DECALOGO II

Titolo originale: Dekalog, dwa

Regia: Krzystof Kieslowski

Sceneggiatura: Krzystof Kieslowski, Krzystof Piesiewicz

Anno: 1988

Durata: 55’

Produzione: Polonia

Fotografia: Edward Klosinski

Montaggio: Ewa Smal

Scenografia: Halina Dobrowolska

Costumi: Hanna Cwiklo, Malgorzata Obloza

Colonna sonora: Zbigniew Preisner

Interpreti: Krystyna Janda, Aleksander Bardini, Artur Barcis

COMANDAMENTO

“Non nominare il nome di Dio invano”

RECENSIONE

Una vita e una morte sembrano indissolubilmente congiunte e solo un falso giuramento – in questo senso la trasgressione indiretta al secondo comandamento del titolo – riesce a sciogliere il legame e a far trionfare la vita in un lieto fine inaspettato. Ma i toni sono fortemente drammatici, nelle atmosfere come nei dialoghi e nella predominanza del silenzio, di tanto in tanto prepotentemente rotto da musiche malinconiche o da invadenti suoni di telefoni o campanelli. Il silenzio serve forse a sottolineare un’alterità, a porre una distanza critica rispetto agli eventi: questo è anche un possibile significato del famoso “testimone silenzioso” che compare misteriosamente in tutto il Decalogo (in questo caso nel ruolo di infermiere); noto anche come “angelo”, appellativo appropriato nella misura in cui rappresenterebbe una figura mediatrice, capace di inserire un’alterità all’interno della trama degli eventi; l’angelo e il silenzio sono inseparabili.

Alcune scene molto esplicite hanno una grande potenza simbolica e sono capaci di riassumere in sé i principali elementi del film. Non stupisce la ricorrenza del tema del liquido (non certo una prerogativa di Kieślowski, basti pensare a Tarkovskij), che può ergersi a simbolo di vita o di morte, valorizzando di volta in volta il silenzio o il fracasso, la memoria o l’oblio, l’immobilità o lo scorrere del tempo. Se nel Decalogo 1 l’improvviso spargersi dell’inchiostro aveva annunciato l’inaspettata tragedia, qui lo sgocciolare dell’acqua (come sangue) da un soffitto in rovina enfatizza il dolore della malattia, la vita che se ne va, salvo poi improvvisamente risorgere; il capovolgimento finale è stavolta preannunciato dall’efficace scena della vespa invischiata nello sciroppo dal quale riesce faticosamente e insperatamente a uscire.

Il contrasto fra vita e morte è già implicito nella contrapposizione fra la cura per le piante del medico e l’azione disperata e distruttiva di Dorota, che ne strappa a una a una le foglie per poi piegarne il gambo – scena bellissima, mi ha colpito molto. Il medico è il passato, che non sa far altro che rifugiarsi nella memoria; Dorota è nevroticamente dispersa nel presente tanto da non sapersi promessa di futuro (il figlio che ha in grembo e che sta per distruggere). Il futuro forse redimerà il passato, ma è il passato a salvare il futuro – dandosi però, come sempre, nella forma dell’illusione e dell’inganno.

 

Voto: 8

Patrick Martinotta

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