Regia: Quentin Tarantino
Sceneggiatura: Quentin Tarantino
Anno: 2015
Durata: 187 (versione 70mm)
Nazione: USA
Fotografia: Robert Richardson
Montaggio: Fred Raskin
Scenografia: Yohei Taneda
Costumi: Courtney Hoffman
Musiche: Ennio Morricone
Interpreti: Samuel Lee Jackson, Kurt Russel, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Demiàn Bichir, Tim Roth, Michael Madsen, Bruce Dern, James Parks, Chaninng Tatum, Dana Gourrier, Zoe Bell, Quentin Tarantino (voce narrante)
TRAMA
Wyoming, dopo la Guerra di Secessione. In una diligenza che viaggia nella neve, il cacciatore di taglie John Ruth detto il boia accompagna la criminale Daisy Demorgue a Rockwell, dove l’attende la forca. Nel tragitto si uniscono il collega Maggiore Marquis Warren, ex soldato sudista con carico di cadaveri, e il nordista Chris Mannix, ex criminale che si presenta come prossimo sceriffo di Rockwell. Una bufera di neve costringe la diligenza a fare tappa nell’Emporio di Minnie, dove sono attesi da altri quattro uomini: un messicano che gestisce l’emporio in assenza della padrona, un anziano generale dei Confederati, un flemmatico boia e un misterioso mandriano. Sono otto personaggi spietati e potenzialmente armati. Chi nasconde la propria identità? E soprattutto chi sopravvivrà al micidiale incontro-scontro?
RECENSIONE
L’ottavo film di Quentin Tarantino, girato in Ultra Panavision 70 mm, si caratterizza, in un orizzonte cinematografico sempre più rideterminato dalle novità di un digitale infinitamente replicabile e trasmissibile, come un’esperienza cultuale unica, titanico sforzo di recupero di un’aura della fruizione filmica irrimediabilmente perduta – si veda in questo senso la splendida analisi offerta da Giona A. Nazzaro su Micromega, che non a caso scomoda Walter Benjamin – che ridoni al feticismo cinefilo l’unicità spazio-temporale del proprio oggetto privilegiato (il film). La gigantografica quanto desueta Aspect Ratio che ne deriva – un rapporto 2:75:1 con la base enormemente più vasta dell’altezza – utilizzato da kolossaloni d’antan quali Ben-Hur e Gli ammutinati del Bounty per allargare l’orizzonte visivo delle scene all’aperto, è però fatta precipitare in due claustrofobici quanto minacciosi interni: quello di una diligenza (Ombre rosse di John Ford come conditio sine qua non dell’immaginario western) e quello non meno pericoloso dell’emporio (qui è La cosa di John Carpenter a fare da paradigma). Abitati da un odio implacabile che sembra avvolgere il mondo come un’aria mefitica che del tutto contrasta con il crocifisso di pietra che apre il film per tutta la durata dei titoli di testa, tormentato dalla bufera in un orizzonte sconfinato. È tale formato forse per questo sprecato? O il modo migliore per offrire l’unicità di un’esperienza che ancor prima che cinematografica sembra teatrale, concentrata nella trappola di un interno in cui ogni personaggio sembra un attore che non è chiaramente ciò che dichiara di essere, e dove il gioco delle parti si rivelerà micidiale.
Il dialogo di Tarantino, pur noto per unire la più vasta ricchezza verbale con i feticci della cultura pop e uno sconfinato potenziale visivo con la divagazione nel becero quotidiano, non è mai stato così denso. Attraversato da un’ironia più nera e sottile del solito, disegna le interazioni tra i personaggi, il progressivo consumarsi della loro compresenza nell’esplosione della violenza più radicale, con una preponderanza assoluta rispetto all’immagine, la quale rinuncia al citazionismo spaghetti western per far sorgere un altro disperato senso di classicità. Infarcita, quest’ultima, non solo della mitologia del West, ma anche e soprattutto dell’enigma poliziesco di agathachristiana memoria (chi ha avvelenato il caffè?). Cui va aggiunto l’amore cinefilo per il telefilm western anni ’70, tipo Bonanza, nel quale bisognava scoprire progressivamente l’identità dei cattivi ospiti della puntata che prendevano in ostaggio tutti i protagonisti. Formidabile è in questo senso lo straniamento introdotto dall’anacronistica voce fuori campo del narratore.
L’emporio è così l’ennesimo teatro-spazio chiuso simulacrale in cui i soggetti si smaterializzano in ruoli astratti da interpretare in un mondo di carneficine, orizzonte che da sempre catalizza l’immaginario tarantiniano – come il capannone di Le iene, la tavola calda di Pulp Fiction, la locanda dei fiori blu di Kill Bill, la taverna di Inglourious Basterds, la casa padronale di Django. Dove si gioca un immaginario gioco delle parti, in cui la via d’uscita è solo nel concreto mondo reale, a volte del tutto inaccessibile (Le iene). Ma in cosa consistono le “interpretazioni” dei personaggi di The Hateful Eight, che li dividono e uniscono nel medesimo micidiale palco? Sono qui date dal sanguinoso teatro delle fratture politiche all’origine dell’identità americana, sorta dai resti della guerra di Secessione e dalla sua violenza identitaria e razzista. È per questo che si è parlato di un Tarantino più politico, dove diventa solo più esplicito un discorso che attraversa tutta la sua produzione, il progressivo “scatenamento” dai vincoli delle identità immaginarie consacrate nei ruoli precostituiti – in questo caso generali, colonnelli, boia, sceriffi del Sud e del Nord – che si spappolano nei resti di uno scontro dove il Mito irrimediabilmente deflagra. Il tutto sostenuto da una narrazione che dilata infinitamente i tempi offrendo una dimensione di paradossale realismo – su tutte le sequenze la schitarrata di Daisy che come in pochi film, tra cui A proposito di Davies dei Coen, è ripresa senza stacco alcuno. Temporalità che contribuisce in modo netto al senso di irripetibilità che immerge il racconto: si potrebbe dire che i personaggi sembrano recitare ogni volta per la prima, di fronte ai nostri occhi. È forse l’aura di unicità data da questa straordinaria esperienza filmica, sorta nell’orizzonte della pervasiva fruizione internettiana delle immagini che aveva rubato al regista la sceneggiatura insieme al desiderio di girare il film, a farne un atto politico irreversibilmente incisivo. Un cinema di respiro profondissimo che consacra Tarantino come classico definitivo.
Voto: 10
Giancarlo Grossi
Che dire? A me il film è parso mal riuscito: per tempi e modi. Ovvero molto lento e pletorico nel dire e mostrare; molto indiretto e timoroso nel dire ciò che dice. Non credo basti gonfiare l’immagine con steroidi tecnici per ottenere una visione più profonda della realtà; non credo nemmeno che il soggetto e le idee di cui una pellicola è il vettore siano indifferenti. E qui, sine ira ac studio, mi pare che Tarantino abbia preteso dal pubblico di osservare con pazienza ciò che nemmeno lui aveva del tutto chiaro. La vicenda narrata resta banale, perché è poco meno che banale la caratterizzazione dei personaggi, mai approfonditi davvero nella loro orditura psicologica (parlano per battute ad effetto istantaneo, sempre fuori dallo specifico momento narrativo) e morale (sono tutti ugualmente efferati e vendicativi, ma senza incrinature dovute a motivazioni soggettive: pensano tutti secondo il medesimo schema). Anche i meriti musicali del maestro Morricone sono stati anabolizzati grazie all’enfasi con cui Tarantino l’ha genuinamente promosso: ma ben altre sono state le colonne sonore per cui il nostro doveva essere premiato.