sono troppi. Sin City è immutata nell’aspetto ma (quindi) ammuffita nello spirito. Rodriguez, come una bella amante, si è fatto desiderare troppo: le rughe si vedono e il trucco, forse, le accentua. Si pensi al 3D – tecnica volta ad aumentare il fumo e non l’arrosto – che non migliora l’impatto visivo e a tratti lo ostacola, tradendo la natura essenzialmente bidimensionale dell’opera di Miller. Nel tornare a far visita alla nostra città vecchia scopriamo, con amarezza, che la sua realtà è sempre uguale ma per noi non ha più lo stesso significato.

Nulla è cambiato. Basin City continua a essere chiamata Sin City e a coccolare i suoi eroi come fantasmi, dal gigante triste alla ballerina con frusta e pistola. Le puttane scopano, i politici contano soldi e tutti insieme marciscono nei loro vizi e nei loro rimorsi, fumando più di Humphrey Bogart. Ma le curve di Jessica Alba non ci fanno più lo stesso effetto ed Eva Green somiglia troppo all’Artemisia del secondo piccolo 300. Solo il musone tumefatto di Marv invecchia come il vino buono, perché nessuno come Mickey Rourke può rappresentare Sin City in quanto spazio corporeo e insieme irreale, luogo celebrativo dei caduti e dei perdenti.

Saba e De André erano scesi nelle strade di Trieste e di Genova per aprire le porte dei lupanari e purificarci alla vista della sofferenza; il loro restava uno sguardo dall’alto, da estranei spettatori borghesi. Miller prende il fango giallo delle pozzanghere di Saba e lo getta addosso allo spettatore: ci conduce per mano nelle “turpi vie” della sua città del peccato non allo scopo di salvare il nostro animo, ma per corromperlo. Vuole farci abitare la città.

La città e il desiderio

Mosso dall’intento di cui sopra, il primo Sin City di Rodriguez era stato capace di sfruttare le potenzialità del dispositivo cinematografico e le sue tecniche più innovative senza tradire l’essenza fumettistica del capolavoro di Miller. Si è trattata cioè di una perfetta trasposizione, non meramente dei contenuti, ma dello spirito del fumetto, che si gioca interamente nella logica dell’eccesso: 1) dal punto di vista visivo si punta più all’irrealtà che alla surrealtà, attraverso immagini in bianco-nero con green screen e macchie di colore simbolico; 2) dal punto di vista della trama i personaggi sono poco umani perché troppo umani e fumettologicamente stereotipati; i dialoghi solenni, tragici e volutamente vuoti, non dicono nulla ma sono fichi. La coppia che alimenta a valorizza questa logica dell’eccesso è la tensione tragica fra morte e amore, il primo in quanto elemento-limite di ogni esperienza umana, il secondo in quanto unica scintilla di senso: questi due archetipi sono gli unici motori dell’azione. Il primo Sin City era insomma un trionfo dell’eccesso e in quanto tale viveva di un fragile equilibrio, che il secondo film non è riuscito a gestire: il contrasto è evidente soprattutto in uno sbilanciamento a livello di costruzione dei dialoghi (spesso ridicoli) e del coinvolgimento dell’azione (ritmo inferiore e spesso si scivola nel ripetitivo).

A salvare Sin City II è il progetto di fondo. Sin City come città distopica, non-luogo per eccellenza, tutte le città e nessuna, che si vuole raccontare nei scuoi scambi e nei i suoi desideri. Sin City popolata da un’umanità allucinata, di cui ricordare e dimenticare le storie, che si intrecciano fra loro, si perdono, si recuperano. Ci racconta ad esempio la guarigione miracolosa e senza senso del figlio bastardo di un senatore, che poi muore bruscamente e stupidamente senza completare la propria vendetta; scena che spiazza perché in contrasto con l’iniziale aura da vincente del personaggio; scena che delude, perché nel fumetto e nel cinema una vendetta non va mai lasciata in sospeso. Il secondo Sin City è più debole a livello di trama, non solo per il minor valore degli episodi in sé, ma perché l’interrelazione fra i vari personaggi funziona meno: Nancy sembra uscita da una canzone di Leonard Cohen e Marv diventa un burattino.

Il nostro paese dei balocchi assume allora a tratti la forma di una città fantasma: al mattino Rodriguez si è svegliato scoprendosi un asino e i nostri desideri si sono tramutati in ombre. Quando potremo tornarne schiavi? Sin City smette di convincere ma a volte riesce ancora ad affascinare, come una qualsiasi Venezia che si vende ai turisti mentre affonda nel mare.

La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento. Tale potere, che ora dicono maligno ora benigno, ha Anastasia, città ingannatrice: se per otto ore al giorno lavori come tagliatore d’agate onici crisopazi, la tua fatica che dà forma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo.

 Voti

8 (Sin City)

6- (Sin City II: A Dame to Kill)

Patrick Martinotta


Quattro episodi in sequenza. Una donna per cui uccidere, sorta di prequel di Un’abbuffata di morte, con al centro Dwight McCarthy (Josh Brolin) alle prese con la spietata Ava Lord (Eva Green), grande amore della sua vita; Solo un altro sabato sera , in cui Marv (Mickey Rourke) si risveglia tra le macerie di un disastro da lui provocato, ma del quale non ricorda nulla; Quella lunga, brutta notte, incentrata sul giovane Johnny (Joseph Gordon Levitt), abilissimo giocatore d’azzardo al quale viene la pessima idea di spennare il Senatore Roark, l’intoccabile cittadino di Sin City; La grossa sconfitta, dove la bella Nancy Callahan (Jessica Alba), cresciuta e con il cuore un po’ indurito, cerca di vendicare la morte di John Hartigan (Bruce Willis), avvenuta ormai anni addietro, individuando – ancora – nel Senatore Roark il primo responsabile.

Robert Rodriguez e Frank Miller tornano a raccontare le atmosfere cupe e violente della città del peccato, dieci anni dopo il grande successo di Sin City e, purtroppo per loro, con la difficoltà di dover soddisfare un pubblico che, nel frattempo, ha innalzato di parecchio la soglia dello stupore di fronte agli effetti speciali e che ormai è avvezzo alle nuove tecniche digitali a cinema. Tuttavia, proprio quella che poteva essere la causa principale di un insuccesso dovuto alla mancanza dell’elemento attrattivo – anche l’appendice “3D” non è più sufficiente a riscaldare gli animi – diventa una sorta di incentivo a “far meglio” sul piano della scrittura. Rispetto al primo capitolo del 2005, infatti, Sin City – Una donna per cui uccidere si presenta come un lavoro molto più equilibrato e armonioso dal punto di vista del ritmo narrativo. I brevi e a tratti slegati episodi di Sin City sembrano trovare qui una sorta di piacevole amalgamazione che li rende non semplici isolotti fatti di suggestioni, frasi ad effetto e fenomenali effetti al computer, ma capitoli in continuità di una tela narrativa che si estende anche alle vicende raccontate dieci anni fa – e che arrivano a giustificare persino azzardi retorici come il fantasma di Hartigan che protegge la bella Nancy – facendo diventare questo film non solo l’adattamento cinematografico della graphic novel di Miller, bensì un vero e proprio completamento necessario per poter godere appieno delle avventure dei personaggi, così come della costruzione delle loro personalità. A spiccare sono infatti le nuove profondità, le nuove ombre non grafiche, ma psicologiche dei protagonisti: una Nancy depressa che beve e cova la vendetta, un Dwight tormentato dalle sue debolezze messe a nudo da una Ava che incarna la rappresentazione metaforica e raffinata di una bellissima mantide religiosa – ruolo letteralmente cucito addosso alla inarrivabile Eva Green –, un Marv che finalmente non è più solamente il mezzo attraverso cui far risorgere il simulacrum di Mickey Rourke, ma si scopre essere una volta di più il personaggio più interessante dell’intera saga. E poi la freschezza del nuovo, l’episodio forse meglio riuscito di tutti, con un Joseph Gordon Levitt in stato di grazia, anche lui con un ruolo che gli calza come un guanto, in costante e perfetto equilibrio tra strafottenza e disperata malinconia.

Nonostante il cancan mediatico basato sull’ormai obsoleta – e oltretutto il più delle volte inutile – tecnica 3D, Sin City – Una donna per cui morire si salva quindi soprattutto grazie alla narrazione e non all’attrazione. Non dico che forse sarebbe meglio vederlo in 2D, ma quasi.

Voto: 6,5

Giorgio Mazzola

INTERSTELLAR

Regia: Christopher Nolan

Sceneggiatura: Christopher Nolan, Jonathan Nolan

Anno: 2014

Durata: 169′

Produzione: USA, Inghilterra

Fotografia: Hoyte Van Hoytema

Montaggio: Lee Smith

Scenografia: Nathan Crowley

Costumi: Mary Zophres

Colonna sonora: Hans Zimmer

Interpreti: Matthew McConaughey, Anne Hathaway, Jessica Chastain, Wes Bentley, Michael Caine, Matt Damon, John Lithgow, Topher Grace, Casey Affleck

TRAMA

In un futuro imprecisato le risorse naturali della Terra sono diventate così scarse che l’umanità è regredita a una società agricola sull’orlo dell’estinzione. Un team di esploratori deve viaggiare attraverso un buco nero per trovare in un’altra dimensione un pianeta abitabile.

RECENSIONI

Siamo nel futuro, l’aria si fa sempre più spessa e irrespirabile, i raccolti languono, la natura lentamente e progressivamente muore, e noi con lei. Dimentichiamo quello che siamo stati, creatori e esploratori, e cerchiamo di amministrare la nostra fine, nel modo più decoroso possibile, risparmiando le ingenti quantità di denaro richieste e consumate da un’inutile progresso tecnologico, e dedicandoci all’agricoltura, per quanto possibile: questo il presente, il punto di partenza di Interstellar, epico giocattolone che sembra voler rifare il verso a 2001 Odissea nello spazio, senza tema di ricadere nell’ineleganza e nel fragore, laddove Kubrick ricercava nell’abissale silenzio dello spazio oscuro la misura al tempo stesso tragica e grottesca della nostra condizione nel ritmo cadenzato e bidimensionale del Donauwalzer di Johann Strauss, non mancando di iniettare a là Tarkosky nella fredda trama fantascientifica, e anche qui senza risparmiarsi, corpose dosi di emotività e di sentimentalismo: il romanzo familiare, sopratutto, e l’empatia umana troppo umana tra la macchina e l’uomo.

Straordinarie le immagini delle galassie lontane, delle superfici inospitali dei pianeti inabitabili visitati dai nostri protagonisti, dei buchi neri con i loro contorni aurati, e favolosi i paradossi della relatività e dello spaziotempo finalmente raccontati attraverso il drama e non semplicemente con l’impura teoria, in sé stessa di indiscutibile poesia e stupore, anche se non di altrettanto facile né universale palatabilità. Certo, un film imperfetto, meno serio di quanto in molti si aspettassero, meno preciso, meno attendibile di quanto quasi tutti credessero dovuto, incline tanto quanto Gravity alla licenza poetica, ma forse il problema sono le nostre aspettative, da quando è diventato di moda aspettarsi dalla fantascienza il rigore documentaristico e iperrealista della scienza, quando di quest’ultima non ha mai cercato di trattenere nient’altro che la pura fascinazione, instillando semmai in quei pochi eletti in grado di coglierlo un briciolo di quella curiosità che alle nostre vite comunemente non appartiene.

Personalmente, non mi aspettavo molto di più da un regista, certamente geniale, sempre capace di ammannirci un divertimento d’alta classe, da grande prestidigitatore, ma senza spessore, un regista la cui maggior dote non è mai stata quella di fornirci una maggiore comprensione della realtà né di indagare le profondità dell’animo umano, quanto piuttosto la sua straordinaria capacità di esaltarsi e di esaltarci vellicando la nostra parte più proclive alla violenza e all’emotività, suscitando quella nostra naturale simpatia  umana verso chi, alla fine della lotta, si erge vittorioso, e mascherando il tutto attraverso una manichea e semplicistica distinzione di bene e di male, senza nessuno spunto di riflessione critica (diversamente da David Cronenberg in A History of Violence, tanto per fare un esempio): sbagliato aspettarsi di più? Certo, oggi come allora.

Diversamente intelligente, e molto più complesso e di difficile fruibilità, l’ultimo film di David Michôd, The Rover, che racconta di un futuro ugualmente irrespirabile e di un’umanità agli sgoccioli, ridotta all’impossibilità di mascherare la propria miseria dietro una benestante ipocrisia, film catastrofista che non intende trasmetterci paura per il nostro futuro, quanto piuttosto mostrarci, attraverso le lenti distorcenti del cinema, la vera dimensione del nostro presente, dove l’aria si fa già sempre più irrespirabile, e dove le nostre pulsioni individualiste, e dunque distruttive e autodistruttive, già operano libere e incontrastate, nell’esaltazione ideologica generale.

Voto: 8

Giuseppe Argentieri


Non sopravvivrà un’altra generazione nella Terra, vicina all’esaurimento delle risorse alimentari e violentata da polveri tossiche. L’agricoltore ex-pilota della NASA Cooper viene reingaggiato dall’agenzia spaziale con la missione di trovare un nuovo pianeta in cui la vita possa proliferare in un’altra dimensione raggiungibile attraverso un wharm-hole . Ma i paradossi spazio-temporali legati al viaggio interstellare fanno sì che l’umanità potrebbe essere già estinta a missione compiuta.

Se Gravity di Cuaron era un film tutto giocato sulla fobia dello spazio aperto, l’ultima fatica di Nolan trova il proprio perno in un’agorafobia del tempo. Si tratta dell’angoscia di una temporalità sconfinata, che si flette in infinite dimensioni e sprofonda in buchi neri, rendendo impossibile recuperare qualsiasi cosa si sia lasciato alle spalle. È la solitudine estrema di uomini sperduti in abissi di tempo, la cui unica missione riguarda l’esigua temporalità cui il nostro pianeta è condannato. Si costruisce così ancora una volta un complessissimo sistema narrativo in cui diverse dimensioni di mondo diventano simultanee e concorrono verso un’unica soluzione, che aveva già fatto di Inception un esempio esplicito di sublime cerebrale. In questo senso il film raggiunge la sua massima efficacia quando può dar sfogo a quella che è la principale abilità del regista britannico, ossia il montaggio alternato più complesso e virtuosistico del cinema contemporaneo. La tecnica del montaggio alternato consiste nel far apparire come simultanee diverse azioni concomitanti: l’esempio più classico della storia del cinema è quello del salvataggio, che da Nascita di una nazione (1914) di Griffith in poi è stato riproposto in infinite varianti. In Interstellar può abbracciare addirittura diversi sistemi temporali che progrediscono verso il comune fine della salvezza: il tempo della terra, dello spazio aperto, dei pianeti  e delle dimensioni in cui si rimane ancorati. Raggiunge così nella parte centrale del film vertici di complessità, comunque proporzionale alla suspense percepita (e da intendere in senso letterale, trattandosi di assenza di gravità).

Ma se in Inception l’intrico gargantuesco del plot poteva poggiare sulla pura immaginazione, tale da conservare tutta la sua potenza immaginifica anche se non ricostruito nei minimi dettagli, in Interstellar la pretesa di fare della fisica teorica il principale motore della trama finisce per scadere nel didascalismo più arrugginito. Questo accade in particolar modo nella prima parte, dove i dialoghi sembrano stralciati da Dal Bing Bang ai buchi neri di Stephen Hawking, e non c’è svolta narrativa che non si faccia annunciare da uno spiegone sulla teoria della relatività o sui wharm-holes. Didascalico risulta anche il senso spirituale che attraversa tutta l’opera, riguardante il potere dell’amore (in particolare tra Cooper e la figlia Murph) di trascendere le barriere di spazio, tempo e gravità, che troviamo enunciato in modo lezioso e superfluo dal personaggio di Anne Hathaway a metà film. Ma nella seconda parte la forza visiva di tradurre in immagini, anche discutibili (la lucina iridescente che contorna il buco nero!) gli elementi più misteriosi dell’astrofisica prende il sopravvento, e l’esplodere del montaggio risulta il mezzo visivo più potente per comunicare l’infinita vertigine del tempo. Anche se tutta la complessità scientifica ed esistenziale di cui il film è intessuto si scioglie alla fine in un troppo semplice Deus ex machina, finendo per sembrare una complessa equazione che si risolve nel modo più banale una volta che si è scoperta la regola.

Voto: 6,5

Giancarlo Grossi


Christopher Nolan ovvero dei grossi buchi neri

“And you, my father, there on the sad height,
Curse, bless me now with your fierce tears, I pray”.

Cosa offre Interstellar? Personalmente, non è riuscito a darmi nulla. Non mi ha fatto riflettere, non mi ha sorpreso. Riuscire a incuriosire e a intrattenere lo spettatore per quasi tre ore sarebbe già un ottimo risultato, ma non se alla fine si rimane con l’amaro in bocca. Interstellar è intenso ma confuso, capace di ergersi a specchio della forza e allo stesso tempo dei limiti dell’opera di Nolan. Una scena del film, in particolare, sembra confessare emblematicamente la sua operazione cinematografica e la sua poetica: fare due puntini su un pezzo di carta e poi spiegazzare il foglio per unirli. Tutto qua.

La prima qualità di Nolan è la sua capacità di cingersi di un’aura da autore visionario, al punto da sentirsi accreditato a paragonarsi a Kubrick. Interstellar è il suo film più ambizioso, non solo dal punto di vista estetico: tutti gli elementi – a livello di sceneggiatura, regia, montaggio e colonna sonora (la continua alternanza fra rumore e silenzio) – cercano continuamente il contrasto, in primo luogo quello fra cosmico e intimo. È evidente che il soggetto fantascientifico rappresenta un pretesto per giocare con il tema delle nostre radici – la nostra casa e i nostri figli, nel senso più ampio di questi termini. Interstellar diventa un film di fantascienza dal punto di vista visivo, ma in fondo è un lungo-lungometraggio sulla paternità, l’amore, la speranza, la forza di volontà e tanti altri buoni sentimenti. L’ambientazione cosmica ha la pretesa di creare la distanza critica per osservare l’uomo e disegnare un nuovo umanesimo: ma alla fine del film tutto è uguale a prima, anzi tutto crolla e collassa, al punto che i diffusi paragoni (non dico con 2001!) con Gravity sono impietosi: il film di Cuaròn nella metà del tempo riesce a dire molto di più, mostrandosi superiore da tutti i punti di vista (in primo luogo estetico).

Il punto debole del film – paradossalmente – è la sceneggiatura. Nolan utilizza l’assodata tecnica “a spirale”, che mira a trascinare lo spettatore nei suoi ingranaggi al fine di disorientarlo: le teorie della relatività temporale rappresentano, in questo caso, il suo strumento magico. Trattandosi di un film di fantascienza non importa tanto la verosimiglianza della trama, quanto la sua credibilità; concetti che vanno ben distinti. A stonare non sono tanto le varie contraddizioni scientifiche che attraversano il film (qui lasciamo la parola ai molti scienziati che popolano il web), quanto la sensazione che neppure gli autori della sceneggiatura sappiano di cosa stanno parlando: Gargantua è un’abbuffata di contraddizioni e di teorie (o pseudo-tali), è nient’altro che il solito enorme buco nero della fantascienza di serie b, ossia il concetto-limite dove l’illogico è giustificato. Ma Gargantua non riesce a scagionare gli enormi buchi neri della sceneggiatura. La sviolinata finale sull’amore cosmico per “spiegare” l’incommensurabilità della quinta dimensione è assolutamente patetica. Un’aggravante è tentare, ancora una volta, di fondare il film su alcuni colpi ad effetto che purtroppo si intuiscono già a metà. Interstellar si rivela insomma un lavoro di mestiere, ma meno riuscito rispetto alle precedenti operazioni del regista: la sua complessità serve solo a celarne la confusione di fondo e il contrasto è pienamente avvertibile nei dialoghi, costantemente oscillanti fra il cervellotico e il patetico. L’ambizione di trascendere le tre dimensioni dà vita a un film piatto.

Altro elemento utile a comprendere la strategia propagandistica di Nolan – la sopra citata abilità a costruire attorno ai propri film un’aura, in questo caso anche credibilità scientifica – è la tenacia nell’informare lo spettatore che il film ha avuto la supervisione del teorico specializzato Kip Thorne. Ma a noi non ce ne frega niente. Non basta nominare un astrofisico per dare credibilità a una sceneggiatura. Così come non serve citare in continuazione Kubrick per avere una poetica. Non serve chiamare ogni volta in causa lo spettro dell’amore per colmare i vuoti di ciò che non riusciamo a concepire. Il ritratto di Nolan qui emerso sembra quello di un artista a metà: un prestigiatore suggestivo solo finché il suo complicato meccanismo stroppia e ci lascia senza niente in mano. Se non due puntini su un pezzo di carta spiegazzato.

Voto: 4,5

Patrick Martinotta


A quasi cinque anni di distanza da Inception, Christopher Nolan si tuffa ancora una volta nell’insidioso genere fantascientifico, affrontandolo con quelli che ormai sono diventati col tempo i tratti peculiari della sua cifra stilistica, ovvero una sceneggiatura granitica in cui tutti gli elementi si incastrano perfettamente, effetti speciali mozzafiato e una cura particolare nella scelta delle musiche. Paragonato da molti a 2001: Odissea nello spazioInterstellar è in realtà un melodramma che ingloba molti elementi individuati anche in altri film del genere, in particolare in Contact e Signs, ai quali Nolan sembra essersi ispirato soprattutto per la sostanziosa e rilevante presenza della componente emotiva – in particolare, la costante del rapporto padre-figlia; e inoltre la situazione familiare, l’ambientazione “agricola” e la soffusa atmosfera “esoterica” tipica soprattutto di SignsInterstellar mescola così le tematiche scientifiche già incontrate in 2001 (l’evoluzione dell’uomo; l’indeterminatezza del concetto di tempo e la possibilità di viaggiare attraverso più dimensioni) con le forti e a tratti invadenti parentesi emotive che, per forza di cose, diventano il supporto necessario per l’ottenimento di un successo commerciale sempre dichiaratamente inseguito nelle maxi produzioni statunitensi (la costante della gravità che si trasforma nella forza dell’amore, così immutabile e resistente a qualsiasi cambiamento; la geniale rappresentazione dello spazio tempo – incarnato dalla raffigurazione estetica della libreria che si ripete all’infinito – che si esplicita grazie al viaggio all’interno del buco nero, viaggio che diventa inesorabilmente la tangibile proiezione visiva del più affascinante, misterioso, ma anche angosciante trapasso nell’Aldilà). Il sentimento si fonde con la fantascienza, con il chiaro intento di accontentare più palati possibile – siamo lontani dalla freddissima e respingente atmosfera di Inception – e con la piacevole (ma per altri avvilente) sensazione di aver assistito alla versione Bignami, alla riduzione “per principianti” dell’inaccessibile capolavoro di Kubrick, dato che il significato sia “scientifico” che morale del tema trattato emergono grazie anche alla capacità del regista di accompagnare lo spettatore per mano nei meandri di tematiche altrimenti troppo complicate. Nolan si riconferma così il regista chiarificatore,  colui il quale non inventa nulla, ma che chiude tutti cerchi lasciati aperti nei film dai quali attinge avidamente.

Le musiche di Hans Zimmer (candidato all’Oscar) sono semplicemente perfette e conferiscono alla pellicola un’aura solenne che dona ulteriore spessore alla vicenda.

Da vedere.

 Voto: 8,5

Giorgio Mazzola


La sopravvivenza dell’umanità è ormai agli sgoccioli. Solo un’altra generazione ancora potrà probabilmente veder sorgere  l’alba, offuscata da immani tempeste di sabbia che saturano l’aria e minano mortalmente la salute di coloro che ancora resistono. La società, divenuta prettamente agricola, arranca nella costante lotta contro la piaga, che anno dopo anno distrugge i raccolti, portando la popolazione alla fame ed alla morte. In questo contesto Cooper, ex pilota ed ingegnere, lotta come tutti per la sopravvivenza della propria famiglia, ridotta ormai ai due figli ed al suocero.

“Il prossimo anno andrà meglio” è la frase che gli agricoltori si ripetono costantemente, ogni volta che la piaga si accanisce su di una coltivazione, portandoli a dover bruciare il campo. Di  anni però ne restano ben pochi, la fine prossima dell’umanità è presente negli occhi di tutti, che si aggrappano con fede a quel brandello di speme che, come brace sopita, arde nel DNA umano. Non c’è più nulla da fare se non resistere e combattere con le poche armi a disposizione: tenacia e speranza. Ed è la spinta alla sopravvivenza, la spinta dei legami familiari e dell’amore che condurrà Cooper ed altri scienziati oltre le soglie dell’universo conosciuto, attraverso il tempo e lo spazio. Per la salvezza dei propri figli, Cooper si butterà in un’impresa epica e coraggiosa, spinto da quell’amore genitoriale che pone in secondo piano la propria vita. La morte è una possibilità ammissibile, se questo comporterà la salvezza dei propri discendenti e dell’umanità stessa. Ed è lo stesso vincolo d’amore che lo lega alla figlia Murph ( e qui un piccolo accenno alla legge di Murphy in cui tutto ciò che può accadere accadrà) a dargli la forza ed il coraggio necessari  per superare anche i propri limiti.

Qui, presente e passato si fondono, corrono su binari paralleli, si ritorcono su se stessi, ripercorrendo quello stile caro a Nolan.  L’attendibilità  scientifica  di un viaggio attraverso un wormhole diventa verosimilmente plausibile, grazie alla collaborazione del fisico teorico Kip Thorne, senza però dimenticare  che, sempre di fantascienza stiamo parlando! Nolan ci mette di fronte ad una finestra in cui l’orizzonte è immaginabile, forse anche tangibile e probabile. Si corre sul filo del rasoio, fra verità e  finzione. Film molto coinvolgente ed emozionante, dal mio punto di vista, in cui ho potuto respirare, in alcuni punti, l’atmosfera di vecchi film cult. Nessun picco negativo o momento di noia per tutta la sua durata, non breve. L’essere uscita dalla sala di proiezione ed avervi continuato a pensare spesso, anche nei giorni successivi è dimostrazione di non esser un film da sottovalutare.

Voto: 7,5

Laura Cortese


Interstellar ha creato una netta scissione di partito tra chi lo elogia e chi lo critica, diventando in poche settimane un vero e proprio fenomeno mediatico. Matthew McConaughey, fresco di Oscar, è il protagonista tutto d’un pezzo pronto a partire per una missione spaziale che potrebbe salvare gli ormai pochi esseri umani rimasti sul globo terrestre, capace di ammorbidirsi solo quando visiona i videomessaggi dei figli. Anne Hathaway si divide fra la passione per la fisica quantistica e il senso filosofico dell’amore, scegliendo poi (ahimè per lei) quest’ultimo, Jessica Chastain è la rancorosa e risolutrice figlia del protagonista la quale riuscirà a salvare “capra e cavoli” grazie ad un insolito aiuto fornitole dal padre, il veterano Michael Caine è il potente e astuto doppiogiochista ma solo per necessità e infine non poteva mancare il cattivo di turno (in questo caso il matto di turno) interpretato da Matt Damon. Un cast all star interessante ma strano, sperimentale, a tratti un po’ stonato.

Effetti speciali curati, un uso del montaggio soddisfacente e capace di trasmettere adrenalina ed emozionare lo spettatore, così come la fotografia, ma – a mio modesto avviso – non basta per convincere del tutto. Una prima parte con un alone di mistero che invoglia a sapere di più sul destino del nostro pianeta, ormai ridotto a totale deserto, cede il passo a una seconda parte che rischia di appesantire quello che in un film può risultare più difficoltoso realizzare: i dialoghi. Scarni, ridotti all’osso, in totale armonia con l’ambiente (e fino a qui ci siamo), trasformati però in affettati surrogati dei peggiori cliché hollywoodiani, per arrivare verso un finale pienamente in linea col mood di Nolan: onirico e spiazzante ma al limite del grottesco e dell’incredulità, per quanto reso in maniera ottima sul piano tecnico. Un decollo che non mi ha convinto. Né carne né pesce.

Voto: 6-

Francesco Foschini


Diciamolo sinceramente, come tutte le cose che creano grandi aspettative, anche Interstellar conquista, ma non convince del tutto. Centosessantanove minuti che, si rapiscono gli occhi sullo schermo, ma con qualche sbadiglio qua e la’. Non mancherebbe nulla, la regia di Nolan e’ precisa, la trama azzeccata, sviluppata sull’affascinante tema della fisica teorica, gli effetti speciali sono spettacolari, la sceneggiatura regge, ma sopratutto e’ l’interpretazione di attori del calibro di Matthew McConaughey, Michael Caine, Anna Hathaway, Jessica Chastain che danno valore e rilievo a questo scenario. Cos’è che non funziona allora? Il tempo del film.

Una serie di lungaggini che, sicuramente, creano suspance per dei finali che non lasciano poi così tanto senza fiato. E la scelta di un tema così sofisticato, affrontato in passato da altre pellicole, come quello sulla fine del mondo, andava sviluppato con molta più ricercatezza e innovazione. Anche l’amore, che è il collante che muove lo svolgimento del film, porta con se un dramma, quello della separazione e distanza tra un padre e i propri figli per la salvezza del mondo, che non arriva poi così forte e toccante. Al di la delle ulteriori critiche, che si possono sollevare sulle fonti delle teorie fisiche utilizzate da Nolan per articolare il film, la cui veridicità poco interessa, trattandosi di un film di fantascienza. Un vero peccato, data la premessa dei primi trenta minuti della proiezione, che preparano il terreno per un andatura che invece ad un tratto confonde. Interstellar si è rivelato, il classico film americano, botteghino d’incassi, da vedere in quanto spinti dalla curiosità che suscita il nome di grande regista e del suo cast.

Voto: 5

Maritè Salatiello


Tra uomo e natura vi é ormai una sostanziale incompatibilità. Le avverse condizioni climatiche, nonché i frastornanti fenomeni atmosferici, stanno mettendo a dura prova la possibilità per il genere umano di sopravvivere ancora. Quella che nel film Cooper definisce “casa nostra” sembra non avere più le caratteristiche di quell’incostante, ma pur sempre ricco e produttivo, territorio natìo a cui l’essere umano sente, dal momento che la sua vita ha inizio, di appartenere. Quasi inconsapevolmente, egli sviluppa con esso un rapporto strettamente simbiotico che non gli consente, dunque, di immaginare la sua esistenza al di fuori. È proprio questo “fuori” che il film di Nolan cerca di esplorare. Una sofisticata squadra di membri speciali è chiamata a trovare, al di fuori della “nostra” galassia, un plausibile altrove in cui mettere nuove radici e prosperare di nuovo. La missione viene definitiva, appunto, Lazzaro in riferimento alla rinascita e alla nuova consapevolezza che essa si propone di raggiungere.

Oltre il sottile involucro rappresentato dall’astronave non c’é niente. Non esiste nulla che, come dichiara Romilly durante il viaggio verso il Worm Hole, non lo ucciderebbe all’istante. Cooper, in quest’occasione, fa riferimento alla medesima condizione che affligge anche i più grandi navigatori. Se durante un’esplorazione essi cadessero in acqua, morirebbero. Proprio come lo spazio, l’acqua si può dire non abbia una forma predefinità, se l’esploratore ci cadesse dentro, non potrebbe più esercitare alcun controllo, non gli sarebbe possibile respirare autonomamente e potrebbe non riuscire a riaffiorare mai più, perdendosi definitivamente. Cooper e la sua squadra sono loro stessi esploratori, stanno eseguendo una missione importante, il cui destino é indissolubilmente legato al loro e a quello di qualunque altro essere vivente sulla Terra. Quella é la loro barca.

La messa in scena del film richiama una miriade di luoghi sconosciuti facenti parte di una dimensione che potremmo definire ignota. In quanto esseri umani, noi non siamo di fatto a conoscenza di cosa esista oltre un certo limite del nostro sistema solare. La nostra galassia é il limite massimo. Nolan, con il suo film, ci spinge verso una dimensione sulla quale non saremmo nemmeno in grado di fantasticare e in cui ci troviamo completamente spaesati, vittime di un turbinio di emozioni ed ambientazioni surreali in cui niente é come ci aspetteremmo. La dimensione dello spazio e quella del tempo sono fortemente stravolte ed esercitano sui personaggi, quanto sugli spettatori, un effetto spesso straniante. Siamo accompagnati, con non poca fatica, attraverso repentini slittamenti che più personaggi vivono nel contempo rispetto ad altri. Cerchiamo di prendere le misure in un mondo in cui è presente solo un’infinita distesa d’acqua in grado di generare onde enormi capaci quasi di toccare il cielo o, ancora, sorvoliamo i cieli di un mondo le cui nuvole sono solide, congelate. Inconsciamente, proviamo un’inspiegabile fascinazione per lo spettacolo di quell’improbabile ed indomabile evento naturale che vediamo formarsi davanti ai nostri occhi ma, allo stesso tempo, siamo anche fortemente spaventati dalla minaccia che questo potrebbe comportare. Sono mondi fantastici quelli che Nolan ci porta a vedere e lo sono in modo particolare perché (come per ogni fantasia filmica) non possediamo una prova tangibile della loro esistenza ma, in questo caso, non siamo nemmeno portati a negarla categoricamente.

Similmente all’ambientazione dei pianeti visitati e alla incoerente dimensione temporale che scombussola i nostri nessi causali, Cooper si risveglia in un futuro che non potremmo mai riconoscere. La vita non é più la sua fattoria e la sua piantagione di mais (dimensione che riconosciamo antiquata anche secondo i nostri criteri iniziali) ma ci troviamo, per la prima volta, in un futuro aldilà di ogni immaginazione in cui le condizioni climatiche sono predeterminate e favorevolissime, la vita prospera vigorosamente e, grazie alla nuova tecnologia, esiste un modo per spostare l’intera comunità verso pianeti fino ad allora sconosciuti. Il motore della narrazione (come ci é dato riconoscere più avanti) é il legame affettivo che le persone sono in grado di instaurare tra di loro. Inizialmente questa condizione viene percepita come una debolezza, un ostacolo alla buona riuscita della missione e ritenuta, perciò, motivo di esclusione da questa. Successivamente, però, capiamo come sia proprio grazie a questo legame invisibile che diviene possibile per l’essere umano elevarsi al di sopra di quegli inconcepibili luoghi costituiti da parametri che la nostra mente non é, ancora, in grado di capire.

Durante il viaggio nel tempo che Cooper compie passando attraverso Gargantua (il profondo buco nero, detentore della grande verità), il legame d’amore rimasto sempre vivo e presente che lo collega alla figlia Murph permetterà ai due di comunicare ad un livello particolarmente intimo e profondo. Queste preziose informazioni, che permetteranno alla giovane donna di salvare il mondo, le vengono riportate da un luogo di cui non possediamo il minimo riferimento e che facciamo fatica, sia con lo sguardo che con il cervello, a visualizzare e a codificare. Solamente Murph dunque, essere superiore e possessore di una sensibilità unica, sarà in grado di riconoscere e sfruttare questi dati perché capace di superare la rabbia provata verso il padre (conseguentemente al suo abbandono) al fine di riconoscerne il messaggio sul quadrante dell’orologio lasciatole da lui, rappresentante fisico del loro legame. Come dice Amelia, l’amore non é una cosa che abbiamo inventato noi. Esso trascende dallo spazio, dal tempo, non é misurabile. Dovremmo fidarci anche se non riusciamo a capire.

Voto: 8

Cristina Malpasso


Tanti attoroni del momento come l’onnipresente Matthew McCounaughey,  le bellissime Anne Hathaway e Jessica Chastain, il sempre bravo Michael Caine, il fratellino minore di casa di Affleck e Matt Damon al servizio di un film con un budget stratosferico confezionato per puntare dritto all’Oscar, fomentare l’orda di Nolan-maniaci e soprattutto appagare l’ego smisurato di quel regista che mi piace definire come un Michael Bay più filosofico, colto e raffinato… o se preferite più paraculo, furbo e ipocrita. La trama, per quanto condita bene con una serie di spiegazioni scientifiche ed epistemologiche menate, è di una banalità sconcertante: il nostro pianeta sta morendo e tutta la popolazione della Terra è in pericolo, urge al più presto una soluzione. Un ex pilota della NASA viene arruolato per una missione pericolosissima che lo terrà a lungo lontano dai suoi amati figli.

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Se non fosse già stato bollato come capolavoro dell’ultimo decennio ancora prima che uscisse nelle sale, paragonato a 2001 Odissea nello Spazio (ma stiamo scherzando!) e Christopher Nolan  innalzato a nuovo Dio, mi sarei limitata a definire il film come una buona americanata, di quelle che trasudano morale e perbenismo ad ogni inquadratura, senza però mancare per questo di emozionare. Insomma un buon prodotto hollywoodiano, ben fatto e con qualche tamarrata che di certo in questi casi non guasta. Il problema però è che qui non si sta parlando di Armageddon, non c’è di mezzo uno stupido meteorite che sta per colpire la Terra, il cinema di Nolan deve essere molto più cervellotico e profondo e la sua presunzione tale da condurlo ad imbastire storie che pretendono di diventare vere e proprie tesi scientifiche. La volontà di essere macchinoso come Inception si traduce in pochi passaggi complessi, che si richiedono un po’ più di attenzione, ma più che fonderti il cervello intaccano la profondità dei personaggi. Cooper interpretato da Matthew McConaughey è un padre che ama i suoi figli, ma li abbandona con estrema facilità dopo che un illustre professore della NASA gli racconta due cose su una missione per salvare la Terra. Lui era il miglior pilota in circolazione, non importa se da anni fa l’agricoltore e non ha la preparazione atletica per affrontare una spedizione simile, lui è figo e parte comunque! Amelia Brand è la figlia del boss, ha il visuccio carino di Anne Hathaway, una qualche super laurea in ingegneria o simili e anche se avrà finito l’università da tre ore,  pure lei è figa e parte comunque!

Se Interstellar lo si prende come un giocattolone che ha come suo unico scopo quello di divertire sono io la prima ad urlare al capolavoro, purtroppo però il film vuole andare oltre pescando tra le teorie dei viaggio spazio-temporali per farne una questione morale e parlare di rapporti umani. Nolan ha puntato troppo in alto giocando con i grandi, quelli troppo più grandi di lui scomodando persino Stanley Kubrick e prendendo qua e là da tutta la cinematografia di fantascienza. Allora non ci sto, non mi basta la vecchia storia del fogliettino piegato per spiegare la teoria dei buchi neri per andare da A a B senza la dimensione tempo, se mi tiri il pippone pseudoscientifico esigo che a salvare la Terra non sia un agricoltore e una di 30 chili ma due scienziati veri, addestrati per anni solo per quella missione. Se mi filosofeggi su questioni legate all’umanità e al rapporto padre e figlio non ti credo se mi propini la solita storia dell’amore più forte della scienza.

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Un film in bilico tra il voler essere visivamente grandioso, dove la potenza dell’immagine riempie tutte le lacune narrative, e il voler essere macchinoso ad ogni costo fondendo alle teorie scientifiche le questioni proprie della morale. La storia dell’amore che vince su tutto toglie credibilità ai comportamenti dei personaggi ed è una tesi troppo debole per giustificare una frase come: “Perché mi guida l’unica forza che trascende il tempo, lo spazio e la gravità: l’amore”. Non è un capolavoro è solo un film di fantascienza godibilissimo con dei bellissimi effetti speciali (siamo nel 2014…magari lo diamo per scontato!) e come tale va preso.

Voto: 6

Cinefabis


 

VOTI

Patrick Martinotta: 4,5

Giuseppe Argentieri: 8

Giancarlo Grossi: 6,5

Giorgio Mazzola: 8,5

Laura Cortese: 7,5

Francesco Foschini: 6-

Maritè Salatiello: 5

Cristina Malpasso: 8

Cinefabis: 6

Angelo Grossi: 4

NYMPH()MANIAC

Regia: Lars von Trier

Sceneggiatura: Lars von Trier

Anno: 2014

Durata: 123′

Produzione: Danimarca, Germania, Gran Bretagna, Belgio

Fotografia: Manuel Alberto Claro

Montaggio: Molly Marlene Stensgaard

Scenografia: Simone Grau

Costumi: Manon Rasmussen

Effetti speciali: Erik Zumklev

InterpretiCharlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgård, Stacy Martin, Shia LaBeouf, Uma Thurman, Christian Slater, Willem Dafoe

TRAMA

Una ninfomaniaca, trovata da un uomo in un vicolo dopo una violenza, racconta le proprie esperienze erotiche, dall’infanzia fino ai cinquant’anni.

RECENSIONI

Mentre sta rientrando a casa, il vecchio Seligman (Stellan Skarsgard) si imbatte nel corpo di una donna (Charlotte Gainsbourg) accasciata per terra in un vicolo. I suoi vestiti sono sporchi e il viso presenta alcune ferite. Il vecchio decide quindi di portarla in casa sua per darle i primi soccorsi. Al suo risveglio, Joe (così si chiama la donna) decide di spiegare all’uomo come ha fatto a ritrovarsi in quel luogo e in quello stato. Inizia così a raccontare la storia della sua vita, dall’infanzia fino a quel momento. Un racconto diviso in otto capitoli, ognuno con un titolo diverso, ma tutti con lo stesso comune denominatore legato all’importanza cruciale del sesso nella vita di Joe. La donna, infatti, si autodefinisce ninfomane, una condizione che in un modo o nell’altro ha segnato con avvilente puntualità i picchi e le cadute nella sua esistenza.

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Presentato in due parti, proiettate al cinema a qualche giorno di distanza l’una dall’altra, Nymphomaniac chiude la trilogia della depressione, comprendente anche Antichrist (2009) e Melancholia (2011). Von Trier torna alla tanto cara narrazione in capitoli, mettendo in scena forse uno dei suoi lavori più intensi e complessi di tutta la sua filmografia recente. Di Nymphomaniac si è parlato moltissimo, troppo, soprattutto prima dell’uscita ufficiale. Al centro di tutto c’è stata l’occasione ghiottissima di sollevare un polverone mediatico, grazie a un titolo, a una locandina e a un trailer (anzi due: uno soft e uno hard, tanto per stuzzicare ancora di più l’immaginazione, creando altre  aspettative) che non lasciavano granché all’interpretazione. Ma poi è arrivato il film.

Inutile dire che il sesso è al centro di tutto. D’altronde si sta parlando della vita di una ninfomane e delle sue esperienze, dall’infanzia fino all’età di cinquant’anni. Nonostante tutto, però, Von Trier riesce a menare lo spettatore per il naso, trascinandolo nei meandri di quello che in realtà è un film altro. Perché di sesso ce n’è tanto, ma non è lì che va cercato il fulcro dell’intero lavoro. Il sesso in Nymphomaniac è un mezzo, uno strumento attraverso cui il regista mette in scena una realtà parallela. Troppo facile? Forse, ma non credo che sia stata una conclusione tanto comune tra coloro i quali hanno assistito a questo glaciale spettacolo della carne. Se paragonassimo questo film a un viaggio in macchina il sesso non sarebbe l’autista, ma l’automobile.

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Quindi è inutile perdere tempo e energie a farsi sconvolgere dalle scene esplicite (o a fare i puristi, condannando la solita, bigotta censura che costringe a il mercato a distribuire una versione ridotta del film – sono tra quelli, lo ammetto). Non c’entra nulla. Sarebbe come dare la colpa all’automobile per la scelta sbagliata della meta. Il sesso è il tramite, uno splendido e a tratti catartico tramite attraverso cui Von Trier riflette sulla società, l’arte e la condizione umana contemporanea. Una riflessione che parte da lontano, da quell’inconsistenza insopportabile che pervadeva l’atmosfera in Melancholia e che finalmente sembra aver trovato una dimensione, una forma definita in quest’ultimo lavoro, nascosta tra le pieghe di quella che a tanti sarà sembrata un’ evitabilissima fiera di genitali e bocche in movimento. Cos’è dunque Nymphomaniac? Un film sul sesso? Sì. Un film erotico? Assolutamente no. Nymphomaniac è l’antierotismo per eccellenza. Non aggiunge sensazioni, non mette carne al fuoco. Nymphomaniac non mette in scena un crescendo emotivo che trova il suo bollente culmine nell’esplosione dell’amplesso.

Nymphomaniac è soprattutto un film di sottrazioni, di privazioni. È la storia di una fiamma che si spegne, senza speranza e senza un perché. Il sesso è un animale vivo, è qualcosa che aspira, che mangia che si nutre delle vite dei protagonisti e non lascia nulla dietro di sé.  È una storia di sottrazioni perpetuata attraverso i ripetuti atti sessuali che svuotano i protagonisti di ogni loro bene spirituale e materiale: il sesso priva Joe di una vita normale e ben presto le ruberà anche il piacere derivante dalla copula, ovvero l’unica ragione di quella sua vita “anormale” fatta di schiavitù carnale (il volume 1 termina con lei che in lacrime sussurra spaventata: “Non sento niente”). Il sesso priva Jerome della sua dignità, costringendolo ad ammettere di non poter soddisfare da solo Joe; e priva il vecchio Seligman della sua integrità, della sua figura eterea, del suo ruolo di contatto tra un mondo infernale e un altro talmente asettico da sembrare asfittico – ovvero la sua dimensione di uomo a-sessuale che lo obbliga a trovare immagini sempre nuove e sempre molto “normali” da poter associare ai racconti allucinanti di Joe e farli così diventare i titoli dei capitoli.

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Il sesso diventa quindi il togliere, l’estirpare, il soffocare. Svuotamento, ma anche paura dello svuotamento, la stessa paura che prova il passeggero del treno a cui una giovane Joe pratica una fellatio, un rapporto orale che significaprivarlo del seme che deve essere preservato per la fecondazione dell’ovulo di sua moglie –  un bambino che salvi il matrimonio, che tenga a freno la paura di perdere tutto in una traduzione perfetta del non-amore. Ogni capitolo è legato a un oggetto, a un concetto, a un’immagine, a un’idea che in un modo o nell’altro si mostra come un divertente ossimoro rispetto alla situazione che va a descrivere poco dopo, facendo tenere al film un curioso andamento sinusoidale. I nomi dei capitoli rappresentano l’esigenza da parte di Seligman di dare una forma a quello che Joe racconta, un’esigenza che nasce perché ciò che racconta la donna diventa ai suoi occhi inconsistente, incomprensibile, non incasellabile per un uomo come lui che non ha mai provato alcun desiderio sessuale. Seligman ascolta la storia di una donna che, sottrazione dopo sottrazione, perde la verginità, la madre, il padre, il marito, il figlio, l’amante e infine il suo posto nel mondo. Lui si ritrova ad essere l’unica cosa che le rimane, il suo unico amico. Eppure il sesso torna per mietere un’altra vittima e continua la sua opera di privazione, sottraendo stavolta al pubblico l’unico personaggio “normale” all’interno di quel turbine di sensazioni estreme.

L’ultimo della lista è proprio Seligman, l’unico che all’interno del film, incarnando una vera e propria accumulazione di nozioni enciclopediche, rappresentava un triste eppure anche rassicurante tutto che in qualche modo teneva testa allo svuotamento di ogni cosa da parte del sesso, contrapponendosi alla sua furia devastatrice. Un tutto che però risulta vuoto, inanimato, senza forza. Un accumulo senza significato che lo spinge a stravolgere la sua esistenza, tentando di costringere Joe a fare sesso con lui nel macabro e grottesco finale (vero punto debole della pellicola) e diventando così suo malgrado il simbolo dell’ultima ed estrema sottrazione del film, ovvero la privazione della vita altrui attraverso l’omicidio, da parte di Joe, condannata a rimanere sola.

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Von Trier firma un film bellissimo nella sua agghiacciante verosimiglianza, componendo una vera e propria sinfonia di valori al contrario (esemplare lo splendido Episodio 5: La scuola di Organo) che tende al minimo, all’essenzialità della questione. Il Dogma 95 applicato ai contenuti anziché al setting, forse per la prima volta nella sua carriera.

Voto: 8

Giorgio Mazzola di Club Ghost


“Se avessi voluto fare un vero film di sesso avrei filmato un fiore che ne impollina un altro. Per la migliore storia d’amore bastano due uccellini in gabbia”. [Andy Warhol]

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Infastidito da Antichrist e commosso da Malincholia, mi sono avvicinato a Nymph()maniac, come tutti, con una certa curiosità e molto sospetto. La difficoltà di distinguere il confine preciso tra operazione cinematografica e quella commerciale risiede nell’astuzia propagandistica di von Trier di presentare il film come un porno – conscio che si tratta del genere “peggio girato ma anche il più visto” – generando un approccio e un filtro di lettura volutamente superficiale, in grado di giocare con la fruizione dello spettatore, contaminandone a priori la purezza visiva. Costretti, per volontà dell’autore, a partire da tale questione, si deve sottolineare come, ovviamente, in realtà si porno non si tratti; a meno che non si estenda tale concetto fino a fargli abbracciare l’intera opera di von Trier, in virtù della propria natura espositiva, della sua misoginia e dolcezza, sensibilità e violenza, della capacità di stimolare il pubblico fino a farlo impazzire, a provare dolore o a lasciarlo inerte. In questo senso gli elementi pornografici di Nymph()maniac risiedono in una tendenza alla spettacolarizzazione debordante, insomma all’eccesso, alla prolissità, alla noia, all’ironia a volte inconsapevole e altre volte troppo consapevole.

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Nymph()maniac non è un porno ma casomai la sua antitesi, è un film quasi moralista e puritano, al punto che nelle scene di sesso si deve ricorrere alle controfigure o al digitale. Là il sottofondo narrativo è il mero pretesto oppure, nei migliori casi, l’attimo di pausa e di respiro che prepara un nuovo atto sessuale; qui le scene di sesso sono solo il contrappunto per definire il ritmo della tensione psicologica in cui consiste il film. Nymph()maniac non è una scopata fra due soggetti che si espongono l’uno all’altro, ma un’interminabile seduta psichiatrica fra due maschere che si nascondono reciprocamente: alla fine del percorso si svela semplicemente l’assenza di una cura; la nostra ninfa non esce dall’abisso. Ma l’impossibilità di sanare la frattura interiore sembra esibita più che altro dall’incapacità di von Trier di colmare la distanza con lo spettatore, che fa di tutto per stuzzicare, scandalizzare o addirittura violentare intellettualmente, ma che alla fine è lasciato insoddisfatto.

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Nymph()maniac è un nuovo tentativo da parte del regista di approcciare il tema dell’angoscia e della solitudine, che attraversa e muove la sua intera opera. Tale riflessione sull’uomo diventa quindi per von Trier una riflessione sul cinema, ma sempre, in maniera egocentrica, sul proprio cinema: i diversi richiami ai lavori precedenti – su tutti la scena del bambino che viene recuperato dal padre prima che si getti dalla finestra (ma è troppo tardi per lo spettatore che si è già sorbito Antichrist) – non rappresentano però nient’altro, in fin dei conti, che l’ennesimo gratuito divertissement. Il cinema di von Trier sembra mosso da un unico dogma: che non vi sia riflessione senza provocazione. La forza e la debolezza del suo lavoro risiede in questo delicato intervallo in cui la provocazione non diventa offesa gratuita (5+3?) per lo spettatore ma suo strumento di piacere. Alcune scene di Nymph()maniac, se prese nella loro purezza visionaria e giocosa, riescono pregevolmente a creare complicità con lo spettatore, ad esempio nel bellissimo elogio all’essenza poligamica dell’amore tramite la polifonia Ich Ruf Zu Dir, Herr Jesu Christ di Bach. Eppure, nel suo complesso, gli elementi narrativi di Nymph()maniac – a partire dai pesanti dialoghi, più letterari che cinematografici – si rivelano presuntuosi e convenzionali proprio nei momenti in cui vorrebbero essere più profondi o geniali (i vari richiami blasfemi o a giochini matematici); alcune scene potenti non possono giustificare un film di quattro ore. Dopo tanta fatica, un coito interrotto che non può che lasciare delusi.

Voto: 5

Patrick Martinotta


 

Dopo Antichrist (2009) e Melancholia (2012), quella che, non a torto, molti critici hanno individuato come una trilogia (spesso definita la “trilogia della depressione”), confluisce nell’ opera che delle tre è la più totale e importante, ma anche la più ironica e sfuggente, questo monumentale Nymph()maniac che rende sempre più palese quanto il percorso del mercuriale cineasta danese sia uno dei pochi degni eredi, pur in modo estremamente parodico e post-moderno, degli approcci moderni e spirituali di cineasti come Ingmar Bergman o Andrej Tarkovskij. In questo capitolo della sua opera è evidente come von Trier abbia firmato davvero la sua personalissima trilogia sul silenzio di Dio. Parente degenere di quella che in Bergman era composta da “Luci d’ inverno”, “Come in uno specchio” e “Il silenzio”, la trilogia sulla depressione nasce dal presupposto di inquadrare una realtà in cui è venuta meno qualsiasi possibilità di trovare una sintesi che possa ricomporre la frammentazione del reale e facilitare una ricerca di senso, tema certo non nuovo ma che in questo caso trova un’espressione originalissima e profondamente calata nella nostra contemporaneità.

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Come di solito avviene con il regista danese, chi cercherà nelle provocazioni più gridate il centro del film verrà abilmente sviato dalla possibilità di coglierne un senso compiuto. Infatti lo sberleffo principale del film è quello di presentarsi programmaticamente come un’opera superficiale che,  nella forma di una grande confessione-psicanalisi e di una ricerca proustiana di sé attraverso la ricostruzione del passato (non a caso costellata da oggetti che assumono una posizione centrale) della ninfomane Joe, non fa nulla per illuminare le ragioni profonde della dipendenza, né per comprendere il fil rouge che lega i frammenti sparsi dell’ esperienza umana della donna.

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I vari oggetti presenti nella casa monacale del confessore Seligman, che forniscono lo spunto per dare il titolo ai capitoli in cui il film è “frammentato”, dovrebbero contenere ognuno un concetto che, attraverso le continue digressioni  (che in modo enciclopedico toccano i temi più svariati, dalla pesca allo scisma d’oriente, passando per la polifonia di Bach), possa illuminare maggiormente le origini profonde dei comportamenti della donna, e trovare il centro che li lega, in poche parole rimettere insieme l’io frammentato di Joe. Nel vedere il film è difficile che uno spettatore non vada alla ricerca del collegamento tra queste suggestioni culturali e l’esperienza della donna, anzi sembra caldamente invitato a cercarlo. Questa ricerca è però destinata alla frustrazione, perché quella che invece il film ci mostra è una vera e propria anti-confessione in cui gli estenuanti rimandi e le infinite nozioni della cultura enciclopedica (e snob, infatti ignora Ian Fleming) di Seligman rimangono fini a sé stessi e superficiali, non illuminati da nessun vero collegamento con l’esperienza di Joe, né a loro volta illuminanti. Non a caso per la maggior parte si tratta di oggetti estranei alla vita di Joe (non tutti: fa eccezione il dolce ebraico) e presi in considerazione in modo casuale, in modo tale che le riflessioni sterili di Seligman emergono da essi con la caoticità di dei pop-up internettiani.

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 Con squisito senso parodico da parte del regista (e l’oggetto della parodia in questo caso è  a parere di chi scrive soprattutto certo cinema di Peter Greenaway, come reso evidente dall’uso di sovraimpressioni e di scomposizioni dell’inquadratura), i rimandi appesantiscono ulteriormente il senso di frammentazione di Joe, depistandola continuamente dalla possibilità di costruire una riflessione sui vari pezzi della sua vita. E’ questa estorsione da parte di Seligman (personaggio apparentemente luminoso e positivo, la cui ambiguità è abilmente nascosta) il vero atto sadico al centro del film. Così da spettatori ci viene continuamente negata la possibilità di capire l’origine delle azioni di Joe, e il centro che le lega, esattamente perché è negata alla stessa protagonista. In questo senso è centralissimo e magistrale l’episodio sulla moglie tradita, Mrs. H, interpretata da Uma Thurman, l’unico momento del film che spinge Joe a fare i conti con il centro delle sue azioni arbitrarie, occasione di una catarsi tragica che poi si dimostra  freddamente mancata.

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E’ proprio nella sua programmatica superficialità e freddezza, nonché in questi rimandi fini a sé stessi (in che modo il discorso  sulla chiesa d’oriente e quella di occidente rende più comprensibile il perché del masochismo di Joe?), nella piattezza di personaggi che sembrano essere solo l’insieme delle loro azioni , senza una personalità che le leghi (sfido a trovare spessore nel personaggio dell’”unico amato” Jerôme o nel sadico K), che risiede il senso dell’operazione parodica compiuta da von Trier. Il film, sposando il punto di vista di una narratrice intradiegetica che, proprio perché non riesce a ricomporsi e a capire il suo passato, è condannata a osservarlo attraverso una lente che lo appiattisce e lo priva di senso, rendendolo un insieme di parentesi privi di una frase principale che le tenga insieme (questo è a mio parere il senso, oltre quello più ampiamente sottolineato, della trascrizione del titolo del film), spinge a riflettere sulla frammentazione profonda della nostra contemporaneità, dove la conoscenza, per lo più di matrice enciclopedicamente internettiana, assume la forma di un’ accozzaglia di informazioni superflue che, rimanendo scollegate tra loro, costituiscono un ostacolo alla ricerca della verità su sé stessi, e dove la difficoltà sempre più grande di ricostruire il passato condanna alla sua reiterazione (da cui la dipendenza) e ad una sete perennemente insoddisfatta (qui simboleggiata dall’impossibilità di raggiungere l’ orgasmo).

In questo senso Nymph()maniac è davvero un film che mette il dito nella piaga sul nostro presente, nonché l’apice della pars destruens dell’opus vontrieriano rappresentata dall’ ultima trilogia, venuta molto dopo la part construens della trilogia “cristica” de Le Onde del Destino (a oggi a mio parere il capolavoro assoluto del danese), Idioti e Dancer in the Dark. Ed è un apice dopo il quale diventa molto difficile prevedere quali altri sassolini Lars von Trier debba ancora togliersi dalle scarpe.

Voto: 9

Angelo Grossi


I. LVT non è semplicemente uno che fa film, ma un pensatore e un teologo con una precisa idea del mondo. Qual è questa idea? Sarebbe sufficiente immaginare una divinità malvagia che gioca con le sue creature impunemente, dando loro a credere di essere libere mentre il loro destino dipende in larga parte non dalle loro scelte, ma dal caso, dalle coincidenze, dai loro incontrollabili impulsi, o meglio: dalle inclinazioni della suddetta divinità. Semplificando: non è esattamente così che LVT stesso, in quanto regista e sceneggiatore, si comporta con le sue stesse creature? Sottoponendole alla tortura di una trama di cui sono partecipanti passivi, vittime e non attori. Anche in questo caso, ma non è un caso unico nella sua cinematografia, la protagonista, Joe, non ha nessun ruolo nella propria crescita spirituale: il suo preteso vitalismo (Perhaps the only difference between me and other people is that I’ve always demanded more from the sunset. More spectacular colors when the sun hit the horizon. That’s perhaps my only sin) non giunge mai a una piena autoconsapevolezza, la sua vita oscilla dall’estasi alla tragedia senza che lei abbia mai la possibilità concreta di influenzare tale oscillazione. Perché il suo dio (LVT) non l’ha dotata di questa facoltà, ma solo di un perenne, insopprimibile e incomprensibile senso di colpa.

II. Come al solito, hanno detto che questo è un film maschilista. Ma ho letto anche il contrario. Di certo, è un’opera consapevole del differente apprezzamento con il quale comunemente giudichiamo il desiderio sessuale maschile e il desiderio femminile. Del primo dimentichiamo facilmente la meschinità, del secondo impossibile sottrarsi alla tentazione di considerarlo patologico. Ma una diversa considerazione del sesso, ne cambierebbe forse la natura? Impossibile. Il sesso è solo un’altra prova dell’inesistenza di Dio (di un Dio che non sia, appunto, ‘malvagio’). Nessuno di noi è buono, nessuno di noi è libero, nulla di tutto quello che facciamo ha senso, perché nulla sposta di una virgola l’essenza delle cose. Eppure, questo non ci esime dal senso di colpa, dalla responsabilità della felicità che ci manca, della libertà che non abbiamo. Di questo, il sesso, nella insignificante coazione a ripetere, non è che un’immagine perfetta.

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III. Ovviamente il sesso è un pretesto. Certo, ce n’è, ma è il veicolo del messaggio, non il fine: ecco perché è realistico, ma non veritiero, nella misura in cui a interpretarlo non sono gli attori di cui conosciamo volto e nome, ma anonime controfigure. Si tratta di un amo per attirarci e per mostrarci quanto facilmente sia possibile plagiarci. Perché se LVT avesse mostrato le vere celebrità nell’atto di fare sesso, avremmo smesso di guardare il film e cominciato a concentrarci sull’anatomia di Shia Le Beouf, di Stacy Martin… O no? Perché il sesso non deve distrarre dal senso della storia, che è un altro: ovvero una nuova declinazione del tormento interiore di un regista, che non smette mai di parlarci di sé anche quando ci parla di altro, della sua lotta contro la sofferenza, contro la tristezza, contro ‘l’evidenza della cosa terribile’. Fare film non è altro che questo forse, e come la scrittura: cura chi la produce, ma non chi ne usufruisce. Non c’è catarsi per noi, non è possibile uscire dal cinema rigenerati. Tocca a noi immaginare, se possibile, un mondo diverso.

Voto: 8

Giuseppe Argentieri


 VOTI

Patrick Martinotta: 5

Giuseppe Argentieri: 8

Angelo Grossi: 9

Giorgio Mazzola: 8