Archivi categoria: 2013

GIOVANE E BELLA

Regia: François Ozon

Sceneggiatura: François Ozon

 Anno: 2013

 Durata: 90

 Produzione: Francia

 Fotografia: Pascal Marti

 Montaggio: Laure Gardette

 Scenografia: Katia Wiszkop

 Costumi: Pascaline Chavanne

 Colonna sonora: Philippe Rombi

 Interpreti: Marine Vacth, Géraldine Pailhas, Frédéric Pierrot, Charlotte Rampling

TRAMA

Isabelle, una giovane e bella ragazza parigina, inizia una seconda vita fatta di prostituzione a seguito delle prime esperienze sessuali. Uscire dal vortice entro cui si è spinta non sarà facile, nonostante l’aiuto della famiglia e la propria volontà di giovane donna.

 RECENSIONE

Quale sia il confine che separa malizia e perversione da una più semplice, per quanto peculiare, brama di scoperta sia fisica che interiore è qualcosa di difficilmente catalogabile. Innumerevoli sono le chiavi interpretative che dovrebbero essere giudicate più dalla singola soggettività che da prestabilite regole sociali.

Con la pellicola Jeune et jolie, il regista François Ozon si avventura  nell’osservare le stagioni che scandiscono un periodo di cambiamento nell’adolescenza della protagonista Isabelle (Marine Vacht). La diciassettenne, a seguito della prima esperienza sessuale, intraprende un percorso che la porta a prostituirsi nella Parigi dei giorni nostri. Una decisione forte, non dettata dal bisogno economico né tantomeno perché priva di corteggiatori suoi coetanei. Tuttavia una più o meno consapevole spinta a conoscere il proprio corpo e quello dei più disparati partners occasionali la trascina in un turbinio di incontri del quale non riesce fare a meno.

Una pellicola forte e mai giudicante, che riesce a mantenere un tatto dignitoso anche nelle scene più esplicite e forti dove il confronto tra il corpo giovane e acerbo di Isabelle si sovrappone con quello maturo e avvizzito dei suoi clienti. Il regista, navigato nell’occuparsi di tematiche considerate tabù sociali, è in grado di contestualizzare il punto di vista della protagonista con quello di una società, metaforicamente impersonata anche dalla madre (Geraldine Pailhas), dal fratello (Fantin Ravat) e dalle persone a lei più vicine. Una fitta rete di opinioni e reazioni si interseca con la condotta di vita di Isabelle e spinge lo spettatore a farsi della domande, a mettere in discussione le proprie convinzioni e crearsi un’opinione più coerente su fenomeni sociali come questo, che accadono sempre più spesso in questo periodo storico, anche forse a causa di tecnologie e social media sempre più insinuati nell’ordinario.

Un film tributo al cult di Luis Bunuel Belle de Jour, che, senza troppe provocazioni, riportava una storia fuori dal comune che mantiene ad ogni modo gli intrecci narrativi tipici del romanzo di crescita. Nuove esperienze accostate al cambiamento fisico portano inevitabilmente anche la mente a vivere  mutamenti. Le reazioni possono essere innumerevoli e talvolta le più inaspettate.

Così come la macchina da presa indugia sulla spontaneità e la naturalezza di Isabelle nel fare ciò che fa e si interroga sul suo sguardo così malinconico e sfuggente, anche per lo spettatore può essere un’occasione di riflessione piuttosto che di mera condanna o comprensione.

Voto: 7

Mattia Maramotti

CHI HA PAURA DI VAGINA WOLF?

Regia: Anna Margarita Albelo

Sceneggiatura: Michael Urban

Anno: 2013

Durata: 83′

Produzione: USA

Fotografia: Alison Kelly

Montaggio: Aleshka Ferrero

Scenografia: Candi Guterres

Costumi: Tiger Curran

Colonna sonora: Kailin Yong

Interpreti: Anna Margarita Albelo, Guinevre Turner

TRAMA

Anna sta vivendo una crisi di mezza età. Vive nel garage di un amico, è senza lavoro, senza fidanzata, senza motivazioni; finché incontra la bella Katia, che la spinge a scrivere e dirigere un remake di “Chi ha paura di Virginia Woolf?”

RECENSIONE

Anna è una regista 40enne, lesbica frustrata e in cerca d’amore. Ospite di un’amica in un fatiscente garage di Los Angeles, tenta di sbarcare il lunario scrivendo sceneggiature ma i buoni propositi vengono accantonati dagli scherzetti del destino. Dopo l’ennesima delusione amorosa, Anna conosce Katia, potenziale anima gemella, e pur di conquistarla è disposta a escogitare un piano diabolico insieme alle sue più care amiche: girare una versione tutta al femminile del classico di Mike Nichols Chi ha paura di Virginia Woolf? con Katia nel ruolo di Nick (interpretato da George Segal nella versione del 1966). Le riprese iniziano e tutto sembra filare liscio per Anna, ma ben presto si accorgerà che Katia forse non è la persona giusta che sta cercando.

Anna Margarita Albelo, regista e protagonista, ha affermato che “il film parla della lenta scoperta di se stessi, del nostro essere chiusi e ciechi di fronte all’amore anche quando è lì davanti  a noi, pronto a salvarci da un girotondo vizioso di solitudine e paranoie. L’amore trasforma tutto quello che noi abbiamo considerato fino  allora difetti in punti di forza”. Presentato con successo in diversi festival LGBT e premiato dal pubblico come miglior lungometraggio al Some Prefer Cake – Lesbian Film Festival di Bologna,  Vagina Wolf è una commedia dai toni rosei e frizzanti, che  gioca  sulla sessualità e gli amori saffici. Un film che vuole rievocare la leggerezza delle commedie americane di Doris Day e Rock Hudson, con una spruzzata di Odorama alla John Waters. Dove la comicità e il brio dei dialoghi, in particolare dei caratteristi (Penelope e Chloe – le due amiche della protagonista), sdrammatizzano con battute al vetriolo le pene d’amore della protagonista, trasmettendo al pubblico il loro divertimento durante le riprese.

Voto: 7,5

Francesco Foschini

EDUCAZIONE SIBERIANA

Regia: Gabriele Salvatores

Sceneggiatura: Gabriele Salvatores, Stefano Rulli, Sandro Petraglia

Anno: 2013

Durata: 110′

Produzione: Italia

Fotografia: Italo Petriccione

Montaggio: Massimo Fiocchi

Scenografia: Rita Rabassini

Costumi: Patrizia Chericoni

Colonna sonora: Mauro Pagani

Interpreti: John Malkovich, Arnas Fedaravicius, Vilius Tumalavicius

TRAMA

La vita del giovane Kolima cresciuto insieme al fratello Gagarin in un paesino della Transinistria, in un mondo dominato dalla violenza, dalla droga e dal disgregarsi di ogni valore.

RECENSIONE

Tra i vari clan di Fiume Rosso – quartiere di una regione della Russia sud-occidentale e composto in largaparte da criminali – quello dei siberiani risulta essere il più temuto. Kolima (Arnas Federavicius) e Gagarin(Vilius Tumalavicius) sono due bambini del clan che vengono indirizzati fin da piccoli da nonno Kuzja (John Malkovich) – capo del gruppo – alla vita criminale, seppur attraverso il rispetto di un rigido codice d’onore che prevede la protezione dei deboli e la lotta alla polizia e alle istituzioni. Questa è l'”educazione” siberiana, un dogma controverso e pieno di simbolismi, dove i tatuaggi non sono meri disegni ma diventano una sorta di specchio dell’anima, in cui si rifiuta l’uso di droga e si aborra il denaro – anche quello rubato – considerato sporcizia a tal punto da vietarlo tra le mura domestiche.

Gabriele Salvatores

La storia, per chi non avesse letto il romanzo di Nicolai Lilin dal quale il film è tratto, sembra essere all’inizio una rivisitazione di “C’era una volta in America” di Sergio Leone o quantomeno un mafia movie in piena regola, solo in chiave sovietica. Non mancano infatti il quartiere malavitoso, l’addestramento dei due bambini all’uso delle armi e i furti che la giovane gang compie beffandosi delle autorità. Il film invece, finisce per essere un ritratto intimista di Kolima e Gagarin narrato nell’arco di dieci anni, che affronta il passaggio dall’infanzia a l’età adulta dei due protagonisti. Un passaggio che vede il crollo del muro di Berlino e l’arrivo del capitalismo, che porterà i due amici a crescere con prospettive diverse e a scontrarsi sul tema della tradizione e della fede al credo del clan.
In questo lungometraggio Salvatores decide di buttarsi nel gelo della Siberia con un’opera che per certi versi si distacca da quelle precedenti tanto per l’ambientazione quanto per la trama, nonostante sullo sfondo rimangano i temi della fuga e della libertà tanto cari al regista. Il film è piacevole e scorre senza annoiare lo spettatore, con alcune scene intense che hanno quasi sempre per protagonista un bravissimo John Malkovich, capace di incarnare alla perfezione il ruolo di leader carismatico del clan. La fotografia di Italo Petriccione è ottima, e viene esaltata in particolar modo nelle sequenze in cui Kolima finisce in carcere e inizia a fare tatuaggi.

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Il punto debole del film è la sceneggiatura, che in alcuni passaggi chiave risulta essere un pò fiacca, soprattutto nell’approfondire alcune dinamiche della storia che rischiano di diventare poco chiare, in particolar modo per chi non ha letto il romanzo di Lilin. Anche il finale è un pò frettoloso e, nonostante i 110 minuti di film, un quarto d’ora in più avrebbe reso maggior giustizia all’epilogo e non avrebbe intaccato gli equilibri della pellicola.
Il film di Salvatores è in conclusione un buon lavoro, forse non il suo migliore ma sicuramente da vedere. “Educazione Siberiana”, sebbene riesca a suscitare interesse per la cultura del clan dei protagonisti e verso una terra che sembra dimenticata dal mondo, non riesce a imporsi del tutto come un grande film, dando la sensazione di essere per certi versi incompleto, come se non riuscisse mai a sprigionare quella forza e quella personalità che hanno invece caratterizzato alcune precedenti opere del regista napoletano.

Voto: 6.5

Carlo Tambellini

LA MIGLIORE OFFERTA

Regia: Giuseppe Tornatore

Sceneggiatura: Giuseppe Tornatore

Anno: 2013

Durata: 124’

Produzione: Italia

Fotografia: Fabio Zamarion

Montaggio: Massimo Quaglia

Scenografia: Maurizio Sabatini

Costumi: Maurizio Millenotti

Colonna sonora: Ennio Morricone

Interpreti: Goffrey Rush, Jim Sturgess, Sylvia Hoeks, Donald Sutherland

 

TRAMA

Virgil Oldman è un battitore d’aste ed esperto d’arte che viene contattato da una donna misteriosa e incaricato di stimare il contenuto di una vecchia villa in rovina.

 RECENSIONE

L’intento di Tornatore è costruire un puzzle complesso che celi la figura di fondo; un labirinto la cui apparente via d’uscita (il rapporto amoroso fra i due protagonisti) si rivela una trappola, il mostro pronto ad annientare ogni speranza. Ma il capovolgimento finale anziché stupire appare scontato e puzza d’imbroglio: col procedere della trama gli ingranaggi del film cigolano e il meccanismo s’inceppa, rivelando impietosamente – dietro l’ottima regia – le debolezze di una sceneggiatura eccessiva e pretenziosa, che si contorce (cercando invano una profondità e compiutezza di senso) all’interno di una dialettica verità/finzione ripetuta sino al rigurgito.

La migliore offerta 2

La trama si rivela poco convincente e ingestibile, finendo col dilatarsi oltre il necessario e risultare fastidiosa in alcuni punti troppo espliciti (l’automa) o posticci (la nanetta che si ricorda tutto!, il nome del protagonista, Virgil-“virgin” Oldman). Né i (pochissimi) personaggi né le loro relazioni sono descritti in maniera credibile: se la figura di Billy è evanescente, il rapporto d’amicizia fra Virgil e il meccanico Robert (personaggio la cui ambiguità è peraltro introdotta in maniera sempliciotta) appare non meno improvviso e ingiustificato di quello amoroso fra Virgil e Claire (il cui apice è rappresentato col montaggio ripetuto di alcune pacchiane scene di passione).

La migliore offerta 1

Tornatore mi sembra l’esempio più lampante della deformazione del cinema italiano, nel suo innaturale tentativo di aprirsi al modello americano. Probabilmente le vie per far tornare grande il cinema italiano si nascondono altrove.

 Voto: 5,5

Patrick Martinotta

LEI

Titolo Originale: Her

Regia: Spike Jonze

Soggetto: Spike Jonze

Sceneggiatura: Spike Jonze

Anno: 2013

Durata: 126’

Produzione: Spike Jonze

Paese di produzione: Stati Uniti

Fotografia: Hoyte Van Hoytema

Montaggio: Jeff Buchanan, Eric Zumbrunnen

Scenografia: Austin Gorg

Costumi: Casey Storm

Colonna sonora: Arcade Fire

Interpreti: Joaquin Phoenix, Amy Adams, Scarlett Johansson (voce)

TRAMA

Nella Los Angeles di un futuro non lontano, Theodore lavora in un’agenzia scrivendo lettere personali per conto di altre persone; lasciato dalla moglie, non riesce a rifarsi una vita, finché non inizia una relazione sentimentale con un sistema informatico di nuova generazione.

RECENSIONE

Achille e la tartaruga

È storia recente la notizia del (presunto) superamento del famoso test di Turing, accolto con vertigine ed entusiasmo dal pubblico – non solo accademico e scientifico – di un’umanità alla continua e confusa ricerca di tracce che lo proiettino in un futuro (prossimo) in cui reinventare se stessi. Molto e troppo si potrebbe discutere dell’assottigliamento di quella distanza fra umano e artificiale che potrebbe rimanere sempre infinita quanto uno dei passi della tartaruga di Zenone. Troppo potremmo filosofeggiare sull’esigenza dei sogni umani di confrontarsi con un limite da superare, in rapporto a un altro da sé, un’alterità, un altrove. Her ci salva da questo rischio, perché la questione dell’artificiale non rappresenta il nucleo del film di Spike Jonze, ma è solo lo strumento concettuale attraverso il quale discutere, ancora una volta, dell’amore e della solitudine umana. Con sollievo possiamo riporre nel cassetto il nostro voluminoso Hofstadter o i confronti con i vari Electric Dreams (1984) o Be Right Back della serie Black Mirror. Pur trattando dell’”amore ai tempi del virtuale”, la dimensione autentica di Her non è quella della fantascienza. Il futuro disegnato da Spike Jonze attraverso i suoi colori pastello non tende al surreale ma all’iper-reale, non a una sovversione del presente ma a una sua saturazione. Il primato della tecnologia non viene urlato o esagerato ma è lo sfondo che, emergendo nei dettagli, conferisce originalità a quella che ha la struttura di una normale storia d’amore.

Her 3

 A Love Story?

Her comincia come una favola dal sapore dolceamaro in cui tutti gli elementi concorrono a far immergere e immedesimare nella storia: la fluidità della narrazione, le musiche avvolgenti, la raffinatezza della regia, la voce di Scarlett Johansson (talmente vivida da rappresentare essa stessa una presenza concreta) e gli occhioni azzurri di Theodore (magnificamente interpretato da un Joaquin Phoenix in grado di reggere da solo la scena per 120 minuti). Il protagonista e l’ambiente che lo circonda sembrano inizialmente rappresentati in reciproca opposizione. Nell’epoca delle macchine umane troppo umane è stato sottratto all’uomo il tempo della comunicazione, quel tempo che lo ha fatto entrare nella storia creando la storia stessa: più che l’avvicinamento dell’artificiale all’umano è accaduto il contrario. Theodore, abbandonato dalla moglie, dedica interamente le sue giornate a un’occupazione d’ufficio paradossale, che consiste nello scrivere lettere personali o intime per conto di altre persone; attraverso il suo lavoro sembra l’unico capace di donare autenticità alle relazioni umane ormai anestetizzate. Quando conosce Samantha, però, la figura stessa di Theodore rivela progressivamente la sua ambiguità, facendo emergere alcuni lati del suo carattere legati all’incapacità di affrontare la realtà, nella sua quotidianità e consistenza. Proprio nel momento in cui Lei cerca un corpo e una carne come medium alla propria virtualità, la relazione rivela la propria natura: per Theodore Samantha non rappresenta altro che uno strumento perfettamente controllabile (in apparenza) al punto da generare dipendenza. Presentato come favola romantica che tenta di dare sostanza all’amore togliendogli carne e materia – la locandina sottotitola “A Spike Jonze Love Story” –, Her si rovescia nel suo opposto, ossia in una rappresentazione drammatica dello svuotamento dei rapporti umani, che diventano riflesso o estensione di sé sfociando nella massima solitudine. L’amore come simulacro.

Her 2

Voto: 8

Patrick Martinotta

LA GRANDE BELLEZZA

Regia: Paolo Sorrentino

Soggetto: Paolo Sorrentino

Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello

Anno: 2013

Durata: 142′

Produzione: Italia/Francia

Casa di produzione: Indigo Film, Medusa Film, Babe Films, Pathé

Fotografia: Luca Bigazzi

Montaggio: Cristiano Travaglioli

Scenografia: Stefania Cella

Costumi: Daniela Ciancio

Colonna sonora: Lele Marchitelli

Interpreti: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Iaia Forte, Carlo  Buccirosso, Pamela Villoresi, Isabella Ferrari

TRAMA

Jep Gambardella, affascinante giornalista e scrittore, “primo fra i mondani” della vita notturna di Roma, il giorno del suo sessantacinquesimo compleanno comincia una malinconica riflessione sulla sua vita e sul mondo che lo circonda, per cercare, fra le maglie di un paesaggio vuoto e assurdo, il barlume di una speranza e di una Grande Bellezza.

RECENSIONI

A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: “La fessa”. Io, invece, rispondevo: “L’odore delle case dei vecchi”. La domanda era: “Che cosa ti piace di più veramente nella vita?”

La grande bellezza

Basandoci, per pigrizia, sul confronto con Fellini, porrei in secondo piano l’immediato richiamo alla Dolce vita per affermare casomai un parallelismo con E la nave va, altro film barocco e inevitabilmente noioso, ma capace di esprimere perfettamente l’impossibilità di raccontare il niente. Non la decadenza di Roma e dell’Italia sembrano essere l’oggetto de La grande bellezza, ma il tempo perduto, la vecchiaia e il suo disincanto. La città eterna, orgogliosamente chiusa nella prigione del proprio passato e nell’immobilismo dei suoi monumenti, diventa protagonista in quanto dimensione spaziale esemplare per rappresentare l’idea di tramonto. Ma la Roma di Sorrentino diventa una città da cartolina, non meno goffa e caricaturale di quella del Woody Allen di To Rome with Love, col suo corteo di personaggi-macchiette. Ben lontano dalla poetica metafisica di Fellini, lo stile di Sorrentino si rifugia nel grottesco: la sua indiscussa abilità tecnica finisce con l’infastidire, scivolando troppo spesso in leziosismi e prolissità alla peggior Terrence Malick, con sarcasmo saccente (travestito da sagace ironia) e monologhi autocompiaciuti (mascherati da brillanti dialoghi). Finisce tutto così, a questo niente, nascosto sotto il chiacchiericcio e il bla bla bla.

Voto: 4

Patrick Martinotta 


I. Nella GB non c’è una trama vera e propria (in realtà c’è), ma una serie di personaggi che ruotano attorno al protagonista, Jep Gambardella, uno scrittore in disarmo che immaginiamo ricchissimo, e che ama girovagare per Roma, come un flaneur d’altri tempi. Le sue passeggiate, accompagnate da una colonna sonora magistrale, sono i momenti migliori del film; lasciando libera l’immaginazione si riesce a sognare in compagnia di quest’uomo, che ha eretto a condizione universale la sua solitudine e la sua tristezza.

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II. Jep non è un nichilista, come in molti hanno sottolineato, ma un cinico, che cerca di resistere all’attrazione gravitazionale del cinismo contemporaneo. Che differenza c’è tra nichilismo e cinismo? Una differenza piccola, questa: se il nichilista non crede in niente (e in questo senso lo siamo stati tutti almeno per un momento), il cinico crede nelle piccole cose: non esistono (più) grandi ideali liberatori (l’amore, la libertà, …), ma per converso non esistono (più) neanche grandi tragedie (soffriamo tutti, chi più chi meno: non c’è nulla di notevole in questo). Il cinico crede nelle cose minute, come le strategie e giochi di prestigio, alle quali s’affida per sopravvivere. Nei momenti migliori di questo film, troviamo un protagonista che aspira a credere in qualcosa di più grande, che aspira a tenere viva la fiamma dell’illusione che ci possa essere qualcosa di preferibile all’arido quotidiano, fatto di piccole cose miserabili, ma cosa? Bisogna vedere il film per saperlo, e arrivare fino alla fine. Nei momenti peggiori, invece, Jep cede al costume contemporaneo, volendo schiacciare gli altri alla misura della propria mediocrità (l’artista simil Abramovic, la scrittrice impegnata, ecc.). Questo è un limite enorme.

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III. Molti hanno amato e odiato questo film per gli stessi motivi: l’apparente inafferrabilità del suo significato. C’è chi ha un gusto per l’ambiguità (e tutto sommato non ama ragionare sul senso dei film), e c’è chi invece odia la noia e ama divertirsi, e ha dunque bisogno di un filo da seguire, di una storia che appassioni o diverta. In entrambi i casi si perde qualcosa di questo film, che ha al suo centro un’idea forte, che è quella della bellezza – della sua inafferrabilità, della sua estrema fuggevolezza – attorno alla quale ruotano le storie, le immagini, le musiche e tutte le chiacchiere che sentiamo dall’inizio alla fine. Nei suoi momenti migliori questo film lascia credere che sia possibile a tutti, almeno una volta, partecipare di questa bellezza, incarnata in un incontro in una persona in un amore, e che questo possa durare e dare senso, l’unico senso possibile, alla vita, nei suoi momenti peggiori, invece, il film sembra implicare che non c’è significato possibile se non nel ricordo, e che dunque ci sia, in fondo, sempre preclusa la possibilità di una vita felice e significativa. La felicità è impossibile, perché se la viviamo non sappiamo dirla, e riusciamo a dirla solo quando è finita. Non c’è nulla di universale in questa declinazione cinica dell’esistenza. Solo una forma di stanchezza del pensiero, alla quale siamo facilmente proni, oggi. Un film, per esempio, non è una piccola cosa.

Voto: 8

Giuseppe Argentieri


 

VOTI

Patrick Martinotta: 4

Giuseppe Argentieri: 8